La strada di Swann di Marcel Proust

Sì, davvero: non è stato facile completarne la lettura. Spesso, specie durante la prima metà del romanzo, mi sono dovuto obbligare a procedere, a non mollare. Ho vestito gli abiti del manente e mi sono cooptato nel ruolo del lettore.

Certo, c’era da spogliarsi di tutti i ricordi delle letture adolescenziali, guardare alle cariatidi del romanzo ottocentesco, fermarsi davanti alla porta delle nuove forme di espressione e varcarne il liminare.

Deve averlo fatto anche Marcel Proust, percorrendo La strada di Swann. O, chissa?, magari egli aveva letto poco e quindi gli è stato più semplice di quanto non si pensi. Proust mi perdonerà: so bene che è stato uno studente modello; l’ho scritto solo per una affabulazione. Più sensatamente, i cambiamenti sociali e politici della sua Francia lo aiutavano a verbalizzare in maniera nuova, originale. Fors’anche c’entrano i suoi studi di medicina, le metodiche e cavillose indagini di ogni minuscola organicità.

Fatto sta che Proust scrive meravigliosamente ogni dettaglio, ogni atmosfera, ogni espressione dell’animo: analiticamente, senza tralasciare alcun dettaglio. Non gli importa molto di quello che scrive, del compiuto senso della storia che racconta.

Gli interessa giocare con un atropo, rincorrerlo festosamente lungo stretti viottoli pur ciottolosi, per nutrirsi poi, insieme, del miele dei ricordi.

E nuotare nel Lete, inabissandosi spesso per andare a scandagliare anche fra le sabbie melmose, per strappare loro un indizio, un particolare, un soffio di stato d’animo che possa ricondurre alla ricostruzione del tempo vissuto.

Magari del tempo in cui l’asma non lo aveva impigliato come un echinoderma, frustrandone le aspirazioni. È un viaggio all’indietro, dunque.

Non c’è più la storia, non c’è più il racconto: c’è un altro romanzo, un’altra via da percorrere, c’è La strada di Swann.