Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro

Adesso è il momento di porci delle domande, mentre là fuori comincia a calare il sole, impallidito dall’ora del tramonto.

Abbiamo accettato di rimanere chiusi in un quasi autistico mondo, incatenati dall’obbligo del dovere, sempre costretti a una comunicazione formale, sempre dentro le righe, incapaci di una pur modesta battuta spiritosa e in seria difficoltà a intavolare una conversazione che sapesse condurre alla relazione con l’Altro.

E sono passati i mesi, gli anni: tutti uguali, come i giorni che si susseguono tintinnati dai compiti da eseguire. Una ingrata monotonia, che ha trovato forza esclusivamente nell’orgoglio di sentirsi appartenere alla stirpe dei dipendenti dall’onore, di questo sentimento che quando tracima annega ogni coltura e strappa anche i più forti gambi.

Un macigno che seppellisce deboli e forti, indistintamente.

Sì, la sconfitta è democratica: fa male a chiunque.

Nei grandi saloni del palazzo del Lord, negli spazi inaccessibili ai più, i potenti, sempre vestiti a modo, altre volte imbacuccati nelle divise militari, non hanno soverchie difficoltà a umiliare il simpatizzante nazista inglese, tutto preso dal suo senso del dovere la compassione ai vinti.

Ma se anche andassimo a indagare la grandezza dei minori, di coloro i quali perdono la loro luce teatrale subito dopo la prima recita andata male, senza aver goduto dei riconoscimenti dell’appartenenza alla magra lista dei grandi maggiordomi, scopriremmo che anche per loro il finale è identico.

L’uno e l’altro appartengono alla rumorosa catena dei sacrificati, delle vittime del senso del dovere.

Lo abbiamo letto in un resoconto presentatoci con una scrittura classica, fashionable, minuziosamente descrittiva, in diversi momenti quasi compassata.

Raramente ci sono stati offerti momenti in cui un cuore poteva vibrare . Abbiamo annusato un bel po’ di sentimento unicamente nell’amore che lega una povera contadina ai suoi animali, perché nella sua imposta solitudine quelli sono i suoi vicini, gli unici.

Per il resto pagine e pagine pallosamente ricche di continui e gelati riferimenti alla buona norma, all’ossequioso rispetto di quel che si deve fare, sempre.

Un Super IO bloccato dai sensi di colpa verso il padre? O un padre idealizzato nella figura del signor padrone, al punto da servire quest’ultimo persino nel momento della morte del padre e di fronte a quello negare persino il dolore che si sta provando, tutto in nome della dignità. Una sorta di dea alla quale dedicare ogni preghiera, ogni stilla di energia.

Scopriremo solo alla fine che qualcuno stava piangendo per noi, in silenzio.

Indefessi, noi siamo rimasti chiusi in un mondo quasi autistico, incatenati dall’obbligo al dovere rispetto all’ideale, per rispetto del quale ci siamo obbligati a una comunicazione formale, sempre dentro le righe, rimanendo incapaci di approcciare autenticamente qualcuno, non sapendo mai produrre nemmeno una battuta spiritosa.

Sarà una fortuna imbatterci in una persona ialina nella esposizione della propria interiorità?

Non è detto.

Schiavi del nostro più autentico Padrone, abbiamo anteposto il nostro senso del dovere e abbiamo scatenato una ancestrale reazione, quella della censura: per anni abbiamo cancella tutto, abbiamo confinato ogni nostra emozione nel magazzino più profondo della memoria, quello che non apre mai il cancello.

E siamo diventati ciechi e sordi. Non abbiamo nemmeno visto o sentito che una donna stava piangendo accanto al cadavere di nostro padre, in vece nostra.

Imbecilli!

Dici di no?

Tu dici che è bene provare ad offrire il nostro piccolo contributo in favore di qualcosa di vero e di degno. Dici che è bello essere pronti a sacrificare molto, nella propria vita, al fine di perseguire delle aspirazioni, e che ciò è motivo di orgoglio e di felicità, quali che siano i risultati che ne conseguono.

Felicità? Ma tu sei matto. O adesso vuoi persino imparare a fare le battute scherzose?

Mi ha preso un senso di mestizia, invece. Ho vicino a me la donna che mi ha amato, che è dovuta fuggire da me, alla quale ho donato solamente scintillanti silenzi e adesso non posso voltare il tempo all’indietro. Oramai c’è solo quel che resta del giorno.

Gianfranco Cammarata