La scopa del sistema
La scopa del sistema
David Foster Wallace ( 1987 )
Quel pomeriggio avevo portato con me gli ultimi due album comprati da Pop Music, dopo averli ascoltati e riascoltati dieci volte. Troppo nuove, quelle note, per potere essere immediatamente bagnate nell’aorta. Ma alla fine il dubbio si era insinuato: erano dei capolavori, originalissimi. “Nursery crime” e “Gentle Geant” venivano da altri pianeti musicali, dove gli strumenti hanno forme diverse da quelle che si suonano sulla Terra. Quando li feci ascoltare al mio bassista, l’eco che mi rimbalzò fu laconico: “ Riportaglieli indietro ! “ Mi arrivò una mazzata fra capo e collo, ma organizzai la mia linea Maginot e li tenni con me, abbracciati.
Che splendore i Genesis, i Gentle Geant e David Foster Wallace!
Eppure in molti butteranno via “ La scopa del sistema “, perché l’avranno letto come una serie di racconti senza un briciolo di agnizione, con un finale di storia mancante, con eterni dubbi su quello che veramente volesse stuzzicarci. E dire che anch’io sono amante del “ racconto “, del senso compiuto da dare a una serie di frasi, del componimento musicale che si conchiude con il colpo finale di tutto il gruppo. Ma qui la genialità scorre libera, non si arena mai; c’è tutta una serie di colpi imprevisti, alla Federer, genialità che volano verso le invisibili onde gravitazionali, filosofie appena mozzicate ma che ti aprono a scenari mirabolanti come quelli della Kariba.
E quelle incredibili descrizioni delle cose più semplici, finissime come ceselli, luminose come l’immagine finale della Divina Commedia! Ma sarà vero che questo tizio aveva appena venticinque anni quando ha steso questo capolavoro? Avrà mentito, l’avrà copiato da qualche misterioso scrittore viandante sulla via Lattea. Sì, certo.
O avrà conosciuto un diabolico costruttore di misteri, di arnie mielose che pian piano vengono costruite l’una al fianco dell’altra, fino a incastrarsi, improvvisamente, quando ormai ogni speranza era persa. E per farlo ricorre a tutto l’armamentario dell’etimo mondiale, incastonato perfettamente nella perla di ogni pagina, alla quale ti spinge, facendoti rompere la vetrata e lasciandoti lì, con il capo prigioniero degli aculei, impossibilitato a riemergere dal sacro cenote.
E contemporaneamente ti offre dei buoni motivi per cui alla fine si convincerà a bere la cicuta, maledizione!, interrompendo troppo velocemente il processo creativo. Già: negli alberi c’è una tenue allusione di morte, si sente il dolore per la rottura di un rapporto, un preavviso della pietrificazione di Niobe, ma nel contesto di un panorama che talvolta imbrocca la via della ilarità, un incredibile trasferimento da una sponda all’altra dell’Acheronte.
E non mi sfugge una chissà quanto voluta citazione delle maschere di girgentana memoria, all’interno di un teatro familiare che prevede pure l’accesso di uno psicoterapeuta partigiano, che falsa e manipola la relazione con i pazienti che non riescono a dar forza all’IO, come membrana igienica.
Sì, è evidente: gli piacciono gli insegnamenti di Wittgenstein e gli piaceva studiare la logica modale, ma non rinuncia al lirismo della figura di una nonna che si scopre attendere ogni giorno una visita o al lascivo delirio controllato di un uccello predicatore o l’allucinatoria idea della desertificazione dell’Ohio o la post psicoanalitica invenzione delle facce di quelli che appartengono e di quelli che non appartengono.
E sempre egli sta nell’immediato futuro, senza linearità narrativa; perciò chi legge non può distrarsi, anzi deve essere complice dell’autore.
Un genio.
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