Rumore bianco

Rumore bianco (1985)
Don DeLillo

Una invisibile nebbiolina tossica all’interno di un polmone di un professore universitario, una taciuta e indesiderata angoscia nella corazzata psiche di una signora americana della media borghesia.
Corrono insieme, come in un binario, nascondendosi vicendevolmente, finché non si annusano, avvertendosi presenti.
È il momento in cui la solitudine dell’uomo avverte forte il bisogno del sostegno, di un sofà nel quale distendersi, una dolce amaca, ove dondolarsi nell’appena percettibile rumore bianco.
L’anelato momento di pace, invece, lascia il passo a un nuovo tormento, affondando nelle stesse sabbie mobili, respirando lo stesso afrore.
Anni e anni trascorsi nella acritica accettazione di un sistema economico e sociale dispotico e specioso, che ha interessatamente imposto una obbligata quotidianità al ménage familiare.
Una famiglia nevrotica, condannata al consumismo parossistico, quello delle spese sovrabbondanti, che ci spinge ad afferrare cose del tutto inutili, ma che ci appaiono come indispensabili e persino “ sacre “.
Una famiglia annegata dalle onde alte del delta della invadente tecnologia, protettiva in apparenza, ma spesso incapace di mantenere le promesse urlate.
È del tutto evidente: a te, Don, non interessa andare alla ricerca se non dei movimenti primari all’interno della mente, non ti accontenti di parlare di quello che si vede nella stagnante superficie.
Ti si scopre correre verso la follia narrativa, ma è visionaria non allucinatoria, quindi pur sempre all’interno del reale, per parlarci di quello che può esserci appena dieci metri distante da noi, o dieci centimetri dentro di noi.
Ma la vera meta che ti ho visto raggiungere è la splendida irrelatezza della trama o il bellissimo picchettarla con continue e spettacolari sinestesie.
Di contro, la grande ricchezza del parco macchine per viaggiare, delle mille parole nuove da appendere con post-it alle pareti, per colorarle, per liberarle dalla caligine. Ma mi viene un dubbio, giusto adesso: hai forse voluto rappresentare lo scintillio della realtà, suadente e perniciosa? Questo ricchissimo vocabolario è il corrispettivo della fascinosa attrazione della realtà finanziaria? Della illusione che propone?
Già, perché poi, vestita di chiffon o abbigliata da un tait da serata per l’Oscar, l’angoscia della morte arriverà senza profumi, senza clamori; e tutti si faranno in disparte, nessuno vorrà accoglierla in casa, ma ella entrerà, pure attraversando i muri.
Come fai tu con la tua narrazione: senza fare rumore ci lascerai svegli, con il pesante fardello del dover dare una risposta a una questione scoppiettante: verso dove andiamo?
Andiamo a frequentare un corso di portamento o di chiara pronuncia, o corriamo su e giù per le gradinate di uno stadio, o pretendiamo di sopravvivere dentro una stanza infestata dai più velenosi serpenti? Forse questo ci salverà dall’angoscia?
Invece, no! Neppure questo! I serpenti ci morderanno, hanno sempre vinto loro, sin dai tempi di Adamo ed Eva.
Non ci resta che prepararci: siamo abituati a dire addio agli altri, non a noi stessi.
Ma tu hai anche voluto ricordare che già nel 600 a.C. Lao Tse aveva ben chiaro che non c’è differenza fra i vivi e i morti: sono un unico canale di vitalità.

Gianfranco Cammarata