Il segreto del Miserabile

Il segreto del miserabile - copertina solo prima

Se ne stavano tutti e due lì, a guardare quell’uomo.

Erano distanti.

Per questo non si avvidero l’uno dell’altra.

Una lunga barba bianca colorava un viso pallido, punteggiato da diverse

macchie scure sulle guance.

Non era più il fusto che doveva essere da giovane.

Ora era quasi piegato in avanti e aveva bisogno di un bastone per camminare

sicuro.

Sì, certo.

Non un bastone.

Qualcosa che vi somigliava.

Fatto con le sue mani.

Calzava dei pantaloni che facevano venire il sorriso sulle labbra.

Già, perché una delle due gambate era più corta dell’altra.

La giacca era di un colore appena diverso, ma intonato.

Persino la camicia lo era.

Stava raccogliendo dei cartoni, il povero giaciglio delle sue notti.

Materasso e coperta, insieme.

Il guanciale?

Certo, quel piccolo zaino, martoriato dagli anni, dove… nascondeva tutta la

sua miseria.

Ma se il misero zainetto esponeva tutta la sua povertà, nella sua mente c’era

tanta ricchezza.

Una cascata di ricordi…

Un chiaro ruscello che scorreva, accompagnato da verdi argini.

Quei ricordi non si erano mai intorbiditi.

No, mai.

Le piogge?

Lo ingrossavano appena un po’, ma subito tutto tornava come prima.

E la neve?

No! Non c’era mai stato freddo nel suo cuore!

E l’afa?

Aveva appena riscaldato le sue acque.

Sistemati accuratamente i suoi averi, Tano aveva rizzato la schiena e si era

guardato intorno.

Faceva sempre così.

Non voleva mostrare la sua pochezza.

Per non mendicare amore.

Non aveva mai mendicato?

Mai!

A dire il vero, una volta sola…

Una sola volta aveva mendicato amore.

Tano girò lo sguardo e incrociò il suo orizzonte con quello di Lorenzo.

Un altro giro su se stesso ed ecco quello di Caterina.

Guardò fisso l’uno e l’altra e si dolse della loro presenza

Non avrebbe voluto che fossero lì, in quel momento.

Si girò dall’altra parte, di botto.

Sistemò le sue poche cose e si allontanò.

Voleva fare in fretta, ma le sue gambe non erano più forti, come una volta.

Avrebbe voluto buttar via quel misero bastone che lo accompagnava

sempre…

Si fermò un attimo.

Lo guardò.

Lo strinse forte per quanto poteva e tirò fuori un lamento, serrando i denti.

Poi alzò la testa, ricordandosi di essere stato un guerriero.

E andò avanti.

Avanti.

Piano, ma avanti.

Fino a scomparire.
Dopo essere rimasti fermi per qualche attimo Caterina e Lorenzo girarono
lo sguardo, l’uno verso l’altra.
E si trasmisero la preoccupazione.

Tano aveva un’andatura fiera, ma anchilosata e traballante.
Un ulteriore attimo di silenzio.
Poi un sorriso, appena abbozzato.
“Sai chi è, vero?”
“Sì, lo so”.
“Lo conosciamo tutti, in effetti…”
“Già”.
“È strano, ma io non conosco te, invece”.
“Mi chiamo Caterina Altavista. Tu?”
“Sono Lorenzo. Lorenzo Vizzini. Piacere”.
“Scusami, ma devo scappare via. Le altre ragazze mi aspettano”.
“È strano vedere una ragazza sola, a quest’ora”.
“È vero. Perdonami, devo andare. Vedi? È arrivato il pullman”.
“Dove andate?”
“Andiamo a giocare fuori casa. Pallavolo…”
“Dovevo immaginarlo”.
“Ti saluto…”
“A presto, spero…”
“Ma cosa ci fa un uomo solo, a quest’ora?”
Un attimo di esitazione.
Lorenzo si girò da un lato e non vide più quel povero zoppo.
Si girò dall’altro e vide, già lontana, una ragazza che saliva su un pullman.
La domenica mattina si presentava con una luce raggiante.
Presto il tepore primaverile avrebbe riscaldato i gigli.
E sì.
Presto.
La luce chiara e carezzevole di una primaverile domenica mattina aveva
acceso due cuori.
L’estate li aveva fatti battere forte.
L’autunno li aveva intiepiditi, per ripararli dalle ustioni.
L’inverno li aveva consigliati di stare al calduccio, vicini.
La Befana, sì proprio lei, anch’ella piegata sulle ginocchia e maldestramente
poggiata su un misero bastone.
La Befana a tanti portò nero carbone.
Ad altri portò una lunga calza di lana.
E da lì lasciò scivolare una storia incredibile.
Ma chi è costui?
“Tano Blo!”
“Presente!”
“Giura di fare rispettare la Legge!
Sempre!”
“Lo giuro!”
“Oggi è un giorno speciale per tutti voi. Da oggi siete Carabinieri!”
Un applauso, lungo e caloroso.
Poi tutti via, a festeggiare.
“Da domani si fa sul serio!”
“Già”.
“Hai paura?”
“No. Assolutamente”.
Tano Blo era un carabiniere modello.
Ed era anche un bel carabiniere.
Le donne fingevano di non guardarlo.
Lo facevano di nascosto, quando erano certe di non essere viste.
Da Tano, dai padri, dai mariti, dai fratelli.
Spesso lo facevano scostando la tendina del balcone.
Altre volte si fermavano per strada.
Fingevano di cercare dentro la loro borsetta qualcosa di cui non avevano
assolutamente bisogno, nell’attesa che lui le incrociasse.
Altre volte passavano dinanzi la caserma, senza alcun motivo.
Sperando che fosse lui a guardarle…
Niente.
Quel bel fusto di carabiniere sembrava interessato solo agli uomini.
A quelli che contravvenivano la Legge.
E li andava a cercare.
Dappertutto.
Di giorno e di notte.
Cercava i suoi nemici fra le montagne, negli anfratti più sperduti, dentro le
fredde grotte naturali.
Un giaciglio di paglia, qualche tizzone ancora ardente: ecco la prova!
“I banditi sono passati da qui”.
“Siamo sulla strada giusta”.
“La natura li aiuta, maledizione! Guarda quanti nascondigli…”
“Già, non è facile trovare quella gente da malaffare”.
“Non preoccupatevi. Prima o poi li troveremo”.

Su e giù, per chilometri.

Salite e discese.

Un ruzzolone, una decisa spazzolata alla divisa impolverata, con sberle che

facevano male alle ossa e via.

Da capo.

“Prima o poi li troveremo”.

Era uno dei pochi che sapevano scrivere dignitosamente.

Quando tornavano in caserma, perciò, toccava a lui redigere il verbale di

servizio.

Poi, di corsa, a riposare.

“Una curiosità, Tano”.

“Dimmi”.

“A te le donne piacciono?”

Silenzio.

“Sì o no?”

Silenzio.

“Non vedi come ti si strofinano addosso, con gli occhi?”

Rotto il silenzio.

“Non è tempo che metta su casa. Sono ancora giovane”.

“Strusciarsene qualcuna non vuol dire mettere su casa!”

“La prima che io bacerò, quella sarà la mia donna. Per tutta la mia vita”.

“Un apostolo, un santo, un filosofo: cosa sei?”

“Nulla di tutto ciò, sono solo un carabiniere”.

Era il tempo in cui la banda Giuliano imperversava.

La notte.

Una notte, una delle tante.

Era buio pesto.

Di tanto in tanto una nuvola si spostava e faceva scendere sulla terra il

biancore della luna.

Poi di nuovo buio.

E freddo.

Uno dei tre carabinieri nascondeva una bottiglietta di grappa, fatta in casa.

Buona e forte di gradazione.

Il buio sembrava aiutarlo ed egli ne approfittò.

Di soqquatto, girandosi per non farsi vedere, tirò fuori dalla tasca la sua

calda compagna, stappò e ne bevve un sorso.

“Uhm… Ci voleva proprio”.

Stava per riporla nella solita tasca quando sentì il suo polso afferrato, stretto.

L’altro carabiniere aveva sentito e visto.

“Danne un goccio anche a me. Lo merito, no?”

Quando il diavolo ti scopre, devi invitare tutti al banchetto.

“Tano, ne vuoi anche tu?”

“No, grazie”.

“Ecco il santo! Peggio per te…”

Stavano scivolando le ultime gocce dalla bottiglia, quando si sentì, piano

piano, sempre più vicino, un rumore di zoccoli.

Grande scompiglio.

“Voi due di là dal sentiero. Io resto da questa parte. Presto!”

I tre si piazzarono e tirarono fuori le pistole.

Gli occhi posati fissi su un’ombra che si avvicinava.

Sentita, ancor prima che vista.

Sulle pietruzze dello stretto sentiero gli zoccoli si poggiavano rumorosamente.

Poi un nitrito e una nuvoletta di fumo dalle narici.

L’animale aveva annusato la loro presenza e si era quasi imbizzarrito.

“Fermo!”

“Alt!”

Uno sparo.

Un tonfo.

“Che diavolo fai?” – urlò Tano.

“Stava scappando!” – gli disse uno dei due colleghi.

Tutti e tre corsero verso l’uomo stramazzato dal cavallo e sentirono i suoi

rantoli.

Ancora per poco.

Poi nulla.

Un silenzio che pesava quanto tutto il cielo.

“Che caspita hai fatto?” – urlò nuovamente Tano.

“Stava scappando!”

“Chi ti ha detto che stava scappando? Gli avevamo appena intimato l’alt!”

“Non cominciare a fare il letterato!”

“Non stava scappando!”

“Vuoi fare il santo?”

“Non sappiamo neanche chi sia!”

“Ora basta, professore! Ora basta!”

Intervenne l’altro.

“Tano, quell’uomo è morto! Sicuramente era un bandito… Ormai è morto!”

“L’ha ammazzato!”

Un pugno in faccia.

Quando si dice la verità, spesso si prende un pugno in faccia.

E fa male due volte.

A terra, dolorante e sbigottito, Tano poté osservare una scena da teatro.

“Ecco, adesso va bene”.

“Sì, hai ragione. Va bene!”

Dov’era finita la calda compagna del cow boy improvvisato?

In una tasca del povero morto.

Un altro sparo.

E cosa stringeva nella mano destra quel freddo cadavere?

Una pistola.

Quale pistola?

Un vero cow boy ha sempre due pistole.

Non si sa mai, una può incepparsi.

No!

Questa non si era inceppata.

Aveva sparato.

“Non hai sentito, Tano?”

Silenzio.

“Ha sparato per uccidermi!”

Silenzio.

“Hai capito cosa devi scrivere domani, nel rapporto di servizio?”

Silenzio.

“Mi sono difeso!

Voleva uccidermi”.

Silenzio.

“Tano Blo!”

“Presente!”

“Giura di fare rispettare la Legge!

Sempre!”

“Lo giuro!”

“Oggi è un giorno speciale per tutti voi. Da oggi siete Carabinieri!”

E giù un applauso.

Un lungo applauso.

Tano non volle più calpestare le montagne, entrare nelle sperdute grotte.

Non volle più sapere dei giacigli di paglia, né dei tizzoni ancora ardenti.

Diverse notti rotolò su se stesso, da un lato all’altro del materasso, nel letto

scomposto.

Fiamme ardevano dentro di lui, spine lo tormentavano.

I diavoli gli ballavano intorno, come in una taranta.

E che festa facevano!

Sghignazzavano beffardi, l’indice puntato verso di lui.

E volavano sulla sua testa, come pipistrelli.

Un tormento!

Gli si attaccavano sui capelli e lui urlava:

“Via! Via!”

E si rotolava sul letto.

“Via! Via!”

E la taranta continuava, sino all’indomani.

Ogni notte.

Quel carabiniere aveva un cuore.

Un cuore grande.

Un cuore vuoto, prima d’allora.

Sulla porta il segnale del lutto.

Era lì.

Con tanto di nome scritto.

Aveva ceduto da un lato, per cui il vento lo cullava.

Tano si fermò solo per un attimo.

Nessuna esitazione.

Avrebbe certamente bussato.

Ma quel nome ballava davanti ai suoi occhi.

Un altro diavolo?

No!

Era solo l’anima inquieta di un povero contadino che non capiva perché mai

non potesse più seminare la sua terra.

Già, perché quella terra, quella che adesso ricopriva la sua bara, non era la

sua terra.

Come poteva capacitarsi?

Quella non era la sua terra!

Come ipnotizzato da quel dondolio, Tano non si avvide che qualcuno aveva

quasi aperto la porta.

Senza che lui avesse bussato.

Affilate dita di donna stavano per richiuderla quasi immediatamente, ma

Tano si svegliò d’improvviso e poggiò la sua mano, la sua grande mano, sulla

porta.

“Scusatemi, signora. Scusatemi”.

“Chi siete?”

“Signora, scusatemi”.

“Cosa volete?”

“Volevo dirvi che mi dispiace…”

Stavolta la porta si chiuse e Tano Blo non si sentì di insistere.

Dal volto della donna carpì il dolore, dalla sua voce la profonda tristezza.

E quel volto e quella voce lo accompagnarono per sempre.

Continuò a rotolare su se stesso, da un lato all’altro del materasso, nel letto

scomposto.

Fiamme continuarono ad ardere dentro di lui.

Le spine no.

Scomparvero.

I diavoli che ballavano la taranta?

Via.

Solo il volto di lei.

Solo la voce di lei.

Giorno e notte.

Come è strana, a volte, la vita!

Dolore e sconforto, dolore e passione.

Amarezza e odor di rose.

Voglia di dormire e voglia di uscir presto da casa.

Per andare lì.

Lì vicino, almeno.

Rivederla, risentirla.

Di giorno non era assolutamente consigliabile, ma il desiderio era irrefrenabile.

Quanti profumi!

Di garofani e di gelsomino.

 

 

Un funerale era da poco finito, con tante le lacrime a passeggiare sulle

guance.

Con tante mani sulle bocche, a strozzare la voglia di urlare.

Con tante suole di scarpe a carezzare la strada, per non sconsacrare il silenzio.

Un amore correva veloce.

Con la voglia di posarsi addosso a lei.

Per confortarla.

Lenirla.

Profumarla.

Ogni giorno Tano Blo trovava motivo per transitare da quelle parti.

Spesso poteva scorgere solamente la porta chiusa, ancora listata a lutto.

Niente altro.

Mai che la scorgesse.

Mai che la incontrasse.

Sembrava che Maria non uscisse mai.

La notte.

Ecco!

La notte si può.

Si può fantasticare.

E sperare.

Sognare.

Sognare Maria.

Quante persone sognano, la notte!

La notte.

Una candela può rimanere accesa.

E disegnare sulla parete tutto quello che si desidera.

Un volto.

Un viso angelico.

Delle mani.

Mani grandi e forti!

Un uomo.

Un uomo alto.

Forte.

Piantato sulle gambe.

Con spalle grandi.

Un uomo gentile.

L’uniforme?

Miseria…

L’uniforme…

“Perché la candela è ancora accesa?”

“Mi sono addormentata…”

“O eri sveglia?”

“No. Dormivo…”

“Sorella, è meglio che tu dorma. Molto meglio”.

“È quello che stavo facendo. Mi hai svegliato tu…”

“Non credo. Comunque, fa quello che ti dico!”

La notte.

Una candela può rimanere accesa e disegnare sulla parete tutto quello che

si desidera.

La fiamma.

Una fiamma alimentata può scatenare un incendio.

L’avevano capito.

L’avevano capito perfettamente.

Anche quella notte Tano Blo sarebbe passato da lì.

E si erano nascosti ai quattro cantoni della strada, aiutati dalle nuvole che

oscuravano la luna.

Uno sconosciuto pittore si divertiva.

Improvvisava disegni su disegni, sempre diversi.

Tutti in chiaro-scuro.

Tano Blo vi scorgeva carezze.

Labbra che si poggiavano le une sulle altre.

Corpi che danzavano di gioia.

Quei quattro vedevano solo il nero.

Quello del sangue marcito.

E sbuffavano fumo grigio dai loro nasi.

Appena ebbero Tano Blo a poca distanza da loro, sbucarono dai cantoni.

Con la velocità della gazzella.

Il primo che gli arrivò addosso strinse forte la mano sulla bocca di Tano.

Un altro gli infilò un pugno nello stomaco.

Gli altri due ne circondarono le braccia.

Tano Blo si piegò in due e l’ultima cosa che sentì fu il dolore.

Prima di cadere a terra, esanime.

Anche quando riprese coscienza, per primo sentì il dolore.

Poi sentì l’acre odore del sangue.

Del suo sangue.

Guernica.

L’urlo di Munch.

Chissà se Tano li aveva studiati a scuola…

Lorenzo e Caterina, sì.

Entrambi li avevano conosciuti, tra i banchi di scuola,

Ancor meglio li avevano conosciuti attraverso la storia di Tano.

Ne parlavano spesso, con dolore.

“Guglielmo Tell non aveva rispettato il balivo”.

“Proprio così, Caterina”.

“È una storia incredibile. Cento volte l’ho sentita, ma i brividi sono sempre

quelli della prima”.

“Trasgredire l’opinione della massa è sempre una colpa, un peccato…”

“Già. Ricordi la scelta della gente di Gerusalemme? Mandate a morte Gesù,

salvate Barabba”.

“Gli avrebbero fatto meno male uccidendolo”

“Avrebbero fatto lo stesso errore di quegli stati che contemplano la pena di

morte”.

“Non ti capisco, Lorenzo”.

“Ucciso un dittatore, avvelenato a morte un killer, uno stupratore, di fatto si

fa sparire il colpevole. Ma si azzera la memoria della gente. Se li si lascia

vivi, il ricordo non si cancella. Sui vivi si riflette di continuo. Non si cancellano

i loro torti”.

“E Tano Blo?”

“Dovevano mostrarne la pena a tutti. E per sempre”.

“Lasciarne un eterno, indelebile ricordo?”

“Esatto”.

“Quell’uomo non aveva alcuna colpa!”

“Certamente, almeno per noi”.

“Sono loro i veri mostri!”

“E dei mostri la gente deve aver paura: ecco il loro credo”.

“Il fondamento di tutte le mafie del mondo!”

“Non l’unico. I mafiosi anno anche essere gentili. Persino ossequiosi dei

buoni e sacri valori”.

“Uccidono con la Bibbia nelle mani!”

“A volte non uccidono, ma la loro vittima è massacrata per sempre”.

E con la mente volavano indietro.

Alla scena reale.

Anche quando riprese coscienza, Tano Blo per primo sentì il dolore.

Poi sentì l’acre odore del sangue.

Del suo sangue.

Poi sentì fuggire via da sé il proprio cervello.

Come un evaso da un campo di concentramento.

Via!

Lontano!

La sua mente non poteva più riconoscere il proprio corpo.

Quella mutilazione…

Un urlo gli squassò le tempie.

I suoi pensieri si frantumarono.

I denti digrignarono come pietre strofinate.

Tutte le sue dita si contorsero come serpenti.

No!

Non poteva essere!

Allora, via.

Via!

Lontano!

Tano Blo diede l’addio a quel paese, a quelle montagne, a quel cielo.

Chissà per quanto tempo camminò.

Senza una direzione.

Spesso ci si incammina in una direzione che non ha meta. È il cammino della

disperazione.

E Tano era ferito, quasi a morte.

Voleva nascondere il suo dolore, tenerlo solo per sé.

Ma le storie volano, le accompagna il fiato del mondo.

Pensava che nessuno lo conoscesse, lì.

Che la sua storia fosse un segreto.

Che ne fosse l’unico proprietario.

Almeno di quella…

 

 

La sua leggenda, invece, era arrivata prima di lui.

Già da tempo.

Non si sa bene come.

Non si sa bene chi.

Sarà stato il dolce alito del vento primaverile.

Fatto sta che Tano Blo era lì.

In carne e ossa.

Cinto da un nimbo che ne rivelava il mito.

Sì, era un mito…

I ragazzi più piccoli lo incontravano per strada e si fermavano a qualche

metro da lui.

Braccia conserte e aspettavano.

Quella lunga barba.

Gli occhi grandi.

La sua figura, quasi piegata in due.

Il suo misero bastone.

Tano Blo si sedeva, molto lento nei movimenti.

Poggiava la sua grande mano destra sul bastone dritto, si carezzava la barba

e liberava la sua favella.

Via!

Storie brevi, inventate.

Fatte di dame e cavalieri.

Era come un cantastorie, senza teatro.

Ed erano belle le sue storie!

I ragazzi si divertivano un mondo.

Volgevano lo sguardo l’uno verso l’altro, con un largo sorriso pitturato nei

loro volti.

Ridevano e battevano le mani.

A qualche metro di distanza.

Mai più vicino.

Come a teatro.

E ben sapevano come finiva ciascuna di quelle favole.

Sempre.

“Tre sono le potenze dell’umanità!

La cucca, la pitarra e la taddarita”1.

 

1.

La cucca: la femmina del cuculo;

La pitarra: la gallina prataiola occidentale;

La taddarita: il pipistrello.

 

Alla fine, Tano Blo si rialzava, lentamente.

Rimetteva in spalla il suo zainetto, batteva il suo bastone a terra, come per

assicurarsi che lo reggesse ancora e spariva.

Lentamente.

Qualche volta, raramente in verità, qualcuno dei ragazzi lo scherniva, pur

senza mai offenderlo.

Allora Tano Blo sgranava gli occhi, brandiva il bastone per aria, diceva qualcosa

di incomprensibile e spariva.

Lentamente.

Se qualcuno dei più grandi se ne accorgeva, per il disgraziato bambino erano

guai.

E non c’era bisogno di raccontare la cosa ai suoi genitori.

I rimproveri che si beccava bastavano.

E le lacrime che versava lavavano la sua colpa.

Nessuno doveva mai offendere Tano!

Il suo giaciglio era sempre lì.

Si era scelto un andito, all’interno dell’androne di una vecchia casa.

Ai due piani superiori abitavano degli anziani.

Il grande portone della casa era molto pesante.

Ed era assai rumoroso, per via del saliscendi in ferro che doveva garantirne

l’inaccessibilità.

Il grande e rumoroso portone, invece, veniva lasciato socchiuso.

Apposta.

Le zanche venivano lasciate penzolare.

Apposta.

Giusto perché Tano aveva scelto quella vecchia casa, quale suo albergo

notturno.

Gli anziani che la abitavano andavano a letto presto e lui aveva cura di

essere l’ultimo ad arrivare.

Così come era il primo a sloggiare.

Tutti sapevano che era lì, ma nessuno doveva vederlo.

E tutti erano contenti che fosse lì.

Non passava mai più di una settimana che i cartoni che formavano il suo

letto non venissero cambiati con nuovi cartoni.

Era quasi… un cambio di lenzuola.

Ed erano sempre mani diverse a cambiarli.

Tutti erano contenti che fosse lì.

Almeno era al riparo dalle intemperie e da tutto ciò che il buio della notte può

portare con sé.

E spesso qualcuno entrava per depositare sui cartoni qualche soldo.

All’alba Tano tirava fuori da una delle sue tasche un fazzoletto rosso, vi

ficcava dentro le monete e lo stringeva con nodi stretti.

Più d’uno.

Si dava una scrollata, riponeva nella tasca il suo fazzoletto, metteva nella

spalla il suo zainetto e si avviava verso una fontana, in periferia.

Tano non chiedeva elemosina.

All’inizio si era anche molto adirato, quando qualcuno aveva provato a fargliene.

Fu una delle poche volte che lo si vide particolarmente agitato e nervoso.

Qualche anno prima, quando le forze ancora lo reggevano, la gente lo cercava

per proporgli qualche piccolo lavoretto.

Il più delle volte allorquando c’era da portare qualcosa di pesante, da una

parte all’altra del paese.

Lui accettava con un largo sorriso.

E solamente alla fine della sua fatica non esitava a stendere la mano, perché

fosse riempita con qualche moneta.

Allora sì.

Solo così.

Certo, pian piano la sua schiena cominciò a curvarsi.

Un giorno Lucia Buttigè ebbe un sussulto di tenerezza.

Provò a offrirgli, fuori dall’osteria, un piatto di fagioli caldi.

Glielo offrì fuori dall’osteria, appunto.

Nella via d’accesso secondaria.

Perché occhi indiscreti non vedessero.

Erano anni, ormai, che Tano passava da lei.

Ogni giorno alle tre.

Quando gli avventori non c’erano più.

Tirava fuori dalla sua tasca il fazzoletto rosso, ne scioglieva con cura i nodi

e ne mostrava il contenuto a Lucia.

Quella faceva finta di contare e gli dava da mangiare.

Soli.

Tano e la signora Lucia.

Il marito della signora Lucia di là, a riposare.

Non una sola parola durante il pranzo.

Una sola frase, alla fine.

“Dio vi benedica!”

E poi via.

Lentamente.

Gli anni passavano e le forze di Tano diminuivano.

In paese avevano quasi vergogna a chiedergli di fare qualche lavoretto.

Portare roba sulle spalle era oramai troppo pesante per le sue deboli braccia

e per le sue logore gambe.

Quindi, ogni giorno che passava il fazzoletto rosso era sempre meno pieno.

Ma non diminuiva il cibo della signora Lucia.

Quella faceva finta di contare e gli dava da mangiare.

E quel giorno la signora Lucia provò a offrirgli, fuori dall’osteria, un piatto di

fagioli caldi.

Lo fece ancor prima che Tano sciogliesse in nodi del suo fazzoletto rosso.

Lo fece per paura che fosse vuoto.

Tano Blo mosse il viso, a disegnare il diniego.

Senza parlare.

E se ne andò via.

Lentamente.

La signora Lucia rimase sul ciglio della strada, gli occhi posati sulla schiena

di Tano…

Nelle mani il piatto caldo.

Fatto qualche metro, Tano si girò verso di lei e le disse: “Dio vi benedica!”

E poi via.

Lentamente.

La signora Lucia fece di tutto per nasconderle, ma le lacrime non le diedero

retta.

Andò a svegliare il marito, che stava riposando, e gli raccontò l’episodio.

Il marito le si avvicinò a un orecchio e le sussurrò, piano, una frase.

Chissà perché, visto che non c’era nessuno ad ascoltarli.

Quasi d’incanto le lacrime della signora Lucia si seccarono e le rispuntò il

sorriso.

L’indomani Tano, al solito orario, si presentò davanti la locanda.

Stava per tirar fuori dalla tasca il fazzoletto rosso quando la signora Lucia lo

anticipò, e stese la sua mano verso l’uomo, quasi a intimargli di fermarsi.

“Posso invitarla a pranzo?”

Tano, era evidente, ebbe un attimo di esitazione.

Ma fu solo un attimo.

Si ricompose.

Ripose nella tasca il fazzoletto, e con tutta la voce che aveva, le rispose:

“Grazie, signora Lucia. Accetto il suo gentile invito!”

Una volta un poeta di un paese vicino lo aveva incontrato per strada.

L’immagine di quell’uomo gli aveva procurato la scintilla.

E la fiamma aveva dato la stura ai suoi versi.

Li leggeva e li rileggeva, di continuo.

E poi li lesse ad altri.

Tante volte.

Ne aveva scritti tanti, di versi.

Ma quelli gli piacevano più degli altri.

Ne era orgoglioso.

E non dimenticò mai di essere grato alla loro fonte.

Dopo molto tempo, il poeta tornò per le vie del paese di Tano e lo ritrovò lì,

dove lo aveva incontrato la prima volta.

Gli si avvicinò sorridente, come un vecchio amico d’infanzia.

Tano si era alzato sulle sue incerte gambe, sorpreso.

Non ebbe tempo di pensare e già il poeta lo abbracciò forte, come un vecchio

amico dì infanzia.

La mano destra di Tano rimase poggiata sul bastone.

La sinistra non sapeva cosa fare.

Era da troppo tempo che non viveva un abbraccio, un così forte abbraccio.

Dopo qualche attimo, furtivamente, il poeta aveva infilato nella tasca destra

di Tano delle banconote.

Tanto furtivamente che Tano non se ne accorse.

Poi, quasi a cancellare il gesto, il poeta sciolse l’abbraccio, lo salutò e andò

via.

Velocemente.

Al solito, l’indomani mattina Tano si era levato dal misero giaciglio, quasi

all’alba.

E, come sempre, aveva controllato che il suo fazzoletto rosso fosse nelle sue

tasche.

Felice di ritrovarlo, ogni giorno.

Insolitamente, però, non lo aveva trovato solo.

C’erano, ad accompagnarlo, delle banconote.

Sorpreso, Tano si fermò un attimo a osservarle.

Immediatamente comprese quanto era successo.

Non poteva che essere stato lui, il poeta.

Un poeta che Tano non conosceva.

Non sapeva neppure che fosse un poeta.

Era stato solo un raro, intenso abbraccio.

Un gran calore trasmesso a tutto il suo corpo.

Cinto da un gran sorriso.

Un raggio di sole in una fredda mattina novembrina.

Anche quel giorno, quando gli altri stavano già digerendo il pasto, Tano si era

avviato verso l’osteria della signora Lucia.

Quando fu a pochi metri Tano poté scorgere la sagoma del poeta e la riconobbe.

Dentro l’osteria quel giorno si era fatto più tardi del solito.

Gli artisti o parlano poco o parlano molto.

Il nostro poeta amava parlare.

E farsi ascoltare.

Tano si piantò lì e attese, senza farsi vedere.

Quando il gruppetto di amici uscì dall’osteria, Tano si avvicinò al poeta.

Lentamente.

Quello si fermò e allungò le braccia verso Tano, quasi a voler ripetere l’abbraccio

precedente.

E Tano gli sorrise, avvicinandosi.

Poi estrasse dalla tasca il fazzoletto rosso, ne sciolse i nodi, prese le banconote

e le pose nelle mani del poeta.

“Dio vi benedica!”

E poi via.

Lentamente.

Quel giorno Tano saltò il pasto.

Tutte le volte che parlavano di quella maledetta storia, Caterina e Lorenzo

sentivano un gran malessere dentro.

Un misto di rabbia e di sconforto.

Avrebbero voluto cambiare il corso delle cose.

Tornare indietro negli anni e fermare i quattro selvaggi che avevano massacrato

per il resto della sua vita la mascolinità e la dignità di Tano.

E di fronte a quella figura, aurea nel senso dell’onore, tanto dignitosa con

tutto il proprio carico di miseria, di fronte alla figura di Tano Blo, provavano

uno sconforto oceanico.

Fra l’altro gli dovevano davvero tanto.

Non solo perché li aveva fatti incontrare.

Il freddo dell’inverno?

Chissà perché quella volta Tano Blo aveva voluto aprirgli le saracinesche

della memoria.

Il freddo dell’inverno?

La necessità di un buon bicchiere di vino?

Lorenzo lo aveva visto qualche sera prima, arroccato dentro il suo vecchio

paletot, lento nell’andatura, più del solito.

Decise allora di comprare una bottiglia di vino buono e di donargliela, la

notte del Natale.

Così fece.

“Questa bottiglia è per lei…”

Tano aveva notato quel ragazzo che si avvicinava a lui e si era fermato,

quasi ad attenderlo.

Tante altre volte lo aveva scrutato da capo a piedi, in silenzio.

Sì, aveva visto che Lorenzo si interessava a lui.

Ma mai una parola.

Solo sguardi, calorosi e protettivi.

Carezze.

Tenerezze.

“Un regalo?”

“Sì”.

“A questo povero vecchio?”

“Sì”.

“Perché sono solo?”

L’orgoglio di quell’uomo non andava mai a fare una pennichella.

“Non è solo. Io sono con lei!”

“La tua famiglia ti aspetta…”

“Mi aspetta fra un’ora. Abbiamo tempo di farci gli auguri”.

Un arcobaleno.

Quasi tutti i colori dell’iride erano dentro gli occhi di Tano.

Le gote si erano prese il rosso. “Vuole che la apra io?”

Lorenzo passò a stappare la bottiglia.

Appena aperta, gliela porse.

Era sua.

“Ho portato un bicchiere…”

Ogni imbarazzo doveva essere anticipato.

Fino a quel punto quasi attonito, Tano Blo cambiò il suo abito.

Persino la voce.

“Uno solo?”

“No, due…”

Mai Lorenzo avrebbe voluto sentire il racconto di quell’uomo.

Mai!

E quando alla fine lo abbracciò, con le lacrime agli occhi, seppe solo dirgli:

“Buon Natale”.

Poi andò via.

Lentamente.

Un centinaio di metri e non ce la fece più.

Si poggiò sulla parete di una casa e pianse.

A dirotto.

C’è giustizia in questo mondo?

 

Capitolo 1

Sulle regole

 

Era l’ora del rientro a casa dei ragazzi e c’era anche bisogno di rilassarsi.

Un po’ di buona musica e un buon aperitivo preparano bene il declinare della

fatica.

Spesso, però, i ragazzi te ne propongono una ancor maggiore.

E i genitori sono poco addestrati al loro bisogno di manifestare invincibili

idee.

Dopo aver smesso i pantaloncini corti i genitori perdono le vesti degli Eroi e

arriva tempo di svincolarsi da loro.

L’attacco è continuo, duro, convinto.

“Basta, non ne posso più!”

È un’espressione assai ricorrente all’interno di mura domestiche che osservano

la continua diatriba fra figli e genitori.

E ci sono molti motivi per combattere le guerre, per scambiarsi invettive e

improperi, vicendevolmente.

Tutti hanno delle colpe, e gravi anche.

Sol che difficilmente i ragazzi attaccano i genitori per le colpe vere.

Un po’ se ne vergognano.

E mal celano le loro critiche sotto altre affermazioni, aspre e seriose.

I genitori, per conto loro, ne sono sorpresi.

Persino preoccupati.

Mai nei loro anni erano verdi avevano pensato di rivolgersi ai propri genitori

in quei modi.

“Tu e le tue idee… Guarda dove siamo arrivati!”

“Dai, non ti amareggiare, Francesca. Mi hai insegnato tu che i ragazzi devono

crescere e maturare con il tempo”.

“Bella maturazione!

E quando arriva il tempo che finisca, questa maturazione?”

Le madri sono quelle che sopportano sempre il maggior peso.

I padri hanno quasi sempre una buona scusa per essere più liberi dai doveri

quotidiani.

“Arriverà il momento in cui ti sorprenderanno. Non crederai ai tuoi occhi e

alle tue orecchie”.

Più Paolo cercava di placarla, più Francesca scaldava i suoi motori.

Come un aereo che rulla in pista.

“Sarebbe il caso che non si rivolgessero con quei toni verso i grandi. Cosa

ne pensi tu, Lorenzo?”

Spesso Caterina e Lorenzo erano ospiti di Francesca e Paolo.

E non poche erano le occasioni di essere coinvolti nelle loro questioni.

“Certo, non è bello, ma è oramai il loro linguaggio. Quello di tutti i ragazzi,

non solo il loro”.

“Cosa ne sapete vuoi uomini? Quando siete presenti, i figli hanno un buon

motivo per arginare la frana di epiteti che ci lanciano quando siamo sole”.

“Buon segno. Visto?

Hanno rispetto verso gli adulti…”

“Tu sei scemo!”

“Perché?”

“Io sono la madre! A me dovrebbero rispetto”.

“La famiglia è stata inventata perché è l’unico luogo dove ci si può permettere

di litigare. Anche aspramente. Senza temere la reazione alla

aggressività”.

“Pensavo che la famiglia fosse stata inventata per fare crescere educatamente

la prole, non per potere litigare tranquillamente”.

“Quelli che abbiamo un palmares ricco di regali di compleanno sappiamo

bene che non è così”.

“I miei l’educazione me l’hanno insegnata”.

“Ne sono certo, ma non dirmi che non avete mai litigato”.

“Adesso posso ben dire che avevano ragione”.

“Adesso, appunto”.

“La verità è che voi uomini non avete da saziarli, da aspettarli dietro la porta

del bagno, da riporre la loro roba nei cassetti. Così è più facile”.

“È vero”.

“Soprattutto non avete da dividerli quando litigano…” “Il mestiere del genitore

è il più difficile lavoro che io conosca”.

“Voi uomini conoscete un bel niente! Mentre lavorate, avete forse da pensare

cosa cucinare a pranzo?”

“È vero”.

“Sai cosa vuol dire accontentare tutti? L’uno la vuole cotta, l’altra la vuole

cruda. E litigano se riesco ad accontentare la gola di uno solo dei due”.

“Tu, però, non lesini certo di dirgliene di santa ragione”.

“Tu, invece, sarai un padre suadente; un convincente filosofo del cavolo…”

Paola non ne risparmiava alcuna a Lorenzo.

E Caterina assentiva.

Ma Paola voleva molto bene anche al suo amico Lorenzo…

E questi, alla fine delle battaglie, sapeva farsi perdonare.

Spesso usava poggiare la sua mano destra su una delle clavicole di Paola e

la guardava fissa negli occhi.

Ai suoi gesti… confortevoli, Paola rispondeva nel modo che sapeva compiacerlo

meglio: “Si vede che sei un nipote di donna Concetta Altavista!”

Già…

La famiglia Altavista!

Ruderi di nobiltà finita in cocci.

Rovine che avevano costretto poveri contadini ad andare via, lontano.

Prima su un povero carretto, traballante.

Con il misero carico dei modesti averi.

E dalla finestra la mano di donna Concetta che salutava, bagnata dalle proprie

lacrime amare.

Poi su un treno, sbuffante.

Piano piano, ma lontano.

E la Svizzera è stata la patria di tanta gente che aveva conosciuto la rovina.

Vivere a Ginevra era stato bello.

La città funzionava come le lancette sincronizzate di un orologio e le anime

della gente pulsavano rigoroso rispetto per le buone norme.

Andare a scuola non era stata una punizione dei genitori, ma una festa giornalmente

ripetuta.

Non c’era fatica, anzi.

Era come andare a giocare, dando in cambio l’attenzione per le cose da

imparare.

Definiamolo: un baratto.

Anche tornare a casa era bello.

Non c’erano altre incombenze, se non quella di giocare.

Qualche volta si pestava il territorio delle due sorelline e ci scappava qualche

furiosa colluttazione, ma il padre funzionava da semaforo.

Alt!

E se qualcuna di loro pensava di continuare di nascosto, presto si pentiva.

L’indomani, poi, ogni cosa veniva riposta nel dimenticatoio.

Correre fra i parchi nei giorni liberi…

Odorare i profumi delle piante e degli alberi…

Traversare i fiumi mentre il movimento delle acque ti induce a sognare…

Godere la brezza primaverile della collina…

Che ricordi!

Andare in bicicletta sulle rive del Petit Lac, poi!

Era come andare a specchiarsi per verificare di essere bella come una Venere,

nel tempo in cui la bellezza è ancora quella che si vive dentro.

E i bambini erano tutti belli, e amati.

Sembravano figli di tutti.

Ognuno poteva sentirsi la loro nonna o lo zio, un fratello maggiore o qualcosa

di simile.

Fatto sta che tutta la gente sorrideva a ciascuno di loro.

Spesso non lesinando un complimento, un abbraccio.

Tutta la città sembrava una scuola.

Un’aula continuamente aperta, dove apprendere mille cose.

Senza l’ausilio di un maestro.

Là si poteva imparare come vivere bene insieme.

Al di là delle differenze delle tante etnie.

Delle tante che avevano trovato la propria calda dimora sullo sfondo delle

nevose Alpi Svizzere.

Davanti al Castello di Coppet si poteva scoprire come è bello dire di no a un

potente.

Dinanzi al Palazzo Eynard si poteva scoprire come un potente possa amare

i propri concittadini.

E servirli.

Sia che essi fossero abituati a parlare in francese sia che essi sapessero

parlare solo altre lingue.

Tutti i perseguitati hanno potuto rifugiarsi a Ginevra.

Da sempre.

E lì hanno scoperto come si possa aiutare chiunque.

In qualsiasi parte del mondo si trovi.

Certo, il Paradiso rimane pur sempre un posto migliore.

Forse lì si scherza di più.

Magari talvolta si riesce pure a fare un piccolo schiamazzo.

A dire una parola gentile con un tono un poco più alto.

E magari, chissà!, a lasciare da parte per un attimo la razionalità.

A Ginevra no.

Ogni cosa è al suo posto.

Ciascuno sa cosa deve fare.

E quando lo deve fare. Perché c’è sempre un modo e un tempo giusto.

Le parole significano una cosa precisa, niente che sia un po’ diverso.

E devono susseguirsi come i numeri, quasi matematicamente.

Sono come scolpite nella pietra, non possono altro che essere così.

I doppi sensi?

No.

Le metafore?

Poche.

Ogni cosa ha una sua razionalità.

Sviare appena da essa può indirizzare alla stranezza, al di fuori della normalità.

Vestire diverso?

Vuol dire avere poco gusto.

Non avere i capelli perfettamente pettinati?

Vuol dire che non si ha rispetto per se stessi.

Caterina quell’aria l’aveva respirata tutta.

A pieni polmoni.

Adesso la vicinanza del mare la scaldava.

Ma la frequenza della gente la freddava.

Si sentiva fuori luogo.

Lontana da quei costumi, dagli usi e, soprattutto, dagli abusi.

Non comprendeva come potesse esserci tanto disordine intorno a sé.

I rumori la assordavano.

Gli schiamazzi le erano incomprensibili,

Il vociare dei bambini era un tradimento.

La gente non rispettava la fila.

Un diritto spesso scadeva nel diniego.

Il diniego del diritto, spesso, aveva pure l’assenso.

Camminare per strada non era più un momento di felicità.

Anche gli apprezzamenti degli uomini erano una scortesia.

Ed era cosa assai strana, per lei, vedere che così non era per le altre.

Le persone che pian piano veniva a conoscere non manifestavano alcun

disagio verso quel mondo.

Ci nuotavano dentro come i pesci fanno dentro il mare, in una infuocata

giornata d’agosto.

All’inizio fu davvero dura.

Si sentiva un pesce fuori d’acqua.

E dire che lei dell’acqua era innamorata.

Era come parlare due lingue diverse, ben al di là della erre moscia che

rivelava la sua abitudine a esprimersi in francese.

Proprio non capiva.

Tutto le appariva poco comprensibile.

Dovette sforzarsi di imparare le nuove abitudini, spesso facendosi violenza.

La sua nuova terra le sembrava un tempo senza orologio, una notte senza il

giorno, uno sci senza la neve.

Le pareva ci fosse una sola regola: l’assenza di ogni regola.

Ciascuno si comportava come se ciò che riteneva giusto per sé fosse giusto

anche per gli altri.

Calpestare i diritti altrui era un’abitudine.

Entrare dentro la vita degli altri, senza bussare, era ricorrente.

Non rispettare la legge?

Si definiva furbizia.

Anzi.

C’era chi veniva ossequiato, per aver dimostrato di essere capace di infrangerle,

le regole. Specialmente se aveva dimostrato di essere riuscito a farla

franca.

A farla franca da chi?

Caterina non lo capiva.

Affatto.

Solo dopo qualche anno imparò a muoversi nel nuovo ambiente.

Scoprì come evitare di suscitare mormorii.

E, soprattutto, seppe come evitare di ingoiare brutti rospi.

Da allora la sua gioventù scorse così, come normalmente accade.

Amiche e amici, flirts e delusioni.

Ottimi risultati a scuola e una intensa vita sportiva.

Molte ore passate fibrillando insieme a quella musica che solo poche coetanee

amavano ascoltare.

Tanti ricordi si affollavano nel suo magazzino dei ricordi.

Uno con lucentezza più vivida.

Un ragazzo imponente.

Bello come un adone.

Muscoloso come un bronzo di Riace.

Affascinante come una delle star holliwoodiane.

Irremovibile come Temi.

Quel ragazzo calamitava su di sé le attenzioni di molti, soprattutto di… molte.

Se faceva salto in alto, saltava più in alto degli altri.

Se faceva lancio del peso, lanciava più avanti degli altri.

Se parlava, parlava meglio di tutti gli altri.

Ma ciò che affascinava ancor più era il suo ruolo di autentico difensore dei

deboli, di tutti i deboli.

Affiancandosi a qualche altro bel fusto, pur sempre meno rigoglioso di lui,

egli era il punto d’approdo di ogni lagnanza.

In un piccolo paese tante sono le occasioni per lamentarsi di qualche torto

subito.

E c’è sempre l’urgenza di risolvere la questione, come fosse vitale.

Specialmente allora, qualche decennio fa, quando l’onore maschile non poteva

rimanere sporco per molto tempo.

Allora lui diventava l’arbitro della partita, l’autentico giudice popolare.

Non bisognevole di giurie.

Monocratico.

E non c’era mai appello alla sua sentenza.

Né possibilità di evitare la punizione erogata o il pegno da pagare.

Nessuno avrebbe mai messo in dubbio ciò che egli sentenziava.

Figurarsi come le ragazze potevano reagire di fronte a tanta magia…

Erano tutte affascinate da lui.

Molte ne erano innamorate.

Altre non lo erano sol perché non potevano.

Non ve ne era una, comunque, che non avesse la bava in bocca parlando di

quel biondone.

Di quel fusto che appesantiva sulle caviglie chili e chili di muscoli e che

musicava quando parlava.

Fra l’altro, egli aveva la buona abitudine di donare a molti il primo tiro di

marijuana. Senza nulla chiedere in cambio.

Non aveva bisogno di raccogliere gratitudine.

Ne era totalmente sbronzo.

Il suo agire era del tutto genuino, autentico. Così come vera era la sua furia

se uno dei suoi aveva da lamentare una ingiustizia subita. Specialmente se la

riceveva da un extra-paesano.

Se poi la lagnanza riguardava le molestie subite da una ragazza, allora la

cataratte si aprivano.

E la diga lasciava fluire un’ondata di acqua bollente.

Nella vicina città i bei ragazzetti sentivano il dovere di andare in periferia a

conquistare nuovi imeni.

Dovevano ornare al meglio la propria bacheca…

Talvolta la loro esuberanza infastidiva le ragazze.

Ma ancor più quella dei loro corteggiatori compaesani.

E questi erano pronti a esplodere la voglia di dimostrare quanto grande fosse

il loro amore.

La faccenda veniva puntualmente riferita al vichingo.

E la conseguenza era ovvia: qualche rivolo di sangue, ematomi, lamenti e

promesse di vendetta.

Una delle sue vittime non riuscì, per una volta, a trattenere la rabbia.

“La prima volta che verrai da noi ti ridurremo in polpette!”

Era furibondo per tutte le botte prese.

Musica deliziosa per orecchie sensibili a quei toni.

Come fermare quel caterpillar?

Altro che attendere l’evento.

Non parve vero a quattro bellimbusti accompagnarlo nella crociata nell’altra

città.

Anziché dalle croci essi si fecero precedere da rumorose catene, che rimbombarono

come campane a festa, la domenica mattina.

Scelsero un angolo della città dove maggiore poteva essere il numero delle

vittime, incuranti dell’evidente sproporzione delle forze in campo.

E furono legnate per tutti.

Fu così che per anni i bei giovanotti in trasferta non osarono più manifestare

la propria simpatia alle ragazze del paese.

Anzi evitarono di frequentarle.

Troppi di loro avevano dovuto inventare improbabili motivi per giustificare le

loro ferite.

Quelle corporee e quelle al loro martoriato gallismo, decisamente più profonde.

E da quel maledetto giorno furono costretti a esibirlo unicamente in casa

propria.

Battaglie di paese?

Certo.

Ma nel mondo c’erano guerre vere.

Tanti mercanti si arricchivano vendendo armi

Altri vollero la stessa montagna di denari, vendendo droga.

 

Capitolo 2

Sulle catene

 

In tutto il mondo fremiti rivoluzionari correvano lungo la schiena degli

adolescenti.

Erano convinti che il mondo antico sarebbe morto insieme ai loro idoli più

amati, da Jimi Hendrix a Martin Luther King, da Jim Morrison a Janis Joplin.

Qualcuno, più avanti in età, aveva già pianto John Kennedy.

Quel mondo doveva rivoltarsi.

Ed erano le donne, in particolare, a scoprire un nuovo modo di esprimersi, di

manifestare tutta la loro soffocata identità.

Il Sistema doveva essere abbattuto e l’arma più letale da usare era la droga.

Sì, la droga.

Per tanti era l’alleato più importante per combattere le truppe

controrivoluzionarie.

La coscienza dei sudditi del Sistema era stata soppressa, lungo l’arco dei

secoli.

Perciò molti giovani si gloriavano di aver scoperto l’antidoto contro la nebbia

della mente.

L’allargamento della coscienza non poteva che passare da lì.

E l’eroina era la clava magica per l’abbattimento delle sovrastrutture.

Solo la droga poteva fare scoprire le nuove praterie, dove far cavalcare,

libera, l’orda rivoluzionaria.

Anche Lorenzo aveva avuto modo di imparare la lezione.

Una delle ragazze che meglio avevano saputo interpretare il tempo nuovo,

per caso un giorno viaggiò insieme a lui, in pullman.

I genitori, l’Università, le manifestazioni studentesche, il futuro immediato.

Ogni argomento venne scandagliato dai due con le onde sonar del nuovo

modo di pensare.

“Sei molto avanti, tu”.

“Non mi pare che tu voglia farmi un complimento, Lorenzo”.

“No?”

“Certo che no. Andare avanti è un dovere, non un merito”.

“Immagino che non sia facilissimo, comunque”.

“Lo è se lo si vuole”.

Quella ragazza era un armadio, nonostante la sua magrezza.

“Molti lo vogliono, ma trovano grandi barriere”.

“Bisogna scavalcare le barriere. Semplice”.

“Molti dei nostri genitori sono preoccupati”.

“Perché sono stati incapaci di affrontare le loro frustrazioni. Non hanno

saputo reagire e hanno paura che adesso noi scombiniamo tutta la loro

apparente tranquillità.

“Tutto sommato, però, dobbiamo molto ai loro sacrifici”.

“Basta con i sacrifici! Adesso è il tempo di pensare a una vita felice, a

uomini che si amano, alla Giustizia popolare. Niente più guerre, né prigioni

della mente. È nostro preciso dovere liberarci dalle catene del Sistema…”

“Deve essere ancor più difficile per una donna”.

“Non c’è più la donna, come non c’è più l’uomo. Sembri un vecchio come

parli. Magari credi ancora nella coppia, vero?”

“Sì, ci credo”.

“Non credo a quello che sento. Sembri uno dei nostri, ma come tanti uomini

hai ancora molta strada da fare”.

“Perché dovremmo abbattere anche il rapporto di coppia?

Quale necessità c’è di farlo?”

“L’ultima volta che mi sono fatta ho scoperto quanto sia limitato pensare

che un solo uomo o una sola donna possano essere le persone giuste per noi.

In verità mille e mille altre persone possono darci quello che cerchiamo”.

“Va bene, ma se ne trovi uno che ti fa stare bene perché cercarne altri?”

“Perché poi mi vuole unicamente per sé. Perché mi costruirebbe un’altra

cella dove incarcerarmi. Io oramai sono evasa!”

“Beh, a me pare che qualche gratificazione ci possa anche essere”.

“Sono sicura che ancora non ti sei mai fatto”.

“È vero. E non ho alcuna intenzione di farlo”.

“Ecco il problema. Come pensi di potere andare oltre i confini della realtà

che il Sistema ti impone?”

“A me bastano la musica e la lettura”.

“Non puoi capire. La tua mente è ottenebrata, offuscata, inquinata. Non

riuscirai mai ad andare oltre senza l’aiuto della roba. Solo lei ti può consentire

di scoprire un mondo libero e orizzonti nuovi. La vera libertà”.

“Come puoi pensare che una cosa che è fuori di te, muta, senza anima,

senza nome né corpo, possa parlarti di un’altra realtà?

Aiutarti a viverci dentro?”

“Lei libera la mia mente. La rende leggera e annulla la forza di gravità. Non

ho più bisogno di un paracadute. So che un letto di piume d’oca mi attende

quando ho voglia di sdraiarmi”.

“Mentre sei fatta. Dopo?”

“Una volta che hai conosciuto l’altra realtà, quando l’hai annusata e te ne

sei impregnata, allora, e solo allora, avrai la forza di lottare per una nuova

condizione sociale”.

“Io credo di poterlo fare meglio se sono in possesso di tutte le mie facoltà”.

“Tu non sarai un eroe rivoluzionario!”

 

Capitolo 3

Sull’Eroe

 

Oltre che il vendicatore di tutte le offese arrecate ai propri concittadini, il

vichingo era un donatore di marijuana.

Qualche soldo lo maneggiava, evidentemente.

Quindi si poteva consentire di essere generoso.

Poteva regalare sogni di ogni genere.

Un eroe greco avrebbe avuto molte difficoltà a tenergli il passo.

Era andato al di là, non c’era schema che potesse contenerlo pienamente.

Quando decise di studiare all’Università molti piansero la sua assenza.

Ma ben si sapeva che tornava.

E quando tornava era latore di nuovi messaggi, di nuovi respiri.

Aveva anche cominciato a scrivere in uno dei tanti fogli dell’estrema sinistra,

tanto poveri nella distribuzione.

Perciò arrivava in paese con tante copie arretrate e così tanto attese dai

suoi fedeli.

Arrivare da fuori con nuove idee e con nuove prediche da fare gli dava

ulteriore fascino, un ulteriore alone di magia.

Molti in paese si avvicinarono alle idee rivoluzionarie, nella misura in cui si

può essere rivoluzionari lontano dalla battaglia, nelle retrovie.

Ed erano grandi discussioni, appassionate e sempre condivise nelle conclusioni.

Nessuno fra quelli che gestivano il potere veniva risparmiato dai suoi strali.

E anche in loco si contavano molti feriti.

Era diventato l’alfiere di un gruppo che aveva di mira tutti quelli che ne

stavano fuori. Compresi coloro che militavano nella sinistra storica.

I gruppuscoli della sinistra hanno lo stesso virus di tutti quelli che pretendono

di interpretare i libri sacri.

Basta poco per trovare il motivo di una differenza e su quella si fondano

grandi e irrecuperabili divisioni.

Un gruppo sosteneva l’impossibilità di agire senza analisi.

Quindi si organizzava quasi come un istituto scolastico.

L’altro dichiarava che non si può solo studiare e non agire.

Quindi si organizzava come un piccolo esercito d’occupazione.

Altri non erano d’accordo con l’uno né con l’altro, perché il Libro nella tal

pagina dice una cosa diversa da come viene proposta.

Quindi tacciava di revisionismo chiunque si differenziava appena dalla

sacralità.

Altri ancora inneggiavano all’autonomia, presa come valore assoluto.

Quindi niente organizzazione.

Altri pensavano che fosse impossibile agire senza armarsi.

D’altronde non è solo l’ ambito politico a palesare tanta epidemia di diaspora

cronica.

Come si fa a non pensare che anche in ambito religioso esistono molte e

differenti interpretazioni del vero?

Quanti differenti modi di essere cristiani esistono?

E quanti di essere musulmani e buddisti?

In quell’arcipelago di isole sparse e scarsamente collegate un isolotto apparteneva

al vichingo.

E gli abitanti erano suoi devoti.

Indiscutibilmente.

Sol che, a differenza degli altri capi-isola, il nostro riusciva a esercitare grande

influenza anche all’interno del territorio altrui.

Ovunque arrivassero gli echi delle sue gesta e delle sue predicazioni.

Quando di necessità si doveva organizzare qualcosa insieme, l’ultima parola

sul da farsi e come farsi spettava a lui.

Era una sorta di capo fra i capi.

Era quello che interpretava meglio di chiunque altro l’esigenza di una nuova

Giustizia.

Ancor meglio di tutti gli altri rivoluzionari.

 

Capitolo 4

Carlo, l’altro rivoluzionario

 

Carlo da anni aveva calpestato il palcoscenico del partito comunista e del

sindacato.

Ma da quei teatri era stato invitato ad allontanarsi, a causa del suo continuo

dissenso.

La nascita dei partiti dell’extra sinistra e dei sindacati autonomi era stato

come un invito a nozze.

Ed egli sposò entrambe le attraenti vergini.

Gli emarginati senza scuola, chi non sapeva scrivere o leggere, quelli che

abitavano case poco decenti, chi aveva un lavoro pagato penosamente…

Tutti trovavano Carlo sempre pronto a difenderli.

Ben voluto come era da quella povera gente, ogni elezione al consiglio comunale

lo vedeva vincente.

Ma sempre solo.

Senza alleanze.

L’essere di minoranza era uno dei dati distintivi della sua carta d’identità.

Il suo era un rosso sempre più vivo, rispetto a quello degli altri.

E nella miniera aveva trovato la sua tavolozza rappresentativa.

“Nessuno deve essere licenziato!”

“Dicono che estrarre lo zolfo costi troppo caro”.

“Vogliono solamente guadagnare di più!”

“Però vogliono aiutarci. Sai, uno dei nostri ha sentito l’onorevole Cajo e ci ha

garantito il suo aiuto”.

“Ecco, subito i crumiri. Anziché lottare per la Giustizia vanno a elemosinare

la benevolenza”.

“Sai bene che non possiamo farcela da soli”.

“Solo noi possiamo vincere, invece. L’onorevole Cajo non fa altro che

buggerarvi!”

“No, no. I nostri hanno sentito una sua telefonata al Presidente della Regione,

il quale lo ha rassicurato”.

“Cercano solo i nostri voti. Fanno finta di interessarsi ai nostri problemi per

averne vantaggi elettorali”.

“Cosa dobbiamo fare, allora?”

“Sciopero! Ecco cosa dobbiamo fare”.

Quando Carlo parlava le sue gote si coloravano di porpora e si gonfiavano.

La sua vita era un continuo comizio e non mancavano mai gli applausi finali

alle sue invettive contro i potenti.

C’era sempre tanta gente ad ascoltarlo.

Ognuno certo del suo totale impegno.

Un impegno solitario.

Nessuno lo appoggiava.

Nemmeno quelli della sinistra revisionista, come egli la definiva usualmente.

“Dobbiamo stare dentro le istituzioni per cambiarle”.

“Finirete azzannati dai lupi!”

“Non si può solo stare nelle piazze a urlare. Bisogna anche proporre”.

“Il rispetto della gente: ecco cosa chiedere. Senza compromessi e senza

genuflessioni”.

“Vuoi vincere solo contro tutti?”

“Io sono con il popolo. Non sono solo. Siamo tantissimi”.

“Tu farnetichi che il mondo possa cambiare dall’oggi al domani, come nulla

fosse. Come se si trattasse di un gioco da bambini”.

Certo.

I bambini vogliono giocare.

I suoi bambini, invece, erano abituati alle assenze del padre.

Ma la moglie era sempre pronta a giustificarlo.

Ella ben sapeva che Carlo era quello, che non poteva essere altrimenti.

Mai aveva tentato di limitarne la voglia, il bisogno, anzi.

Sapeva che Carlo doveva stare in mezzo alla gente umile, fra i diseredati.

Fra quelli che parlavano un linguaggio povero, scarno.

Quelli che inciampano fra le regole grammaticali, al punto da ruzzolare, talvolta,

nel totale silenzio.

I bimbi di Carlo, invece, erano bravi a scuola.

E al mattino si alzavano volentieri.

La mamma era loro molto vicina e li seguiva con grande attenzione.

Non solo nel loro impegno scolastico.

Fra l’altro era una buona cuoca e sapeva anche cucire e ricamare, oltre che

sapere pulire e stirare le camicie.

Pure l’incombenza del fare la spesa era sua.

Anche perché se la cavava molto meglio del marito a comprare di più al

minor prezzo.

Aveva un grande problema, però.

L’uso dell’ ascensore.

Il quinto non era l’ultimo piano del palazzo, ma i gradini erano pur sempre

tanti.

Specie quando i pacchi della spesa le scappavano dalle dita.

Ma l’accettazione del sacrificio era totale.

E su questo argomento le critiche del vichingo erano feroci.

“È incredibile!”

“Cos’è che ti suscita tanta meraviglia?”

“E me lo chiedi?”

“Sì, sono io a non capire”.

“Tu che difendi tutti i deboli della Terra…”

“Lei non è debole”.

“Carlo, tua moglie è una persona, con tutti i diritti che ciascun essere umano

possiede”.

“Nessuno glieli nega”.

“Cosa dici? Tu le neghi uno dei diritti fondamentali: quello di liberarsi dalla

schiavitù che il marito le impone! In nome di un malcelato desiderio di possesso,

frutto di un maschilismo sgorgante in piccoli gesti e comportamenti”.

“Finiscila con questa storia del maschilismo. Essere uomini non significa

essere maschilisti”.

“Cosa vuol dire per te essere uomini?”

“Vuol dire sapere bene come siamo fatti. Sapere che sappiamo imbrogliare

con estrema facilità”.

“E le donne sono tutte stupide. Si fanno imbrogliare con estrema facilità. È

questo che vuoi dire, Carlo?”

“Penso che sia meglio proteggerle dalla perfidia maschile”.

“Eccolo il difensore dei deboli! Addirittura, così la proteggi!”

“Certo, la proteggo”.

“Ecce agnus! Un’orda di lupi accerchia il gregge e attende il momento buono

per azzannare una povera pecorella indifesa”.

“Non hai mai sentito parlare di donne sedotte e abbandonate?”

“Non puoi dichiararti il difensore dei diritti umani se poi neghi a tua moglie la

possibilità di usare l’ascensore se non in tua compagnia!”

“Lei non se ne lamenta”.

“Allora i padroni sono autorizzati a maltrattare i deboli, quando questi ultimi

non si lamentano?”

“Io non sono un padrone!”

“Cosa sei, allora?”

“Un buon marito. Solamente un buon marito”.

Lo scontro verbale fra il rivoluzionario titanico e il rivoluzionario non carismatico

fu il loro ultimo incontro.

Stava per accadere quello che nessuno si aspettava…

 

Capitolo 5

Sull’albero spezzato

 

Tante mani erano protese verso quel fusto, spezzato.

Ognuna di esse lasciava un fiore.

Molte lacrime vi luccicavano sopra.

Come le stelle nel cielo d’agosto.

Ma c’era silenzio.

Un assordante silenzio.

Rotto solamente dal rumore dei tacchi delle tante che partecipavano a quella

sorta di processione.

Il taglio era netto.

Pareva piangere pure lui.

Quel povero albero fino a poche ore prima aveva offerto bellezza e consolazione.

Era orgoglioso del suo verde fogliame e del suo donare.

Sì, donar frescura.

Una seppur lieve frescura non si può negare ad alcuno.

A buoni e cattivi.

Era una Befana che conosceva solo buoni bambini.

E compariva come una sorta di cornice nelle foto di tante giovani spose.

Nei loro sorrisi era disegnata anche la sua felicità.

Era buono, quell’albero!

Ma quante volte la bontà ha dovuto soccombere di fronte alla cattiveria?

Taglio netto.

Brutale.

Lo si capiva.

Lo si vedeva.

Braccia forti e animi di pietra.

Occhi arrossati e muscoli contratti.

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette… via.

Eccolo giù.

Brutto pezzo di merda, vai a quel paese!

Giù giù, a terra.

Li devi stare!

Diavoli devono calpestarti, non Serafini e Cherubini!

Imprigionare intorno a te l’acre odore della morte che arde fra le fiamme.

Diffonderla come l’ ultimo dei messaggi satanici.

Farla respirare ai passanti.

Persino a quanti solamente ti pensano.

Ecco cosa devi fare!

E lontano ti devono stare i buoni.

Ah, i buoni!

Ridicoli.

Sono ridicoli!

Imbecilli, meglio.

Dato che non capiscono, li aiuteremo noi!

Dondolarsi fra le nuvole, tra il cinguettio degli uccelli.

Chiedere ad un fiore il permesso di spezzargli il gambo…

Noi non dobbiamo chiedere permesso a nessuno!

Tremare.

Davanti a noi devono tremare di paura.

Farsela addosso come i neonati.

O come i vecchi rimbambiti.

Sappiamo quello che è giusto.

Solo noi lo sappiamo.

E chi sbaglia paga.

Il perdono?

Roba da femminucce.

Guarda il profilo dei nostri volti!

È duro, scavato.

E il colore?

È grigio pallido.

E il sangue?

Molti hanno sangue rosso, qualcuno ha sangue blu.

Che ridere…

Noi lo abbiamo nero.

Ma almeno scorre?

Solo quando lo vogliamo noi.

Più spesso… lo vediamo scorrere.

Che divertimento!

Anche il suo spruzzava dal petto, come a fiocchi.

Che divertimento!

Era come la neve, ma era rosso.

Puzzava, però…

Va bene lo stesso.

Un po’ di puzza, ma una carogna all’Inferno.

Lì deve stare.

All’Inferno!

Non fra i giusti.

Non fra noi.

 

Capitolo 6

Sul pianto di una bambina

 

Come sembrava grande la bara!

Era bianca, ma non si vedeva più il suo colore.

Si vedevano solo colori, tanti colori.

Ogni fiore voleva partecipare alla composizione:

Essere immortalato per l’eternità, magari da comprimario, tuttavia presente.

L’aria era chiara, ma pesante.

Difficile da respirare.

L’eco dell’orazione funebre viaggiava da una parte all’altra dei muri della

chiesa.

Senza mai fermarsi.

Le parole si intuivano, ma nessuno prestava loro attenzione.

Gli sguardi erano fissi.

Tutti lì.

Neanche il singhiozzare ansimante di una bimba distoglieva i pensieri.

Tutti lì.

Fissi lì.

Il vichingo se la godeva.

“Ammazza, quanta gente al mio funerale!”

“Non te lo aspettavi?”

“Francamente un po’ sì”.

“E allora?”

“Per quanto possa aspettartelo, fa davvero piacere vedere con i propri occhi

tanta gente che piange per te”.

“Devi aver fatto tanto bene…”

“Sì, qualcosina ho fatto”.

“Non fare il modesto!”

“Non si tratta di modestia. È imbarazzo. Sì, è un po’ imbarazzante darsi dei

meriti”.

“Pensare a te come uno che si imbarazza…

Mi viene da ridere, ma non posso farlo. Siamo al tuo funerale!”

“Dai, concediti un poco di allegria. Magari non darlo a vedere. Potrebbero

non capire. Io sono contento se tu sei allegro”.

“Allegro è troppo. Forse è meglio dire che sono contento di vedere un fiume

di lacrime scorrere per te”.

“Okay, d’accordo così. Ma devo chiederti una cosa”.

“Dimmi pure”.

“Prima una confessione”.

“Vai”.

“Senti il pianto angosciante di quella bambina?”

“Sì”.

“È l’unico pianto che non mi fa piacere sentire. Anzi, mi sconvolge!”

“Capisco”.

“Potresti fare qualcosa per aiutarla?”

“Sinceramente non lo so. Posso prometterti di provarci, non di riuscirci”.

“Mi basta”.

“Dimmi. Come mai è l’unico fra i pianti ad addolorarti?”

“Perché la mamma è giovane. Le sarà difficile andare avanti, ma potrà

conoscere un altro uomo. Mia figlia, invece, un altro padre non potrà trovarlo”.

“Riposa in pace, vichingo. I ricordi valgono molto. E ci sostengono. Ci aiutano

a superare le più grandi intemperie. Sono come forti stampelle, rami di

quercia. Tranquillo. Riposa in pace, vichingo”.

Una folla immensa attendeva il suo ultimo passaggio fuori dalla chiesa.

C’era tutto il paese e tanta gente che veniva da fuori.

Senza pudore alcuno, un grande telone rosso campeggiava appena di fronte.

“Ciao, compagno. Continueremo a lottare per te”.

Carlo non aveva avuto paura di turbare la sensibilità popolare.

Era incazzato nero.

“Come hanno potuto farlo?”

 

Capitolo 7

Sulla bontà vera

 

Una domenica sera.

In pieno centro.

Incuranti di tutto.

Davanti a una moltitudine di persone.

Sotto l’albero.

Avevano deciso di abbatterlo lì.

Non certo per reverenza. Più probabilmente perché sarebbe rimasto visibile,

lì, a lungo.

Il messaggio doveva essere trasmesso via etere e tutti lo dovevano ricevere.

Avevano fatto i conti senza l’oste, invece.

Per giorni e giorni l’albero assunse i colori di una bella pianta fiorita e con

petali sempre freschi.

Perciò si saranno indignati…

Giù!

Vada giù anche l’albero!

Vadano insieme, in malora!

L’alba di una mattina chiara aggiunse desolazione allo sconforto.

Reciso.

Il fusto e i suoi rami se ne stavano stramazzati al suolo.

Le foglie venivano calpestate dai passanti sbigottiti.

O sbattute qua e là dal venticello che si era mosso.

Ucciso lui e i suoi ammiratori, umani e vegetali.

Sì, perché l’albero era stato l’ultimo suo ammiratore.

Lui aveva visto con quanto pudore aveva accettato il trasferimento della

propria anima.

Non un grido.

Non una imprecazione.

Non un richiamo alla mamma.

Niente di niente.

Era caduto lì.

Aveva avuto appena il tempo di alzare le palpebre, prima cadute.

Solo un attino, per guardarli in faccia e salutarli.

Ciao a tutti.

Arrivederci.

L’albero aveva cercato di consolarlo, di dargli forza, coraggio.

Aveva provato a muovere le foglie, quasi a sventolarlo.

“Sveglia, sveglia!”

Lui, con un impercettibile movimento del mignolo lo aveva ringraziato e gli

aveva detto che non c’era niente da fare.

“Grazie, comunque”.

E l’albero si era arreso alla evidenza.

Tuttavia pensò di potere fare lo stesso qualcosa per lui.

“Proteggerò il tuo ricordo, ne sarò il gendarme. Staremo insieme, per anni e

anni. Abbracciati”.

“Grazie, grazie davvero”.

“Ti proteggerò dal caldo e dal freddo. Io so come fare”.

“Te ne sarò riconoscente, per sempre. Adesso fa caldo, qui ai tuoi piedi. Ma

verrà il tempo dei brividi”.

“Ci penserò io. Riposa, adesso. Riposa”.

“Grazie, grazie davvero”.

Caterina lo ricordava così.

L’uomo giusto abbattuto dagli ingiusti.

Il Bene sconfitto dal Male.

E allora sia guerra al Male.

S’avanzi la bontà

Si fermino gli ingiusti.

E le era capitato di lavorare nel posto giusto per continuare la crociata.

 

Capitolo 8

Sulla Giustizia

 

Il silenzio li aveva avvolti.

Per tutto il tempo della proiezione.

Stretti l’uno all’altra, quasi a scambiarsi le emozioni.

La serata era fredda, ma il tema del film aveva regalato a Caterina e Lorenzo

una strana sensazione di calore.

La schermata finale li sciolse, quasi liberandoli dalla voglia repressa di dirsi

qualcosa. Fors’anche di esprimere una certa irritazione.

“Perché li ha chiamati ‘i dormienti’?” – chiese Caterina. “Chissà, forse

pensava a una cellula terroristica…”

“Dici?”

Tutti e due avevano scrutato la mente del regista,

Ne avevano scandagliato i più nascosti meandri.

Avevano impresso nella loro mente quelle immagini cruente.

Si erano inerpicati sui sentieri tortuosi della trama.

Lorenzo aveva provato a metterla sullo scherzo, ma Caterina non ne aveva

colto l’intento.

“Sì, ma non è giusto che quei quattro trovino la loro soddisfazione attraverso

la vendetta. Persino grazie a uno spergiuro!”

“Avevano forse altre maniere?”

“Per la miseria! Uno di loro era Procuratore, un uomo di Legge!”

“Sempre la stessa solfa…”

“Possibile che tu non debba mai credere nella Giustizia?”

Ben sapendo come andava a finire solitamente, Lorenzo si slanciò verso

Caterina per abbracciarla.

Quasi un segnale di pace.

Caterina, però, era davvero infastidita e rifiutò la tenerezza.

Era ancora molto scossa da quelle immagini e piccoli rivoli salati le avevano

solcato il viso.

“Un prete ha giurato sulla Bibbia, sapendo di mentire!

forse ha capito che solo così quelle quattro persone potevano avere giustizia”.

“Ma ben sapeva che almeno due di loro erano degli omicidi. Che avevano

ammazzato. Avevano infranto uno dei comandamenti!”

“Certo. E forse sapeva anche che nulla sarebbe cambiato per loro, dopo.

Che avrebbero continuato a essere dei malviventi”.

“Un prete spergiura in favore di violenti omicidi che forse continueranno ad

essere tali!

Ti pare giusto?”

“Mi pare umano. Il prete ben sapeva cosa aveva fatto quel sadico pedofilo

a dei poveri bambini. Lui che lavorava… per rieducarli! Poteva dimenticarsene?

Poteva non comprenderne il grande bisogno di risarcimento? Dopo

tutto il male che aveva loro inferto, per anni…”

“Sì, ma aveva anche sentito il pentimento sincero del grande amico dell’educatore

sadico. Il perdono al pentito è la miglior vendetta”.

“Al pentito, appunto. Quell’altro, invece, ha fatto il maiale sino all’ultimo”.

“Un buon Dio non può che raccomandare il perdono…”

“È più semplice quando parliamo del perdono che devono darci gli altri.

Sapresti perdonare chi ha stuprato tuo figlio?”

Caterina non ebbe esitazioni.

“È una questione diversa. In tal caso dovrebbe intervenire la Giustizia e

condannare chi ha sbagliato. Duramente”.

“Così la Giustizia mette a tacere il nostro desiderio di vendetta”.

C’era bisogno di una pausa.

Un drink, ecco cosa occorreva.

Caterina si alzò, prese due bicchieri e versò del buon vino bianco, ghiacciato.

Nel mentre freddò anche il televisore.

La pausa, tuttavia, fu breve.

Si sedette vicino a Lorenzo, trangugiò il vino e lo fissò, quasi a pretenderne

l’assenso.

“Sbattere in galera chi ci ha fatto del male frena i nostri moti di vendetta”.

Lorenzo no, non volle acquietarla.

“A questo punto chi veste la toga si sostituisce alla volontà divina. Attenta,

qualcuno potrebbe convincersene e sentirsi quasi un padreterno. È pericoloso,

molto pericoloso”.

“Il pericolo si elimina facilmente. Basta comportarsi bene”.

“Cara, non sto perorando la causa del malvivente”.

“Però stai giustificandolo. Stai accettando la rivalsa. Stai pensando al valore

risarcitorio della vendetta. Stai perdonando un prete che giura il falso sulla

Bibbia. Cos’altro vuoi aggiungere?”

“Tu pensi alla Giustizia, al Perdono, al Prete. Tutto al maiuscolo, come fossero

entità spoglie della natura umana”.

“Sono certa che un uomo o una donna che vogliano fare il giudice, esser

prete o suora, sappiano dentro quali vesti stanno andando a infilarsi”.

“Sì, ma le vesti stanno sopra la carne. E l’uomo e la donna rimangono in

loro. Non si alienano”.

Sembrava di stare dentro l’antico Colosseo, mentre fiere e gladiatori cercavano

di vincere la battaglia per la vita.

“Oltre la carne c’è l’amore. E gli uni sono innamorati del giusto quanto gli

altri sono innamorati di Dio”.

“Seppure con qualche riserva, credo più ai pochi che sono innamorati di Dio,

anziché ai tanti altri che sarebbero innamorati del giusto”.

“In tanti sono morti pur di onorare il loro amore per il giusto!”

“È proprio vero. Così come tanti sono morti pur di non rinnegare il proprio

Dio. Molti altri, però, vivono nella ricchezza sfrenata e nella sregolatezza,

speculando sulla morte dei loro predecessori. Approfittano delle altrui morti,

per ricevere la gloria che compete a quelli”.

“Possibile che tu abbia totalmente perso, se mai l’hai avuta, la fiducia nella

Giustizia?”

“Perché non apri la finestra e guardi cosa succede là fuori? Potresti accorgerti

che Ginevra è lontana”.

Spesso Lorenzo scherzava sulla cieca fede di Caterina nel rispetto delle

regole e delle autorità, ricordandole la sua origine svizzera.

“Dobbiamo invece ringraziare i Calvino e i Rousseau. Almeno qualcuno ha

provato a spiegare agli altri come comportarsi”.

“Rousseau è riuscito benissimo a spiegare agli altri come far crescere bene

i ragazzi.

Solo che i suoi figli li ha tenuti ben chiusi dentro un istituto…

Così ha evitato di mettere se stesso alla prova…”

I leoni non volevano morire.

I gladiatori neppure.

L’emotività mossa dalle scene del film e l’asprezza dialettica dello scontro

consigliarono perciò a Caterina di proporre la fuoriuscita dall’anfiteatro.

Un opportuno ricovero sotto le coperte.

Il freddo era pungente e nessun meteo prometteva miglioramenti per i giorni

successivi.

“Torniamo anche noi a essere dormienti”.

“Sì. Domani mi aspetta un’altra giornata difficile, al lavoro”.

 

Capitolo 9

Sulla Debolezza nei confronti dei forti

e sulla Forza nei confronti dei deboli

 

Per Caterina il lavoro era spesso causa di dissapori con i colleghi, se non di

scontro aperto.

A casa portava il fardello del suo disgusto e cercava di condividerlo con

Lorenzo.

La sera.

Nel tempo in cui si corre incontro al sogno.

Per superare le asperità della realtà.

Era sera, preparavano la cena.

Nel mentre, Caterina era spettatrice di un festival di cortometraggi.

Una lunga serie di immagini, infatti, transitava velocemente nel cinema della

sua mente. E i ricordi si accompagnavano alle vivide emozioni, che facevano

loro da cicerone.

Il bombarolo, lo stupratore, il killer, il rapinatore, lo spacciatore, lo scafista

assassino: erano tutti lì.

Travestiti da ragazzi sofferenti, emarginati socialmente, amorevolmente legati

ai propri genitori e con una serie di amici da bene.

E accanto a loro spesso c’era la fotografia di una ragazza che li ama.

O di tante focose giovani che, tutte insieme, e contemporaneamente, li amano.

Le era successo.

Un ragazzo per banalissime questioni, e senza alcuna remora, aveva ammazzato

un handicappato.

Per alcune settimane aver dovuto pernottare dentro una cella buia.

Senza le solite birre.

Senza il solito fumo.

E senza il motorino, con il quale amava scorrazzare a ottanta all’ora in pieno

centro.

Sì.

Era successo.

Il giorno del suo compleanno aveva ricevuto decine di lettere di ragazze.

Le promettevano amore e fedeltà.

Per sempre.

Lo avrebbero atteso per anni, giuravano.

Sino al giorno in cui sarebbe finita la sua terribile penuria, di tutto.

E molte di esse nemmeno lo conoscevano.

Avevano saputo di lui dalla stampa o dai mass media.

Non avevano neppure potuto vederlo in una fotografia…

Ma per l’orgoglioso vendicatore di chissà quale modestissima offesa non

c’erano solo le vispe quindicenni ad anelarne la puntura tze tze…

Per il fiero assassino c’erano anche zelanti quarantenni a testimoniargli

fascinazione e riverenza.

Lo avevano riconosciuto.

Forse glielo avevano indicato.

I loro sguardi erano tutti per uno solo.

Ed era evidente come i feromoni le avvolgessero, come le masse gassose

fanno con Giove.

Pronti a tramutarsi in velocissimi messaggi d’amore.

Amore per il Personaggio.

Amore per il teatro.

Già, il Teatro.

Alcuni dei reclusi si erano inventati attori e attendevano lo scrosciante applauso

finale degli spettatori.

Tutta la città era stata invitata all’interno del cortile.

Un cortile freddamente circondato da alte sbarre di ferro, fino a una certa

altezza ornate da rete metallica, spinata.

Avevano deciso di offrirsi in esilaranti scenette alla città.

Lui no.

Il nostro eroe poteva essere spettatore, non attore.

Gli altri dovevano sforzarsi di farlo divertire.

Non toccava a lui farlo per gli altri.

Almeno cento sedie erano state affannosamente reperite.

Insieme, come in un abbraccio fraterno e di comunione.

C’era posto per tutti, i pochi detenuti e i tanti spettatori.

Fra le tante al centro, spiccava, una sedia verde.

L’unica verde, fra le tante grigie.

Prima che lo spettacolo iniziasse, il Manga quella sera aveva dimostrato di

non essere bravo solo nel suonare gli strumenti musicali, tutti quanti.

Aveva dimostrato di essere anche un attento osservatore.

“Caterina, non ti stranisce quell’unica sedia verde?”

“No. Perché?”

“L’altra volta ho visto sedervi uno spettatore d’eccezione”.

Gli occhi del Manga parlavano come le corde della sua chitarra.

Quasi a non volergli credere, Caterina preferì attendere.

Tutto andava ad accadere da lì a poco.

E la verità annunziata si presentò ai suoi occhi.

Palesemente.

L’eccezionale spettatore era lì, seduto sull’unica sedia verde, al centro del

mondo, seduto sul soglio.

Le quindicenni lo ammiravano, i quarantenni lo temevano.

Cosa sa fare la Giustizia di fronte a tali scelleratezze?

“La gente pensa che sbattere in galera il mostro che c’è dentro ognuno di

noi ci metta al riparo da future sue imboscate”.

“Vuoi dire che mettere i terroristi al chiuso, a Guantanamo, non sia una

giusta punizione? Vuoi metter fine al 41 bis per i mafiosi?”

“Giusto o ingiusto, i terroristi a Guantanamo vogliono morirci dentro. Esiste

miglior morte di quella che ti garantisce un bel numero di vergini per

l’eternità?”

“Sei sempre lo stesso!”

“Non è una mia invenzione…”

“Sì, ma non puoi ridurre tutta la questione alla promessa del piacere eterno”.

“No, voglio solo dire che esistono tante Giustizie. Non una sola, valida per

tutti”.

“La Giustizia deve essere sola la rappresentazione di quello che è giusto”.

“Ciò vale sola nel mondo delle idee. In questa povera terra, calpestata da

miliardi di poveri peccatori, i giustizieri sono spesso i peggiori fra i colpevoli”.

“Lorenzo, quasi mi offendi”.

“Assolutamente no. Pensa a quei ragazzi rinchiusi in carcere perché hanno

una pena da espiare. La società è contenta: rinchiuso il Male, finito il Male.

Fra i tanti che si danno da fare per la loro rieducazione, in realtà, qualcuno

ha scelto di lavorare in quelle strutture per potere realizzare i propri istinti.

Così il Male produce peggior Male. Una scelta poco oculata, non ti sembra?”

“Non sono tutti così”.

“Così come non esiste una Giustizia non esiste un Rieducatore”.

“Non tutti sono disponibili a piazzare una sedia verde al centro di un proscenio

per farvi accomodare Caino”.

“Non esiste il Secondino, esistono i secondini”.

Spesso funziona meglio il Perdono…

 

Capitolo 10

Sul perdono

 

“Uffa! Non ne posso più”.

“Che succede, Caterina ?”

“Niente di nuovo. Come accade sempre, si è trovato al proprio fianco le zie…

Prontissime a comprenderlo, a giustificarlo!”

“Capisco. Sarai nervosa anche stasera…”

“Come si fa a restare calmi?

Quel ragazzo sa tutto dello spaccio di droghe.

Sa tutto delle armi da usare per le rapine. Sa tutto degli esplosivi da usare

per fare saltare in aria le saracinesche dei negozianti riottosi a pagare il

pizzo. Sa persino come guardare gli occhi di chi sta salutando la propria

anima, fatta sprizzare fuori dal corpo a colpi di kalashnikov!”

Lorenzo sapeva bene cosa si sarebbero detti ancora.

“Avranno detto le solite belle parole, vero?”

“Magari fossero sono parole… Fantasie!

Miste ad allucinazioni… E il guaio è che poi, misteriosamente, pretendono

di farli diventare fatti concreti, veri…”

“Avranno sostenuto che i suoi genitori non hanno capito niente…”

“Esatto! La madre lo vedeva entrare dalla porta prima della mezzanotte, ma

non sapeva che usciva dalla finestra alle due! Dicono di aiutare i ragazzi che

assistono e invece li accompagnano al disastro. I ragazzi non ci capiscono

nulla. Sanno bene di aver commesso delle porcate, ma poi si vedono recapitare

un pacco natalizio contenente un perdono mai chiesto…”

“Le zie perdonano sempre!”

“Non è così che si educa un ragazzo. Nessuna regola, nessun impegno.

Tutto è possibile, tutto è dovuto.

E non deve nemmeno aspettare.

Immediatamente qualcuno o qualcosa deve rendere possibile l’appagamento

del suo desiderio”.

“In realtà forse aiutano se stesse”.

La pentola a pressione fischiava, come un capostazione.

Bisognava allontanarsi dal binario.

Imprigionare gli spaghetti: ecco la soluzione.

“Cosa vuoi dire?”

“Penso a questo. Se aiutiamo qualcuno stiamo bene. In fondo lo facciamo

per noi stessi”.

“Qualcuno, però, deve porli di fronte alle loro responsabilità

“Sì, ma le… zie hanno scelto il lavoro di aiutare gli altri. Spesso la chiamano

missione. Hanno un ideale alto, credono nella loro missione”.

“Conosco i veri missionari. Quelli hanno scelto di aiutare gli altri non per

lavoro”.

“Nel nostro caso è diverso. È come se volessero essere amate perché

amano”.

 

Capitolo 11

La Legge è uguale per tutti

 

Alcuni ragazzi arrivavano nella struttura penale con un’aria sperduta.

Era chiaro: non sapevano neanche dove fossero.

Blateravano qualche sciocchezza e stimolavano sorrisi beffardi.

Quelli di chi è abituato a calmare i tori infuriati e che si trova dinanzi ad un

vitellino da latte.

Il bambino.

Lo chiamavano così.

E discutere con i bambini è difficile.

Come parlare due lingue diverse.

Spesso sprofondando nelle sabbie mobili dell’ovvietà.

Ma per le zie non c’era alcun odore di banalità

Esse si erano fatte la loro idea.

Precisa.

Certa.

Sembravano avere una palla magica cui porre domande e averne tutte le

risposte desiderate.

E per Caterina era una continua lite.

I Giudici, poi, ci mettevano la loro.

Come Olimpi che vengono a profondere verità agli umili ignoranti, mettevano

per iscritto altre banalità.

Stavolta, però, con tutto il crisma della sacralità.

E della dovuta obbedienza.

Sentenze.

Quelle a cui ti puoi appellare solo chiedendo altre sentenze.

Ad altri Olimpi.

Peritus peritorum.

Ritengono di capire ogni cosa.

Con una convinzione radicata come le querce sul terreno che le fa crescere.

Tutt’al più, raramente in verità, facendosi scrivere poche pagine da egregi

specialisti.

Una volta lette, si impossessano pienamente delle altrui scienze e sono autorizzati

a parlarne.

Parlarne?

A sentenziarne!

I migliori sono quelli che si esibiscono poco.

Altri, invece, vogliono togliere spazio alle star dello spettacolo.

Avere le prime pagine dei rotocalchi e delle televisioni,

I più… fortunati ambiscono alla prima pagina del New York Times.

Se poi sono fotogeniche o fotogenici, allora apriti cielo!

Appena fanno qualcosa, subito riuniscono uno stuolo di giornalisti per comunicare

la loro opera.

E dietro di loro, scegliendo l’angolazione giusta per rubare una inquadratura,

si piazzano altri personaggi in cerca d’autore.

Gente che talvolta non c’entra nulla, ma che non può rischiare di perdere

l’occasione per rapinare un attimo di celebrità.

Ancor più dietro campeggia l’inno alla Giustizia: La Legge è uguale per tutti.

Davvero?

“Sono sconvolta!”

“Cosa ti è successo, Caterina?”

“Sono andata a prendere mio nipotino, all’uscita da scuola…”

“Fin qui tutto a posto”.

“Mi avvicino al cancello della scuola e cerco di farmi spazio fra la solita

ressa di genitori che attendono”.

“Le solite decine e decine di madri e l’altrettanto solito manipolo di padri…”

“Sì. Sai bene il vocio che fanno”.

“Certo”.

“Improvvisamente si sentono delle urla”.

“Urla?” – la interruppe Lorenzo.

“Sì, urla”.

“Comincio a preoccuparmi. Chi urlava?”

“Un uomo. In mezzo a quella vociante folla era riuscito a farsi sentire. Urlando,

imprecando e… bestemmiando!”

“Che maiale!”

“Sì, bestemmiava Dio senza pudore”.

“Non si vergognava?”

“Faceva di tutto perché lo sentissero, tanto gridava”.

“Con chi ce l’aveva?”

“Inizialmente non l’ho capito. Poi, avvicinandomi, senza volerlo ho visto che

a un metro da lui una donna cercava quasi di proteggere un bambino”.

“Una mamma che proteggeva il proprio figlio dal blasfemo, dunque”.

“Ho avuto la netta sensazione che così fosse”.

“E tutta la gente intorno?”

“Sembrava quasi non sentire!”

“Incredibile…”

“A quel punto ho sentito il dovere di avvicinarmi, per proteggere eventualmente

la signora”.

“Certo”.

“Di oscenità ne ho sentite tante, ma la più brutta che quel porco potesse dire

è stata quella di rimproverare Dio di avergli dato quel figlio”.

“Non posso crederlo!”

“E lo bestemmiava per questo, capisci? Per avergli dato quel figlio!”

“Miseria…”

“La signora non gli rispondeva. Sembrava quasi infilare il figlio dentro ai

propri abiti, per non fargli sentire quello che il padre urlava a squarciagola”.

“Poverina…”

“Ma quale poverina!”

“Non ti capisco”.

“Quando mi sono avvicinata ai tre, oramai certa di dover difendere due

povere creature da un gran ceffone, ho potuto vedere bene chi erano gli

attori della scena”.

“Attori?”

“Lo dico con tutto il sarcasmo che ho dentro, ma anche con grande rabbia”.

“Ah!”

“Era un giudice, un giudice che conosco bene!”

“Un giudice?”

“Sì, proprio”.

“Sono sbalordito”.

“Chi è questo stolto?”

“Pure tu lo conosci. Lo hai visto tante volte in televisione”.

“Non mi dire!”

“Sì, invece. Proprio lui”.

“È dentro lo schermo tutte le volte che parlano dei diritti dell’infanzia e

dell’adolescenza!”

“È quasi contrito quando parla degli abusi nei confronti dei minori!”

“Un santo, direi. Il santo protettore dei diritti dei ragazzi”.

“Alla faccia!”

“Quando lo ascoltavo in tv avevo ammirazione per lui”.

“Non lo ascolteremo più, d’ora in poi. Non mi pare che abbia da insegnare e

spiegare alcunché, ad alcuno!”

“Non lo saluterò nemmeno, quando ci incontreremo”.

“Giusto. Non ne è degno”.

“Sai quel è la cosa che più mi indigna?”

“Più d’una, in verità…”

“Sì, è vero. Ma se penso di aver letto sue sentenze che ordinano la cessazione

della patria potestà perché i genitori, o uno solo di essi, maltrattano i

propri figli…”

“Vergogna!”

“Non si può dire altrimenti”.

“Forse ho capito perché la gente faceva finta di non sentire”.

“Hai capito bene. Si giravano dall’altra parte”.

“Era lui a doversi sentire verme”.

“Già, ma la gente si girava dall’altra parte…”

“Adesso dovrebbe scrivere la sentenza di cessazione della sua patria potestà”.

“Pensi che avrà mai tanta dignità?”

Ma i Giudici non esistono.

Esistono le persone che fanno i Giudici.

E come in tutti gli altri casi ci sono persone buone e cattive.

Persone, colte o ignoranti.

Meritevoli o indegne.

Che fanno il mestiere del giudice.

E la terra di Caterina e Lorenzo ne ha di Giudici da ricordare come grandi.

Anche quelli definiti bambini.

“Il guaio è che anche quando sono immeritevoli e indegni, pur sempre gestiscono

un potere enorme sulle persone”.

“E spesso provengono da cosiddette buone famiglie”.

 

Capitolo 12

Sui rampolli di buona famiglia

 

Prima di conoscere Lorenzo, messa oramai da parte la erre moscia, Caterina

aveva conosciuto un bel ragazzo.

E le era venuta voglia di frequentarlo.

La attraeva molto.

Capelli sempre a posto, abbigliamento all’ultimo grido.

Giacca anche nelle torride giornate d’estate, profumi tenui.

Comunicazione gentile e suadente.

Uno di quegli uomini che ti fanno pensare alla Bellezza.

Una bellezza che, per motivi più o meno magici, deve trasferirsi automaticamente

dentro l’anima.

Peggio, deve esserne l’espressione.

Ah, quanti danni ha fatto la bellezza in questo mondo!

Un galantuomo.

Un perfetto gentleman.

Corte garbata, nessuna insistenza. Puntualità negli appuntamenti, nonostante…

l’ovvio ritardo di lei.

Parole calde.

Parole che ti fanno sentire come l’amore ti stia grandinando addosso.

Il mare, poi.

Il mare è un catino di caldo affetto.

Una culla che ti dondola.

Un’amaca che ti rilassa le membra.

Uno specchio per i sogni.

Caterina nuotava come un pesce, veloce quasi quanto gli uomini.

Carezzava l’acqua, anziché prenderla a sberle.

La ringraziava di cotanto dono.

Ma pure il mare era orgoglioso di farsi solcare da una dea.

Si ammiravano vicendevolmente.

Come due amanti che si guardano negli occhi.

E stanno in silenzio, suggerendosi i sogni della notte.

Dalla spiaggia lui guardava solo lei, ma aveva solo sogni… fatti di carne.

Senza luce.

Senza sole.

Lei usciva dall’acqua grondante di goccioline salate.

E uno smagliante sorriso dava altra luce al suo quadro.

Lui riusciva appena a frenare l’esplosione dei suoi istinti, ma qualche esitazione

risultò evidente durante la recita.

L’attore non fu perfetto e la spettatrice colse l’attimo di imperfezione.

L’ abitudine di Caterina a osservare, ragionare, riflettere su ogni particolare,

la induceva a perdere qualche ora del sonno dovuto.

Era sempre stata così.

Niente affidava al caso.

Nulla all’imprevisto.

Non si lasciava andare mai e la sua mente era come un grande parcheggio

di dubbi e perplessità.

Con elevati costi del parking.

L’intensa attività cerebrale le scioglieva i grassi e la sua magrezza ne era

l’evidente conferma.

I genitori se ne erano preoccupati in passato, ma avevano alzato bandiera

bianca di fronte ai negativi responsi dei controlli medici.

Né la figlia pensava di cambiare i propri connotati.

In nessun modo.

Era proprio cocciuta.

“È un ragazzo di buona famiglia”.

“Sì, è vero”

“Ed è molto garbato ed educato”.

“Sì”.

“Uno così può solamente rendere felice una donna”.

“Può darsi”.

“Sai, mi sono informata. Mi dicono che abbia fatto una gran bella figura

all’Università!”

“Questo non è vero. Si è laureato quasi con il minimo”.

“È pur sempre laureato!”

“Non devo sposare una laurea, né una buona famiglia”.

“Siamo alle solite. Le ragazze non capite quanto sia importante essere dentro

una buona famiglia”.

“Io sto dentro una buona famiglia”.

“Dovrai formartene una tua”.

“Non è un obbligo”.

“Forse abbiamo fatto male a farti crescere in Svizzera”.

“Credo proprio di no, invece”.

La madre comprese che doveva dimettersi da funzionario dell’Ufficio della

Buona Norma e rivestire i panni della genitrice.

“Cos’è che non ti va di quel ragazzo?”

Caterina tirò un sospiro di sollievo, quasi scrollandosi la polvere delle parole

vuote, senza sostanza.

“Non mi convince”.

“Ah…”

“C’è qualcosa di falso in lui, di non autentico. Lo sento”.

“Potresti sbagliare”.

“Sinora il mio sesto senso non mi ha mai tradita”.

“In cosa ti sembra falso?”

“Nell’animo. È come se dentro nascondesse una persona diversa da quella

che appare al mondo”.

“Infatti, a me pare una bella persona”.

“Bella?”

“Sì, è un bel ragazzo…”

Caterina non era adusa a parlare sfrontatamente alla madre, per cui dovette

trincerare il proprio pensiero.

Avrebbe voluto dire: “Con la bellezza è bello stare un paio d’ore, per placare

gli istinti. E le rimanenti ventidue giornaliere?”

Preferì limitarsi a una frase maggiormente conveniente: “Non è la bellezza

esteriore che conta”.

Il tempo passava e le difese del bel ragazzo scemavano.

Accadde così che gli errori nella recita aumentassero sempre più.

E con essi i dubbi di Caterina.

Dubbi che pian piano diventarono certezze.

Fine.

Il tram era arrivato al capolinea.

“Avete trascorso una bella serata?”

“Sì mamma. Forse, però, sarà l’ultima”.

“È successo qualcosa?”

“Sì, gli ho chiaramente fatto capire di non sperare di impalmarmi”.

La mamma trangugiò.

“Poverino, che brutta serata…”

“Prima o poi doveva capitare”.

“Che tenerezza mi fa! È duro non veder ricambiato il proprio amore”.

“Gli ho detto la verità”.

“Certo…”

Dichiarare persa la battaglia?

Uhm…

Occorre rimpolpare l’esercito!

Si.

Con nuove truppe.

Ivana poteva essere una buona alleata.

Ma non lo doveva sapere.

Non doveva sapere di avere avuto confezionato il vestito dell’aiutante di

campo.

Ivana era talmente legata a Caterina che avrebbe rotto i rapporti con la

signora, se solamente avesse intuito l’arcano.

Ivana e Caterina avevano due case: una in paese e una in campagna.

Sceglievano alla bisogna.

E sembravano avere due mamme.

Ivana era in attesa degli ultimi tocchi di trucco di Caterina

Un buon caffè profumava la cucina e la ragazza ne stava sorseggiando un

po’.

“Hai saputo di Caterina?”

“Cosa, signora?”

“Vuol rimanere zitella”.

“Con tutti gli uomini che la corteggiano…”

“Stavo scherzando. Pare, però, che non le piacciano gli uomini belli. Li preferisce

ranocchietti”.

“Lo crede davvero?”

“Conosci bene l’ultimo suo corteggiatore e certamente saprai come lo ha

congedato”.

“Sì, me ne ha parlato”.

“Quello è proprio un bel ragazzo, ma… non le piace”.

“Certo, molte ragazze al suo posto avrebbero accettato di esserne fidanzate.

E poi mogli”.

“Certo”.

“Ma a lei non piace”.

“Signora, ho imparato da Caterina. Anch’io ero accecata dalla bellezza e da

un bel fisico. Forse altro è più importante”.

L’alleanza finì lì.

E lasciò una maternità soccombente al cospetto di una grande una amicizia.

E le sconfitte talvolta si susseguono.

Specie se gli alleati tradiscono.

Da settimane uno stridulo trillo interrompeva i sogni di tutta la famiglia.

Tutte le notti.

In verità meno che quelli del padre.

A lui sarebbero occorse le campane, per il trasferimento dall’onirico alla

veglia.

Caterina aveva imparato a fare scattare immediatamente la sua mano.

A sollevare la cornetta, prima che il fastidioso scampanellio continuasse.

Solito silenzio e cornetta messa fuori posto.

Sembrava un rito.

Insopportabile.

Madre e figlia erano nervosissime, ma impegnate a non far capire nulla al

padre.

Dunque, ne parlavano quando erano sole.

Sin dall’inizio Caterina era certa dell’autore delle grandi gesta.

La madre lo escludeva categoricamente.

Il che faceva incavolare ulteriormente la figlia.

“La brava gente non fa di queste cose”.

“Certo, la brava gente…”

“Smettila di pensare che possa essere lui. Vedi un po’ chi altri possa essere.

Non lui”.

“Certo, mamma. La brava gente non fa di queste cose. Il che vuol dire che

lui non fa parte della… buona gente”.

“Figlia mia, chi hai conosciuto adesso o prima? C’è qualcuno che hai rifiutato?

Qualcuno che spera che tu voglia ascoltarlo?”

“Bel modo di sperare! No, mamma. Non ci sono altri animali notturni nella

mia vita”.

Stanca della monotona celebrazione fonica, Caterina una sera, una notte per

meglio dire, si lasciò affogare nel rio della rabbia.

E scaricò sull’anonimo e silenzioso interlocutore un bel po’… di gentilezze.

Alla fine ripose la cornetta, sbattendola sul telefono.

Come se il colpevole fosse lì, a pochi centimetri da lei.

Non l’avesse mai fatto! Anziché arrendersi, l’uomo misterioso aumentò il

numero delle chiamate.

Volle mostrare il suo eidos.

Roba da far saltare i nervi a chiunque.

Da allora anche la madre di Caterina iniziò a pensare che la figlia avesse

ragione.

Quasi per lenirne la montante ira, alcune notti volle dormire vicino a lei.

Voleva alzarla lei la cornetta.

Al marito non poteva, né voleva, raccontare alcunché.

Inventò che aveva insonnia, che il sibilo del russamento del marito la svegliava

più facilmente del solito.

Da qui la giustificazione della diaspora della coniugalità notturna.

In verità non fu sincera neanche con la figlia.

La prima notte attese quasi con ansia che gli squilli dell’anonimo fendessero

il buio.

Niente, manco a farlo apposta.

Quella notte silenzio totale.

L’unica che ne trasse vero giovamento fu Caterina.

Finalmente poté concedersi un’intera notte di riposo.

La madre no.

Tutta la notte ad attendere, invano.

L’indomani era più allegra del solito.

Forse le sue preghiere erano state accolte, là dove si può ciò che si vuole.

Ne era certa.

L’agognato miracolo si era avverato.

Sarebbe andata a ringraziare.

Le sue compagne d’appuntamento quotidiano, quel pomeriggio la videro raggiante.

Allegra come mai la si era vista nelle ultime settimane.

All’uscita dalla chiesa qualcuna di esse si prese l’arbitrio di rappresentare la

meraviglia di tutte quante.

“Buone notizie, pare”.

“Di che si tratta?”

“Era da tempo che volevamo chiederti quale problema ti crucciasse. Stasera,

però, ci hai tranquillizzate. È bello rivederti così. Come sei sempre stata.

I problemi arrivano e passano, che vuoi farci…”

“Si, avete ragione. Un problema è passato, grazie a Dio. Ora sono felice”.

Quella sera si era addormentata serenamente.

E non aveva scordato di pregare.

Il diavolo, però, non aveva deciso di lasciare la sua casa.

E la beccò ripetutamente con il suo adunco rostro.

Gli squilli telefonici…

Un attimo di disperazione e di incredulità lasciò immediatamente il passo a

una composta reazione.

In fondo era l’occasione giusta.

“Figlio mio, perché ti disperi tanto? Prova a recuperare la tua pace. Vedrai,

il futuro ti regalerà tutte le soddisfazioni che meriti”.

Silenzio.

“Prova a riaddormentarti. Ti farà bene”.

Silenzio.

“Sai, mia figlia è…”

“Puttana. Tua figlia è una puttana!”

Era meglio il silenzio.

Alla malora la buona gente e le buone famiglie.

“Sei un porco! Un porco. Ecco cosa sei!”

La voce del ragazzo era alterata.

Ma inutilmente.

Il mattino seguente, due tazze di caffè attendevano sulla tavola.

“Hai ragione, figlia mia. Non somiglia per niente ai suoi. Da chi avrà preso?”

“Finalmente…”

“È un porco”.

Dovette ripeterlo più volte nei giorni a venire.

Il diavolo aveva gustato la vendetta.

Come era infuocata la sua bocca!

E penetrante la sua lingua biforcuta…

La signora si arrese.

Dovette parlarne al marito.

Il padre di Caterina prima stentò a credere.

Poi fu avvolto dall’odore acre della battaglia.

“Segneremo tutte le sue chiamate. Giorno e ora. Poi faremo regolare denunzia

all’Autorità”.

Erano state scelte le armi.

Anch’egli credeva fermamente nella Giustizia.

 

Capitolo 13

Sul Signor Procuratore

 

Quella mattina il padre di Caterina si era alzato e si era vestito di un misto di

ottimismo e di mestizia.

Sarebbe stato il giorno della Giustizia, ma anche il giorno del crollo di un mito.

Quello della Famiglia per Bene.

La scomparsa di quel salubre venticello che si muove per ristorare il popolino,

dall’alto del buon cognome.

Da quel giorno egli non avrebbe potuto più esser certo di indicare ai figli il

buon cognome delle persone da frequentare.

Il blasone non avrebbe più potuto garantire fedine pulite.

Di contro, il rampollo di Buona Famiglia avrebbe smesso di rompere le scatole.

E sua figlia avrebbe potuto riassaporare il sonno ristoratore.

Era entrato in Procura con la giovane avvocatessa al suo fianco.

Dritto e impettito.

Solo uno sguardo furtivo verso il colpevole. Lì solo.

Come un cane randagio.

E quando entrò il Signor Procuratore egli lo salutò con un largo sorriso.

Con il suo mezzo inchino aveva quasi voluto trasmettergli le proprie scuse.

Per averlo disturbato.

E via.

Un sorriso di circostanza anche per l’uomo che stava al fianco del Signor

Procuratore.

“Andremo via presto, non è vero avvocatessa?”

Era la prima volta che il padre di Caterina calcava il pavimento di una Procura,

di un Tribunale o di cose di tal genere.

E se ne vergognava, quasi.

Appena il tempo dei convenevoli e, anziché l’afa estiva, aveva sentito l’umido

maestrale.

“Guardi che lei ha detto delle menzogne!”

“Cosa? Chi?”

“Lei!

Proprio lei. Ha detto un sacco di menzogne… E questo potrebbe costarle

caro!”

“Con tutto il rispetto, Signor Procuratore, io non ho mai detto menzogne.

Sono una persona per bene…”

“D’accordo. Questa volta, però ha mentito!”

“Mi perdoni, Signor Procuratore. Su cosa avrei mentito?”

“Sulle telefonate notturne che lei avrebbe ricevuto”.

“Ma come?”

“Sì. Lei non ha ricevuto alcuna telefonata notturna. Nessuno l’ha mai

disturbata”.

Un gioco da mimi.

L’uomo a fianco del Signor Procuratore abbassò le palpebre, fin quasi a

chiuderle.

E mosse il viso verso il basso, lentamente.

Assentiva.

Gli occhi del Signor Procuratore, invece, erano fissi.

Esprimevano persino una certa rabbia.

Ma ancor più cattivi erano quelli del Rampollo di Buona Famiglia.

Si poggiarono sul suo corpo come solamente un rovo poteva fare.

Pungevano.

Il Signor Procuratore sbattè con forza, più volte, la sua mano destra su di un

incartamento.

“Qui ci sono i tabulati del suo telefono. Nemmeno una delle telefonate da lei

segnalate. Nemmeno una!”

Si girò verso l’uomo che stava al suo fianco: “Ne ha vista una, signor

Maresciallo?”

La domanda non meritava risposte.

Chiaro il diniego del Maresciallo.

“Quindi…”

Qui la voce del Signor Procuratore si fece più tenera e volle contrariare

Paganini, dando il bis: “Quindi…”

Un amico.

Un affettuoso amico che vuole indurti a non sbagliare.

A non dover pagare caro un errore commesso.

Si può sbagliare, no?

E per fortuna trovi un amico che te ne fa accorgere.

Due amici.

Anche il Maresciallo volle segnalare la sua bontà d’animo:

“Quindi è meglio chiudere tutto qua”.

I tuoni di Cividale del Friuli e delle Alpi Svizzere rimbombano con minor

fragore.

Il padre di Caterina aveva comprato il biglietto dello spettacolo del Circo.

Ma c’era rumore, tanto rumore.

E il regista dello spettacolo invitò sul palco anche un’attrice.

L’avvocatessa.

Ella prese sotto braccio il padre di Caterina e gli fece comprendere come

fosse il caso di allontanarsi.

Per un attimo, insieme.

Un’altra amica.

Appena fuori dalla stanza: “Cosa mi combina?”

“Avvocatessa…”

“Dobbiamo ringraziare il cielo di avere incontrato una brava persona. Di

fatto il Signor Procuratore sta rinunciando a denunciarla per calunnia”.

“Avvocatessa…”

“Chiudiamola qua e ringraziamo”.

“Avvocatessa, la prego. Mi lasci solo, un momento”.

Era l’ultima boccata d’ossigeno a disposizione.

Il tepore estivo lo accolse come le braccia di una madre verso un bambino

piccolo che si è perso sulla spiaggia.

“Che bello, qualcuno mi vuol bene!”

“Anche un pazzo ha il diritto di essere amato, cullato”.

“Sono impazzito e non lo avevo capito”.

“Non me ne ero accorto”

“Perdonami, mamma”.

Nel deserto ci si può ritrovare inaspettatamente da soli.

In mezzo al monotono e ripetitivo ondulare delle dune.

Solo sabbia fine.

Altro non possono donarti.

Sabbia, solo sabbia fine.

Negli occhi.

In tutto il corpo.

Nient’altro.

Il padre di Caterina perse tutte le coordinate.

Senza più tempo né spazio.

Solo con se stesso, ma con mille dubbi che gli ronzavano nella mente.

Come stesse dentro al Colosseo, nell’attesa dell’entrata dei leoni.

“Perdonami, mamma”.

Già.

La mamma…

E cercò quell’immagine fra i ricordi.

Li spulciò velocemente.

Il padre di Caterina volse lo sguardo intorno, come a cercarla.

E si girò, casualmente, verso il teatro dell’ultima tragedia.

Ancora un fuori programma.

Gli occhi languidi dell’avvocatessa carezzavano il viso del Rampollo di Buona

Famiglia.

Come la sua mano sinistra, poggiata sulla spalla di quello.

“Lo so, ne ero certa. Si tratta di una persona malata”.

“Ma come ha potuto pensare di difenderlo?”

“Noi avvocati viviamo di queste cose”.

“Non ha di meglio da fare stasera?”

“Dipende…”

Lei parlava piano, lui no.

Il padre di Caterina volle interrompere il flirt.

“Credevo difendesse me, avvocatessa!”

Non attese la risposta.

O forse non la sentì.

Il Maresciallo lo aspettava.

“Quindi…”

“Quindi procediamo!”

“Sta scherzando?”

“Procediamo!”

Ci voleva una voce più tonica.

Quella del Signor Procuratore: “È questo che vuole?”

“Procediamo!”

Il gladiatore era pronto ad affrontare i leoni.

Sono feroci ed affamati?

Va bene!

Mi sbraneranno?

Va bene!

Almeno una piccola ferita…

Un piccolo dolore.

Un graffio, se non altro.

Sarà pure scomodo, ma meglio morire in piedi.

E poi, perché morire?

Quando si lotta si può anche vincere.

Il padre di Caterina lo sapeva.

La chiusura delle indagini gli avrebbe consentito di venire in possesso delle

carte processuali.

Delle tante, una sola lo interessava: il tabulato telefonico.

Non poteva essersi sognato tutto!

Cos’era, poi, un sogno collettivo?

Suo, della moglie, di Caterina.

Tutti sonnambuli?

Tutti allucinati?

Eppure aveva segnato tutto.

Con cura.

Giorno e minuto.

Meglio: notte e minuto.

Da qualche settimana gli squilli notturni non si erano più sentiti. Chissà perché.

Dopo aver sporto denuncia era giunta l’alba di un nuovo giorno.

Anche per i vampiri.

Una sera Caterina era uscita con gli amici.

Dopo tanti giorni aveva nuovamente incontrato Enzo.

Pochi sapevano gestire i locali come lui.

Bisogno di rilassarsi?

C’è il locale di Enzo.

L’ultimo dei locali di Enzo.

Ne aveva messo su tanti e non era mai definitivamente contento.

Dovevi cercarlo l’ultimo suo locale.

“Bella, come va?”

La musica ad alto volume obbligava ad avvicinarsi, ma i due non avevano

bisogno di alibi.

“Va bene”.

“È da un po’ di giorni che non ti si vede”.

“Stasera avevo proprio voglia di uscire”.

“Brava! E sei arrivata nel posto giusto”.

“Non ne dubito. Cosa avete preparato stasera?”

“Vedrai…”

Data l’amicizia fra i due, Enzo non poteva tacere del tutto.

“Come va con il fusto vuoto?”

“Per carità!

Non parlarmene”.

“Non volevo, ma non posso tacertelo”.

“Cosa?”

“Di a tuo padre di stare attento”.

“Attento?”

“Sì. Qualche sera fa abbiamo avuto a cena alcuni massoni”.

Caterina se la rise: “Lo avevano scritto in fronte?”

“La città è piccola, cara la mia Caterina”.

Caterina aveva voglia di scherzare. “Cosa mangiano i massoni?”

“Giustizia al forno!”

Caterina poté ridere, di gusto.

“Non volevo informarti dei loro desideri culinari”.

“E di cosa?”

“Il tuo bel fusto vuoto e suo padre erano seduti a tavola”.

“Allora?”

“Nello stesso tavolo, di fronte a loro, un Senatore e un Procuratore. Non si

vedono spesso in paese. Ma quella sera erano venuti apposta dalla città”.

Il divertimento era finito.

Subito.

Nemmeno il tempo di godersi una serata diversa dal solito e già le sabbie

mobili lo ingoiarono.

“Adesso ti è tutto più chiaro, figlia mia?”

“Mi dispiace, papà. Dovevo raccontartelo”.

“Certo che dovevi”.

“Sono stata una stupida. Proprio una stupida”.

“Cosa vuoi farci? Mica sapevi…”

“Solo questo mi fa sentire meno vergogna”.

“Non sei tu a doverti vergognare. Né noi tutti. Sono loro a doverlo fare. Un

pungo di mascalzoni sta buttando fango sul sangue di pochi eroi!”

“Hai ragione. Dovrebbero vergognarsi”.

“Tengo gelosamente quel tabulato…

Lo capisci? C’erano più telefonate di quelle che io avevo indicato nella denuncia!

Eppure volevano farmi ritirare, colposamente. Anzi. Dovevo pure ringraziarli.

Che generosi!”

“Brave persone…”

 

Capitolo 14

La Legge non è uguale per tutti

 

Una partita a carte.

Ecco quello che ci vuole, là, dove l’odore della terza età si sente forte.

Se ne stanno tutti vicini, quasi stretti l’uno all’altro.

Ed è come se quello spazio fosse impedito ai più giovani.

Un colpo di tosse.

Un sigaro spento in bocca.

Un bicchiere di vino.

E il mazzo di carte che si compone e decompone, dividendosi poi equamente

fra gli agguerriti concorrenti.

Seriosi.

Uno sguardo alle otto carte e via.

“Settantuno”.

“Due”. “Quattro”.

“Settantasei!”

“Chiama!”

“Asso di bastone…”

La regola è il silenzio.

Nessun segnale, né colpetti di piede sotto il tavolo.

Se qualcuno sgarra non è più degno di stare lì.

E dovrà accontentarsi di un solitario…

Primo giro di carte e i più smaliziati sanno già chi sta dalla parte del chiamante

e chi gioca tre contro due.

La guerra si scatena.

Senza il rumore delle bombe, ma con quello delle carte sbattute sul tavolo.

Nessuno parla, tutti pensano.

“Ti ho fregato”.

“Che fortunato!

Il compagno ha due briscole, oltre l’asso di bastone”.

“Se mi danno due carichi da undici è fatta”.

Tutto in silenzio.

Come autentici magazzinieri di ricordi, ciascuno dei cinque ricorda ogni carta

passata.

Ogni giro di carte è registrato alla cassa.

L’ottava mano è quasi un rituale inutile.

Sanno perfettamente le carte che usciranno.

I più bravi sanno già quanti punti hanno fatto il chiamante e il suo misterioso,

ma noto, compagno.

“Nel secondo giro hai sbagliato a mettere tre punti. Dovevi andare liscio”.

“L’unico liscio che avevo era una briscola”.

“Tu, invece, il carico dovevi tenerlo fino all’ultimo”.

Alla fine sono cinque generali di corpo d’armata che si confrontano sulle

strategie usate per vincere la battaglia.

E raramente concordano.

Ma la battaglia ha dei vincitori e dei perdenti.

Non esiste la parità.

Sporadicamente si concede l’onore delle armi.

Solo se le carte hanno favorito spudoratamente qualcuno.

Per il resto delle volte, invece, mancano solo i corrispondenti di guerra a

tramandare ai posteri gli accadimenti.

Poche tregue.

Una pausa per i pochi che ancora possono concedersi una sigaretta

La battaglia deve riprendere presto. Perché l’ultimo dei feriti ha voglia di

vendetta.

Aspra vendetta.

Nell’attesa ci si scambia quattro chiacchiere.

Forse il vero motivo per cui ogni primo pomeriggio sentono il dovere di ritrovarsi.

Un appuntamento quotidiano.

Imperdibile, se non in caso di condizioni estreme.

Gli argomenti sono i soliti.

Spesso quelli sentiti la sera prima in tv. Più raramente si toccano i fili scoperti

dei dispiaceri personali.

Le lingue biforcute iniziano la discesa libera solo quando gli interessati sono

assenti.

Se le forbici tagliano, i sarti cuciono.

Talvolta i bersagliati sono lacerati e feriti, fin quasi alla morte.

Altre volte, invece, la solidarietà abbraccia i reduci dai vari fronti.

“Non è stato bello sapere che il Procuratore era a cena con il tuo avversario,

prima dell’udienza preliminare”.

“E c’era pure il Senatore…”

“A professare la loro profonda onestà…”

“Sì, quella dei democratici, anche cristiani”.

“Ah! Bella questa…

Sai come dice il nostro caro avvocato? Ne esistono di tre tipi: i democristiani,

i demicristiani e i demoncristiani…”

“Onestà!

Cosa c’entra l’onestà?”

“È fondamentale, non ti pare?”

“L’onestà è fondamentale per chi la sente come valore. Per gli altri conta

molto di più la gestione del potere”.

“Ma la Giustizia è un’altra cosa!”

“Sì, è un’altra cosa”.

Un terzo interlocutore.

“Vi racconto questa. Mio genero ha ricevuto un avviso di garanzia. Gli dicevano

che si trattava della sua assenza al lavoro. Un amico glielo aveva

sussurrato. Sapendosi innocente, in tarda mattinata egli è corso in Procura,

per avere ragguagli.

Eramo le tredici. Il vigilantes lo ha bloccato sull’uscio, chiedendogli cosa

volesse. Mio genero gli ha spiegato brevemente il suo problema e quello gli

ha riso in faccia. A quest’ora qui non c’è più nessuno, gli ha detto. Da non

credere. Chi decide di processarti per la tua assenza al lavoro non è presente

nel suo ufficio!”

Il virus si era oramai diffuso.

Un quarto interlocutore volle dire la sua.

“Mio figlio! Mio figlio è stato preso in giro dal Presidente della Corte d’Appello,

davanti a tutti”.

“Cosa è successo?”

“È stato chiamato a testimoniare in una causa di lavoro. Doveva riferire di

una telefonata da lui fatta alla segretaria della ditta per la quale lavora. E lo

ha fatto. Il Presidente della Corte d’Appello lo ha interrotto. Sorridendo

beffardamente, gli ha chiesto se fosse sua abitudine raccontare le proprie

cose alla segretaria. Sorpreso, mio figlio gli ha specificato che non delle

proprie cose parla alla segretaria, ma di lavoro. E quello, con ancor più

sarcasmo, gli ha chiesto se era sua abitudine telefonare alla moglie per dire

che era l’ora di calare gli spaghetti nell’acqua bollente!

Tutto ciò in aula!

Davanti a decine e decine di persone: avvocati, giornalisti, studenti di

giurisprudenza!”

“E tuo figlio?”

“Prima mio figlio si è limitato a dirgli che lui una moglie non ce l’ha. Poi,

preso dall’impeto della rabbia, ha chiesto al Presidente della Corte d’Appello

se fosse aduso lui a fare quel genere di telefonate”.

“Mamma mia!

E quale è stata la risposta?”

“È stato denunciato per vilipendio!”

“Ma come? Ha detto le stesse cose che erano state dette a lui!”

“Esatto. Solo che mio figlio è una persona comune, mentre quello è il Presidente

della Corte d’Appello”.

“La legge è uguale per tutti, tranne che per noi!”

Un quarto interlocutore volle portare la discussione su ambiti più elevati.

“Voi parlate di singoli. Io voglio parlare di sistema”.

“Cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che troveremo singoli Magistrati o Giudici onesti ed educati.

Altri disonesti e maleducati. Il problema vero, invece, è il sistema. Il sistema

giudiziario. Pensiamo per un po’ a quel processo che tutte le sere ci viene

propinato in televisione.

Una ragazza è stata ammazzata. Massacrata barbaramente, dopo aver offerto

il miglior profumo del suo corpo. Tre selvaggi sono dentro la stanza

dove l’omicidio è stato commesso. Certamente qualcuno di loro ha ammazzato

la ragazza. Forse tutti e tre. Tutti e tre negano di averlo fatto e si

professano innocenti. Gli avvocati di ciascuno si affannano a dimostrare

l’insussistenza delle prove a carico dei propri assistiti. Dimostrato che nessuno

dei tre ha ammazzato la ragazza. Il processo si chiude senza un colpevole.

Eppure la ragazza è stata uccisa!”

“È grave…”

“Certo. Ma se gli avvocati difensori sono bravi, se riescono a dimostrare

che le prove a carico di ogni loro assistito non sono bastevoli a dimostrarne

la colpa, chi poteva essere condannato?”

“Non di Giustizia dobbiamo dunque disquisire, ma di altro!”

Un passante chiese: sa dirmi dov’è il Palazzo di Giustizia?

L’interlocutore rispose: il Palazzo è qui, la Giustizia non lo so!

“La vittima, per quanto uccisa in modo efferato, è passata in secondo piano.

Al suo posto si erge la Tecnica Giudiziaria. La bravura degli avvocati nell’annullare

gli affondo della Procura. Per smantellarne tutto l’impianto

accusatorio”.

“Già, ma vale anche al contrario. Spesso le Procure accusano esclusivamente

sulla base di personali convinzioni. Senza alcuna prova a sostegno”.

“È il gioco delle parti, all’interno del quale i fatti realmente accaduti hanno

un mero valore scenografico. Dalla realtà si passa alla tecnica, la quale

affonda sulla prima esclusivamente per quanto le conviene”.

“Già la tecnica”.

“E la tecnica ha le sue regole da rispettare. Quelle sì, rigidamente. Senza

appello né ricorso alcuno”.

“Cosa vuoi dire?”

“Ricordate quel caso: un tizio, accusato di aver ucciso la moglie, viene condannato

a venti anni di galera. Propone appello e viene assolto. Dopo anni

confida di essere stato il vero assassino, ma non può essere processato

nuovamente. E quella povera donna viene uccisa una seconda volta. La

regola, però è stata rispettata”.

“Con buona pace della vittima”.

“La vittima? È solo il pretesto occasionale perché il sistema sopravviva.

Pensate. Qualcuno commette un reato e allora scattano tutta una serie di

difese nei confronti di questo poveretto. Assistenza sociale, riabilitazione,

rieducazione. Un esercito. Si muove un esercito di aiutanti del reo. E giù

manipoli di intellettuali che discernono sulla qualità dei servizi, sugli obiettivi

da raggiungere, sui valori fondamentali che regolano la pena”.

“Non è giusto?”

“Sì che è giusto. Ma avete mai pensato che le vittime meriterebbero un

esercito di aiutanti ancor maggiore e qualificato?

In fondo, il reo paga la sua pena ed è libero dal senso di colpa. La vittima si

tiene la sua angoscia, il suo trauma, la sua perdita. Ed è sola. Sola con se

stessa”.

“È vero!”

“Pensate. Abbiamo creato i Tribunali per i minori, per i minori che delinquono.

Ne sceveriamo la personalità, l’ambiente che li ha accompagnati a delinquere.

Spendiamo fior di quattrini per farli reinserire nella società”.

“Non è giusto?”

“Sì che è giusto. Ma abbiamo mai pensato di creare un Tribunale per le

vittime dei minori che delinquono? Studiarne la personalità devastata, l’ambiente

che deve aiutarli a riprendersi dal trauma.

A spendere tanti soldi per aiutarli a recuperare la propria identità scalfita?”

Dalle vittime ai colpevoli.

Dai colpevoli alle vittime.

Sembra un viaggio.

Un viaggio con un’andata e un ritorno.

 

Capitolo 15
Sul Viaggio di Andata e Ritorno

 

“Caterina, chi è costui?”
“Mio padre lo conosce appena. Pare si tratti di una persona vissuta a lungo
su un atollo del Pacifico. Lontano da tutti e da tutto”.
“Che tipo!”
“Già”.
Non fu difficile per Caterina accontentare la curiosità di Lorenzo.
E suo padre non trovò soverchie resistenze.
Il Saggio accettò volentieri l’invito a cena.
Molto sommessamente aveva chiesto cibi non particolarmente elaborati, ma
nessuna richiesta precisa.
Si sarebbe accontentato di qualsiasi cosa.
E la presenza dei genitori di Caterina gli tolse ogni imbarazzo.
Eppure stava recandosi a casa di perfetti sconosciuti.
D’altronde alle sorprese era abituato.
Vogando per quasi due ore, una sola volta la settimana aveva contatti con gli
abitanti di una delle isole più grandi dell’arcipelago.
Lì poteva rifornirsi del necessario.
Poche cose, perché da mangiare e bere trovava nel suo piccolo atollo.
Anche nell’isola più grande la gente si accontentava di poco.
Si limitava a offrire i propri prodotti in cambio di qualcuna delle galline e
delle uova che il Saggio portava nella canoa.
Finita la spesa, il Saggio si sedeva in uno dei tavoli di legno, ai bordi del
pontile d’approdo.
E una volta la settimana poteva usare il suo vecchio linguaggio, quello verbale.
La mimica da tempo aveva sostituito l’uso della lingua.
Era pressoché inutile con i pesci e con gli animali che gli tenevano compagnia.
La scrittura, invece, l’aveva coltivata.
Abbondantemente.
Egli amava raccogliere su dei grossi quaderni le sue impressioni, le sue riflessioni.
Le sue allucinazioni.
Le chiamava così.
Quei colori, quegli odori…
Non potevano essere altro che allucinazioni.
Una bellezza così straordinaria poteva solo esser frutto di sensi malati, gravemente
alterati.
Quella lunga spiaggia di bianca sabbia conteneva per ore i suoi messaggi.
E il cielo li leggeva.
Con calma.
Poi, colmo di gioia, inviava un leggero venticello.
L’ordine era quello di cancellarli.
Così lo obbligava a scriverne altri.
Qualche volta il compito del ladro di messaggi d’amore veniva assegnato a
un’onda.
Una di quelle alte più del solito.
Perché anche il mare doveva goderne.
Il mare!
Uno specchio sul quale coltivare ogni fantasia.
Giocavano in due: il Saggio ed il Mare.
L’uno invitava l’altro a essere un pittore naif.
Chi dei due avrebbe dipinto meglio, quel giorno?
Spesso vinceva il Mare.
Aveva più colori.
E anche più pennelli e spatole.
E quanti allievi!
Uccelli e pesci volevano rubare tutti i segreti dell’arte al maestro.
E quel furbacchione, senza dargliene a intendere, li accontentava e li utilizzava.
Era lui a rubare il loro lavoro!
Quanti disegni su quella infinita tavolozza…
I pesci più grossi preferivano disegnare come con la punta di una matita,
calcata decisa sulla superficie.
I più piccoli erano dei macchiaioli, grazie ai guizzi, spesso argentati, con i
quali solcavano la sua superfice.
Gli uccelli, i ladri che di tanto in tanto rubavano un aiutante pesce al Mare,
preferivano i tratti impressionisti.
Il Saggio poteva usare un piccolo pennello: le dita delle mani e dei piedi.
Oppure un grosso ramo, prestatogli dalle mangrovie, per i disegni di Nazca.
Umili ma orgogliosi servi del Massaro, anche i suoi amici animali lo aiutavano
a comporre sulla sabbia.
Di colori, purtroppo, non ne possedeva.
Forse, però, si trattava di un alibi.

Forse era consapevole della impari lotta con il suo collega pittore.

Anche se ne avesse avuti, come avrebbe potuto competere?

Il Mare!

Dove trovava quel blu cobalto, al largo?

E quel tenero verde, più vicino alla spiaggia?

E un interminabile cordone di rosso coral reef, che proteggeva la bianca

spiaggia di sabbia corallina dall’oceano.

Dall’altra parte, invece, provvedeva il sensuale verde degli arbusti.

No…

Sul colore non poteva esserci disputa alcuna.

Eppure il Saggio disegnava continuamente.

Il tempo non gli mancava, d’altronde.

L’unica sua preoccupazione quotidiana era quella di accudire gli animali e di

pensare ad alimentarsi.

E così bandiva la sua tavola di freschissime aragoste e dei teneri tentacoli

del polpo, quasi chiedendo loro perdono.

Quando voleva essere vegetariano, invece, ringraziava le fresche e rigogliose

verdure cha aveva piantato nella proprietà di nessuno.

L’aria calda della laguna stringeva grande amicizia con le nuvole.

Le chiamava a sé.

E ne riceveva in dono l’acqua.

La pioggia che arricchisce la vegetazione, sempre esuberante e splendida.

Un’altra splendida amica, la pioggia.

Facilmente irritabile, però.

Quando qualcuno la faceva adirare, solo una piccola capanna di palme poteva

assicurare la protezione al Saggio.

Piccoli contrasti.

Niente di serio.

Momenti di vitalità, anzi.

Presto l’umida amica si placava.

Il gruppo di amici si ricomponeva immediatamente.

E ridevano l’uno dell’altro, tornando a promettersi amicizia eterna.

Quanti amici!

Quanta bella gente…

Tutta muta…

E poi l’amico più grande:

il Mare.

Quando usciva con la sua piccola barca a vela, il Saggio ricordava il dolce

cullare delle nenie materne.

Terzarolava la vela, ammainandone una frazione, e la serrava ai matafioni.

Se ne stava per qualche ora, con tutta la sua silenziosa compagnia intorno.

E al tramonto il tenue candore della luna lo invitava a non temere di nulla,

chiarendone il cammino.

Parlava, parlava.

E si commoveva.

“Come sei potuto tornare da quel Paradiso?”

“La prima poesia polinesiana che ho imparato così canta

Pianta il tuo seme,

spargilo al vento,

tu puoi morire

ma la forza della vita resta,

il flusso delle correnti ti aiuterà,

o viaggiatore.

E io ho imparato che c’è un viaggio di andata e uno di ritorno”.

“Perché il ritorno?”

“Perché voglio fiori sempre freschi sulla mia tomba”.

 

Capitolo 16

Sul Saggio

 

 

Il sogno di Caterina era materializzato.

Lì, davanti a lei.

Non c’era più bisogno di andare in Polinesia.

O, forse, urgeva prendere il primo volo disponibile…

“Come ha fatto a conoscere tante verità, stando così lontano da noi?”

“In quelle isole non hai da faticare per scalare la verità. Sono quasi del tutto

pianeggianti…”

Un saggio sa anche scherzare.

“Le sue riflessioni sono sorprendenti, se si considera il suo isolamento”.

“Il mio isolamento è stata una fortuna. Nessuno ha potuto manipolare la mia

mente. Guardate lì. Da quello schermo vi falsificano tutto, vi fanno credere

in ciò che non c’è. Vi fanno pensare con la loro mente. Vi fanno credere

vostri i loro falsi idoli”.

“Già”.

“Quante megere, falsi venditori di bontà, alchimisti dei neuroni altrui. Poveri

i vostri bambini!

Penseranno come dei microchip e si muoveranno come dei robot”.

“E ci propinano sempre tonnellate di sofferenza, di pianti, di lutti e perdite”.

“Fanno spettacolo sul dolore altrui”.

“E fanno apparire tutto ciò come dovuto e giusto”.

“Vi fanno vedere i pianti per una persona morta, mai nessuno che pianga per

la morte della Terra”.

“La morte della Terra?”

“Esagero per rendere il concetto. Quanti sono, però, gli attentati quotidiani,

inferti in nome di un progresso che serve a pochi e che danneggia molti?”

“Già”.

“Vi insegnano che la Giustizia vale solo per il territorio dove viene esercitata.

Pensate!

Mentre celebrano il processo a un presunto omicida, migliaia di omicidi

vengono compiuti nelle più diverse parti del mondo. Con la ferocia più

estrema!

Nessuno intenta processi per quegli assassini”.

“Già”.

“E ognuno ha la sua Giustizia, affatto diversa l’una dall’altra. Ci sono tante

Giustizie e, purtroppo, tante Ingiustizie”.

“Pensi a una sorta di Giustizia Planetaria?”

“Penso alle stragi in Africa, in Asia, in America latina o in Europa. Non è

giusto che rimangano impunite”.

“Come si fa?”

“Ecco tutta la nostra piccineria. Grandi potenze, così si autodefiniscono, ma

nella realtà sono impotenti”.

“Talvolta sono intervenute fuori dai loro territori”.

“Leoni con gli agnellini, agnellini con i leoni”.

“Sono grandi all’interno dei loro confini?”

“Nemmeno lì”.

“Spiegaci”.

“Ci provo. La Giustizia viene negata dal loro stesso sistema giudiziario”.

“Non capiamo”.

“Pensate al segreto che lega l’accusato al suo difensore. È uno dei valori più

alti, così dicono, del sistema giudiziario. Così accade che un accusato debba

rivelare al proprio difensore di aver veramente commesso un delitto. Deve

raccontarglielo nei minimi dettagli, se vuole davvero che il difensore possa

essere in grado di aiutarlo. Non deve avere nessuna paura. E deve essere

sincero, magari nemmeno pentito. C’è il sacro valore del segreto a proteggerlo”.

“Sì, così ci dicono”.

“La Giustizia, quindi, garantisce la falsità. La trasforma in un alto valore da

perseguire, no?”

“È vero”.

“Altro che ricerca della verità!”

“Migliore è l’avvocato, maggiore è la possibilità di farla franca…”

“C’è una migliore garanzia per i potenti?”

“In effetti…”

“Pensate al difensore. Egli sa che una persona ha commesso un omicidio.

Ma recita il ruolo del suo salvatore, con la massima convinzione. Anzi!

Sa che deve convincere gli altri della falsa innocenza del reo”.

“Ecco perché ho scelto di non essere un avvocato”.

“Se si perseguisse veramente la Giustizia, un avvocato dovrebbe certificare

la colpevolezza del suo difeso. Magari chiederne una minor pena, ove potesse

dimostrare qualche attenuante”.

“I soldi ricevuti fanno superare il senso di colpa, se c’è”.

“Nessun avvocato si è mai pentito di aver fatto assolvere un colpevole, a

mia memoria”.

“Parliamo dei Giudici”.

“Parliamone. Anche a loro il sistema offre le garanzie per celebrare l’ingiustizia.

Ricordate quanti delinquenti sono stati condannati a pene severe, dopo

lunghi ed estenuanti processi?”

“Sì, certo”.

“Ebbene. Un modestissimo dettaglio, una firma non apposta, un giorno di

ritardo nella consegna dei provvedimenti, una qualsiasi quisquilia e via, tutto

volatilizzato. Morti, stragi e altre nefandezze simili rimangono impunite. Sol

perché un bravo giudice della Cassazione ha trovato qualcosa che non va. E

si può ben dire che si tratta di un bravo giudice. Rispettoso della Legge La

legge prevede quelle cause di nullità”.

“Ingiustizia è fatta!”

“Certo. Ingiustizia è fatta”.

La solitudine aiuta a riflettere, come la sofferenza aiuta a cambiare.

Chissà perché mai il Saggio aveva deciso di essere l’unico ospite di uno

sperduto paradiso.

L’aria salubre facilita il funzionamento dei neuroni, evidentemente.

Era stato difficile per Caterina scegliere il menu della cena, nonostante la

grande semplicità del gradito ospite.

Insieme a Lorenzo avevano fatto delle ricerche.

Voleva individuare un piatto che facesse riemergere i dolci ricordi del Saggio.

Ricerche difficili, poiché la cucina di quegli agognati posti non brilla per

fama.

Tutt’altro.

Esclusa la carne di pecora…

E poi è impossibile rintracciabile una patata dolce come la Kumara…

Non le rimase altro che l’anguilla.

Affumicata al punto giusto.

Fu più semplice scegliere da bere.

La birra ha una accoglienza universale.

Specialmente se servita ghiacciata

Contaminata dalla musica di Ryuichi Sakamoto e della sua Yellow Magic

Orchestra.

Ma se c’è chi sa raccontare la verità, altri sono maestri di falsità.

 

Capitolo 17

Su Padre Menzogna

 

A don Vincenzo, invece, piaceva il vino, quello robusto, aggressivo.

Un bel nero d’Avola, per esempio.

Lo aiutava a essere meno inibito, e ne aveva tanto bisogno.

Certo, sapeva che di Lorenzo e Caterina poteva fidarsi.

Anni e anni erano trascorsi prima che Lorenzo si riavvicinasse a un uomo

vestito con la tonaca.

Era il tempo della seconda media.

Alle sette del mattino sveglia e colazione veloci.

Il mese della Madonna si era fatto sentire attraverso il profumo delle rose.

E la messa era il momento giusto per ringraziare la Primavera.

Gli altri ragazzi lo prendevano in giro.

Tutte le mattine, alle sette, tranne la domenica, quando c’era licenza di tardare

di due ore.

Tutte le mattine, alle sette, come se già non gli bastasse la domenica.

Gli altri compagni di classe preferivano alzarsi mezzora più tardi e accontentavano

i genitori e la loro flebile coscienza andando a messa solo la domenica

mattina.

Bastava.

Lorenzo non si accontentava.

Gli pareva poco.

L’ immagine di quella tenera Madre lo calamitava.

Sembrava profondergli serenità.

Un dono da elargire poi a tutti.

Dall’alto sembrava che guardasse lui.

Ma chiunque posava gli occhi su di lei era certo della stessa cosa.

Non c’era altro motivo.

Tutte le mattine.

Lorenzo aveva un appuntamento quotidiano con quella oasi di pace.

Una fonte da cui attingere tranquillità.

A molti ricordava sua nonna, donna Concetta Altavista, durante la festa

della Madonna delle Grazie.

In autunno il suo stato d’animo cambiava.

Sì, a novembre tutto era diverso.

Non solo per le brume autunnali e per le piogge umide.

In quel tempo era meno piacevole alzarsi un po’ prima, al mattino.

A quel tempo, se un dono deve ricambiarsi, meglio farlo la sera.

Tutte le sere.

A rimembrare i poveri morti.

I morti di tutti.

Già tre dei suoi nonni li aveva visti andare.

La quarta non l’aveva nemmeno conosciuta.

Ma non solo a loro era rivolto il suo pensiero.

A tutti, invece.

A tutti.

Persino a quelli mai incontrati.

A grandi e piccoli.

A buoni e cattivi.

A brutti e belli.

Dopo la morte, pare, diventiamo tutti uguali.

Ciò che può differenziare un’anima da un’altra è solo il suo carico di ricordi.

Tutti uguali, ricordi a parte.

E c’è chi aspetta di rincontrare la madre, dalla quale si era allontanato senza

ancora saperla salutare. C’è la madre che aspetta i figli, perché da troppo

tempo non può distribuire loro carezze. C’è chi aspetta il padre, per potergli

dire quanto gli è mancato non averlo vicino nei momenti di debolezza. C’è

chi vuole rivedere il nonno, perché nessuno lo ha più portato al parco, a

scorrazzare senza pause.

Tutti aspettano qualcuno.

Sono diverse le persone che aspettano.

Niente altro.

Pare che tutti i defunti corrano incontro a ogni ultimo arrivato, agitando le

loro mani.

Sono desiderosi di farsi riconoscere.

Quello, invece, ha l’aria sperduta.

Lo sgomento di chi viene a trovarsi in un posto sconosciuto.

Si guarda, a destra e a sinistra, stupito.

Meravigliato di vedere tante anime correre.

Disordinatamente.

Esseri senza corpo che corrono, corrono.

Che macello!

Una immensa folla di sconosciuti che corre.

Tutti incontro a uno.

Lo scrutano.

Lo guardano.

Lo sfiorano, toccandolo appena

Per non spaventarlo.

E quello è sempre più disorientato, confuso, tremante.

Poi una stretta più forte lo tiene lì, impalato.

E una lacrima luccicante va a posarsi sul palmo della sua mano…

Eccolo!

È lui!

Che gioia!

Finalmente insieme, come una volta!

Allegria, è un giorno di gran festa.

“Mamma…” “Figlio…”

“Papà…”

“Figlia…” “Nonni…” “Moglie…” “Marito…”

Dicono che chi si è amato senza unirsi in matrimonio taccia.

Ma è festa per tutti!

Tutte le sere, alle diciotto.

Tranne la domenica.

La domenica si provvede al mattino.

Ma la domenica era un’altra cosa…

Chiesa piena, lettura del Vangelo, tutti gli occhi addosso.

Erano belle quelle scritture.

Quanto erano belle!

L’amore era un oceano profondissimo su cui bagnarsi, asciugarsi e poi di

nuovo dentro…

Altra acqua…

Quanta ce n’era!

Per tutti.

Nessuno escluso.

Anche per i prepotenti?

E per i cattivi?

Ma via…

Un po’ d’acqua anche per loro.

Nella Costa del Perdono.

Nella Costa del Perdono Richiesto.

Una piccola spiaggia.

Piccola?

Forse no.

A ben pensarci deve essere una delle spiagge di Capo Cabana, lunga e

larga.

Molto affollata.

E che scottature!

Tutti a spalmare pomate anti ustione.

Ma le ferite, spesso, sono troppo profonde…

Perdono per chi si è pentito?

Perdono!

Ecco allora aprirsi la chiusa della Diga della Bontà.

E giù una vera cascata d’acqua fresca.

Rigenerante e riabilitante.

Rilassante più del massaggio di una terapista giapponese.

Non c’era ancora Internet ad aiutare gli studenti che dovevano fare una

ricerca.

Né la biblioteca comunale era ben fornita, anzi.

Allora occorrevano libri.

E chi aveva molti libri?

Padre Menzogna.

Padre Menzogna aveva molti libri.

E Padre Menzogna aveva tanta voglia di aiutare i ragazzi che avevano bisogno

di molti libri.

“Passa da me oggi alle quattro del pomeriggio. Te li farò trovare pronti. Tutti

quelli che ti servono”.

“Grazie, Padre Menzogna. Lei è davvero buono”.

Quel pomeriggio andava bene.

C’era da andare in palestra, alle quattro e mezza.

Di corsa da Padre Menzogna e poi, di corsa, in palestra.

“Ragazzi, partiamo dieci minuti prima. Passiamo da Padre Menzogna. Mi

deve prestare dei libri”.

Detto, fatto.

“I libri sono su quel tavolo. Mi raccomando, trattameli bene. Non sgualcirli,

non lacerarli, non…”

La mano di Padre Menzogna afferrò per la manica del maglione il braccio di

Lorenzo:

“Ti avevo detto di passare da solo!”

“Grazie, Padre Menzogna. Lei è davvero buono, tanto buono. Così buono

d’avermi invitato proprio oggi che ero in compagnia. Grazie! Tenga i suoi

libri, io non li sgualcirò, non li lacererò, io non…”

Gli occhi di Padre Menzogna guardavano fissi quelli di Lorenzo.

“…non voglio più vederla, né lei né la sua bontà, né la sua grande voglia di

aiutare i ragazzi che hanno bisogno di molti libri!”

 

 

Capitolo 18

Sul Sogno Americano

 

 

Anni.

Tanti anni erano trascorsi prima che Lorenzo si riavvicinasse a un uomo

tonacato.

Incontrare don Vincenzo era come riascoltare le belle letture.

Quelle dell’Oceano d’Amore, della Costa del Perdono.

Chissà.

Forse era lo stesso per don Vincenzo.

Anche lui voleva parlare dell’Oceano d’Amore.

Anche lui voleva accedere alla Costa del Perdono.

In quei mesi una giovane donna, madre di una bambina, con la psiche un

tantino brutalizzata dalla signora Mania, soleva girare fra le sacrestie.

Per provocare i sensi dei preti.

Particolarmente dei giovani preti.

Se poi si chiamassero don Mario o don Arcangelo poco le importava.

Dovevano essere preti e giovani preti. Chissà…

E lei era armata bene.

Era armata davvero bene, di tutto punto.

Facilmente avrebbe potuto liberare i sensi intanati dei preti, specie dei giovani

preti.

Avrebbe tranquillamente avuto più consensi alle sue propositate battaglie se

solo avesse riposto su altri guerrieri la sua voglia di combattere.

Ma chissà…

Dovevano essere preti e giovani preti.

“Sì, don Vincenzo. L’ho sentito anch’io”.

“Tutti. Tutti, nessuno escluso. Che te ne pare?”

“Dobbiamo perdonarla, è colpa della sua mania”.

“Povera bambina, la figlia. Cosa potrà imparare da una mamma così?”

“Le spiegheranno cos’è la mania”.

“Speriamo possa capire. Non sarebbe più semplice affidarla a un’altra famiglia?”

“Non conosco bene il caso, ma di solito questa è una soluzione tanto semplice

quanto semplicistica. Ripeto: non conosco il caso, ma in tanti altri mi pare

che una cattiva famiglia sia pur sempre preferibile al distacco obbligato”.

“Forse hai ragione tu”.

“Ogni tanto compiamo degli autentici capolavori. Una madre in difficoltà

economiche con i suoi cinque figli si è vista” togliere” i suoi unici tesori. Le

Assistenti Sociali hanno consigliato di inserirli in una Comunità e il giudice le

ha accontentate. A occhio e croce questo inserimento, questa bella chiusura

del caso, costerà dieci volte più di quanto non sarebbe bastato dare a quella

povera donna. E cinque figli sarebbero rimasti nella loro casa, con la loro

madre”.

“Forse è tutta colpa del fatto che quella donna aveva avuto cinque figli con

tre uomini diversi…”

“Una doverosa punizione alla sua disordinata sessualità, allora”.

Non c’era alcun problema a toccare quel tasto di pianoforte con padre Vincenzo.

Anzi.

Sapeva bene di aver dato una svolta al discorso.

Volutamente.

Ne era ben cosciente.

Durante la sua esperienza americana gli era mancata l’occasione per farlo,

ma ora si trovava come a casa sua…

Quanto vapore avevano dovuto respirare i loro polmoni!

Per settimane, prima di approdare dall’altra parte del mondo.

Pieni di fuliggine.

Qualche rassicurazione l’avevano avuta, ma la paura era ancora tanta.

Di là pareva esserci un giardino, pieno di frutti.

Sol che gli alberi erano di ferro, e i frutti dei metalli più vari.

Di qua, invece, gli alberi avevano ancora fusto e chioma.

E dai rami pendevano frutti commestibili.

Ma lì c’erano i soldini.

Di qua no.

Sogno americano: così l’hanno definito.

E per fare quel sogno molti erano rimasti svegli, a lungo.

Passata la notte avevano scoperto di non chiamarsi più Giovanni, ma John.

Non più Francesco, ma Francis.

Non più Maria, ma Mary.

E quanti funerali avevano dovuto celebrare dentro le grandi navi che li portavano

di là, dall’altra parte dell’oceano.

All’inizio doveva essere proprio difficile da pronunziare: connec, connect,

Connecticut. Bene, bene.

Connecticut.

Anzi: well, very well.

E poi: brid, bridg, Bridgeport.

Well, very well.

“Amico, qui c’è molta gente e siamo vicini a New York. Potrai trovare molti

amici e parenti. Da qui, poi, possiamo vedere come sta la tua Europa. Vedi?

È di là, dall’altra parte del mare. Ma non pensarci più. Ormai, you are

american”.

“Yes, american”.

“Vedi? Qui tante fabbriche, tante”.

“Yes”.

“Okay. Fabbriche di tutto. We fabbrichiamo tutto. Basta zappa, basta aratro.

We want dollars, molti dollars.

Tu no?”

“Sì, tanti dollars”.

“Well, very well. Now you’ are american.

Noi siamo la vostra Merica”.

“Già, la nostra Merica”.

“Yes, my friend. Tu non scordare quanti italiani sono rimasti in patria tua,

uccisi da colera a Napoli. Tu non scordare quante donne italiane stuprate, si

dice così? Nei porti di Genova e Palermo, in attesa di partire per Merica. Tu

non scordare che a tuoi amici fascisti non piaceva che tu venivi qua. Che

mettevano limiti ai flussi, si dice così? Yes. Poi, non volevano che tu scopri

Luis Armstrong e Charlie Parker, tutta musica jazz. Do you remember?

“Sorry, ma dov’è qui mia chiesa, mia church?”

“You have fastidio per questi ricordi?”

“No, no. Ma dov’è la mia chiesa?”

“Qui tutte churches che vuoi. Vuoi protestante? Vuoi battista? Vuoi metodista

o luterana? Vuoi episcopale o cattolica? Vuoi ebrea?”

“Qui tutto tranquillo?”

“Tranquillità e divertimento. Hai visto il Circo Barnum? Grande nostro vecchio

sindaco! Sindaco socialista pensare solo a diseredati, non a produrre

dollars! Dunque, crac, rovina, bancarotta”.

“Meglio adesso?”

“Of course. Noi omicidi, tanti omicidi. Dollars e divertimento. Bum, bum.

Divertimento, no?”

“Io vorrei dormire di notte e lavorare di giorno”.

“Tu potrai dormire di giorno e lavorare la notte”.

“Come mi sento solo…”

“Solo? Con tutti altri italiani qui? Quello italiano, quell’ altro italiano. Vedi

quanti italiani?”

“Io vorrei stare tranquillo”.

“Tu vuoi troppo, amico, my friend! Non ti basta dollars? Vuoi anche la tranquillità?”

“Non mi dispiacerebbe tanto money e tanta quiet”.

“Tu vuoi troppo, amico, my friend! Noi prima lasciato zappa e aratro, fabbricato

molto oggetti metallici e tutto. Ora crisi. Ora problems”.

“E il mio sogno?”

“Tu continua tuo dream. Noi continuiamo a fabbricare: disoccupazione, un

poco di Aids e molta droga. Tanta droga. Per sognare”.

“Ma mio sogno, sorry, my dream, era avere quiet”.

“Tu tranquillo, avrai tanto money, poca quiet”.

“Come?”

“Easy. Anche tu fabbrica droga”.

“Io ero abituato a seminare, coltivare, raccogliere…”

“Anche droga viene da piante: seminare, coltivare, raccogliere…

Infine money, tanto money”.

“Tanto money, ma sporco”.

“Noi e voi, insieme, together. Produrremo criminalità, buona criminalità, tanta

malattia e tanto inquinamento. All right?”

“Non vedi che tanta gente ha abbandonato Bridgeport?”

“Resteremo i migliori, the best”.

“I migliori?”

“Voglio un prete, un prete italiano!”

“Tutti preti che vuoi. Ti facciamo venire don Vincenzo”.

Gli aerei non fanno fumo.

Così don Vincenzo arrivò a Bridgeport ben pulito, seppur stanco.

Stanco per le ore di volo e per l’energia mentale impegnata a pensare alla

sua nuova missione.

“Come le costruiscono qui le chiese?”

Non volle che il suo pensiero fosse pubblico e trattenne la domanda dentro il

suo cranio.

Un crogiuolo.

Una miscellanea di culture.

Una bandiera con molto più che cinquanta stelle.

Don Vincenzo respirava di tutto.

Radici olandesi, inglesi, sudamericane, africane…

Popolazioni che avevano vissuto le persecuzioni, vissuto e battuto la schiavitù.

Popolazioni che avevano combattuto per l’indipendenza.

I fremiti democratici erano ancora nell’aria.

Si respiravano.

Ed era bello anche sentire l’odore delle foreste.

E dei laghi.

Del grande fiume gorgoglioso.

E dell’agricoltura.

Non era vero che tutti avessero smesso la zappa e l’aratro.

Si erano solo modernizzati, ma molti stavano ancora fra le patate e gli ortaggi,

i cereali e le piante di tabacco.

Altri non sentivano più la puzza del bestiame.

Nelle nuove stalle i bovini e i polli non puzzano.

C’era aria profumata, anzi.

Era il profumo delle idee che arrivava dalla vecchia e modernissima Yale

University o dai libri di Twain.

Profumo di libertà.

Talvolta sconfinante.

Sconfinante nella falsità…

“Il reverendo Weman ha sbagliato e la diocesi sta pagando il risarcimento

alle vittime, tutte”.

Un giornalista:

“Signor Palee, il reverendo Weman, nonostante i suoi quasi settanta anni, è

rimasto a esercitare la sua… missione di parroco. Ancora un anno dopo che

le accuse nei suoi confronti si erano palesate compiutamente”.

“Già”.

“Il cardinale Edman non è intervenuto. Non lo ha rimosso”.

“Come lei ha ben detto, il cardinale Edman ha rimosso il reverendo Weman,

dopo un anno”.

“Ma per motivi di salute!”

“Già, occorre che venga visitato”.

“Dunque, non è stato rimosso per le molestie sessuali!”

“Loro sanno bene che l’inchiesta è stata avviata dallo stesso cardinale

Edman”.

“Sì, ma non si è conclusa con la rimozione del reverendo Weman”.

“Quale portavoce della diocesi di Bridgeport ho comunicato che la stessa

sta pagando il risarcimento alle vittime, tutte”.

“Le chiedevo altro”.

“L’inchiesta della diocesi ha messo in evidenza che il reverendo Weman ha

bisogno di essere visitato. I medici ci diranno se è malato”.

“Sono molti i reverendi della diocesi che… hanno avuto bisogno di essere

visitati?”

“Quale portavoce della diocesi di Bridgeport devo ricordarvi che tutte le

volte che uno dei membri del clero è stato accusato di molestie sessuali il

cardinale Edman, previa preliminare inchiesta interna, ha provveduto a far

visitare gli interessati presso qualificati istituti psichiatrici”.

“Ma quanti sono?”

“Non ho i fascicoli con me”.

Un altro giornalista: “Le accuse si sono ripetute per ben dodici anni!”

“Il cardinale Edman ha provveduto parimenti per tutto quel periodo”.

“Ci si doveva accorgere che qualcosa di molto grave stava succedendo, fra

i membri del clero della diocesi, non le pare?”

“Il cardinale Edman ha provveduto alle segnalazioni di cui vi ho parlato.

Quando le osservazioni sono risultate positive i preti in questione non sono

stati restituiti alle loro parrocchie”.

“Molti, invece, sì”.

“Il cardinale Edman ha provveduto a restituire alle loro parrocchie i preti le

cui osservazioni psichiatriche sono risultate negative”.

Un altro giornalista ancora:

“Come mai alcuni dei preti restituiti alle loro parrocchie hanno avuto delle…

restrizioni nel mandato pastorale?”

“Alcune osservazioni non erano totalmente negative”.

“C’era, dunque, qualche… positività!”

“La valutazione psichiatrica non era positiva. C’era qualche negatività”.

Il primo giornalista:

“Monsignor Brook, in una sua dichiarazione ufficiale, ha reso noto che almeno

uno dei casi da lui imputati al reverendo Weman fosse moto già da

anni”.

“Non conosco tale dichiarazione”.

“Monsignor Brook non è uno sconosciuto all’interno della diocesi!

È il vicario per gli affari ecclesiastici…”

“Non so. Monsignor Brook è lontano da noi, adesso”.

“Certo. È stato allontanato!”

“Mi risulta essere stata una sua scelta”.

Il secondo dei giornalisti intervenuti:

“Corrisponde al vero che il reverendo Weman, nel caso di cui ha parlato

monsignor Brook, abbia avuto anche una relazione con la madre del bambino

molestato?”

“Non mi risulta”.

“C’è, tuttavia, una precisa denuncia della donna in questione”.

“Non so”.

“La denuncia della donna chiarisce che avevano comprato insieme una casa,

dove vivere insieme”.

“Non so”.

“Lei legge gli atti giudiziari?”

“Non posso leggerli tutti”.

“Sono tanti?”

“Non so”.

Il terzo dei giornalisti intervenuti:

“Nella denuncia la donna chiarisce il motivo della denuncia. Dice che il

reverendo Weman non onorava l’impegno di vivere come marito e moglie”.

“Visto? L’ha detto lei stesso.

Il reverendo Weman non è mai vissuto come fanno un marito e una moglie”.

Una quarta giornalista, sino ad allora rimasta zitta ad ascoltare le domande

poste dai colleghi:

“È chiaro, comunque, che per anni, tanti anni, il cardinale Edman ha lasciato

che molti preti, accusati di molestie sessuali, continuassero tranquillamente

la propria missione pastorale”.

“Bisognava prima fare le indagini interne, come ho avuto modo di spiegarvi”.

“Nel frattempo, però, altri bambini hanno rischiato di subire violenze sessuali!”

“Le indagini interne richiedono tempo e pazienza”.

“Lei pensa alla correttezza delle sue indagini, non alla sofferenza dei

bambini!”

“Poteva trattarsi di frutti della fantasia”.

La giornalista, a quel punto, aveva perso per un attimo la via della correttezza

deontologica, come mai prima d’allora:

“Era forse frutto di fantasia il pancione gravido di una delle perpetue di uno

dei preti della diocesi?”

“Il reverendo De Man, scusate, l’ex reverendo De Man, ha chiesto e ottenuto

di essere sospeso dalle sue funzioni”.

“Sì, ma il… frutto della fantasia era evidente già da mesi!”

“Non ne eravamo informati”.

“Tutti sapevano, invece, che una giovane e bella ragazza di Bridgeport aiutava

il reverendo De Man, scusate, l’ex reverendo De Man, a lenire le

fatiche dei troppo impegni ecclesiali!”

“Non ne eravamo informati”.

Una quinta giornalista, del Post, sino ad allora impegnata a trattenere la

lingua dietro ai denti:

“Non crede sia il caso che il cardinale Edman venga rimosso o che, secondo

i metodi da voi finora utilizzati, egli stesso chieda le dimissioni?”

“Il cardinale Edman è molto apprezzato dai vertici ecclesiastici”.

“Non pensa sia anche molto apprezzato da quei preti che hanno ricevuto

accuse di molestie sessuali?”

“Ripeto a tutti voi: il cardinale Edman è molto apprezzato dai vertici ecclesiastici”.

“Non ritiene ingiusto che a dettare i sentieri della Giustizia divina su questa

terra siano persone probe, anziché dei volgari violentatori?”

“Ritengo che questo sia un modo volgare di fare giornalismo. Scusate, la

conferenza finisce qui. Pace e bene”.

“Don Vincenzo, come è potuto stare in mezzo a quelle iene fameliche?”

“Caro Lorenzo, cara Caterina. Mi aiutava la gente, la gente comune.

Quanta brava gente!”

“In che modo?”

“Avreste dovuto vedere quanta brava gente attendeva i dodici cardinali di

ritorno da Roma! Tanta brava gente. Da molti giorni, aspettando che tornassero

da Roma. Erano lì per dire, silenziosamente, che non credevano alle

parole dei cardinali, alle loro difese”.

“Perché silenziosamente?”

“Era un modo di evidenziare i silenzi dei dodici cardinali”.

“Cosa avrebbero voluto dire ai dodici cardinali?”

“Che avrebbero dovuto dare segnali evidenti della condanna della pedofilia

da parte della Chiesa”.

“Delusi?”

“Sì, molto delusi. Hanno fatto presto a capire come si fa in Italia. Si grida

una cosa e di nascosto si fa il suo esatto contrario”.

“Cosa avevano urlato?”

“La tolleranza zero”.

“Cosa hanno fatto?”

“Praticamente nulla”.

“Avranno tentato, almeno, di far finta di fare qualcosa…”

“Certo. Hanno scritto, a chiare lettere, che avrebbero isolato i preti colpevoli

di abusi sessuali”.

“Isolato?”

“Sì, isolato”.

“Ci si può accontentare di isolare i preti colpevoli di abusi sessuali?”

“Almeno lo avessero fatto!”

“Come ci si può accontentare di così poco?”

“State attenti. Le parole scritte dai vertici ecclesiali pesano”.

“Cosa vuol dire, don Vincenzo?”

“Hanno scritto che avrebbero isolato i preti colpevoli di abusi sessuali di tipo

seriale e predatorio. Proprio così. Di tipo seriale e predatorio”.

“Vuol dire che se l’abuso non è seriale né predatorio si può soprassedere?

Insomma, se fatto una o due volte sole e curandosi di stare nascosti dietro

un grosso albero prima di piombare sulla golosa preda, allora non è il caso di

fare indagine alcuna!”

“Letteralmente. Hanno scritto così: preti colpevoli di abusi sessuali di tipo

seriale e predatorio”.

“In ogni caso noi non ci accontenteremmo che un prete pedofilo venisse

allontanato dalla sua diocesi!

Addirittura così lo aiuteremmo. Andando in un posto nuovo, infatti, potrebbe

ancor più tranquillamente reiterare i bestiali comportamenti”.

“Capisco”.

“Ma la brava gente che attendeva il ritorno dei dodici vescovi da Roma non

era anche adirata?”

“La loro rabbia era fluita sui giornali, in primis sul New York Times”.

“Esiste ancora il sano giornalismo negli USA!”

“Già”.

“Non è un caso che la Fallaci abbia scelto, prima della fine, di scrivere in

territorio straniero”.

“Già”.

“In questi giorni ho letto una dichiarazione forte, da parte di uno dei volontari

che si occupano dei ragazzi abusati. Non vedo né trasparenza, né giustizia

da parte della Chiesa. Così ha scritto”.

“Non esiste la Chiesa. Esistono uomini e donne che fanno la Chiesa”.

“Già, è vero. Altrimenti di quale Chiesa fa parte lei, don Vincenzo?”

“Pensate, invece, ai tanti santi che rappresentano la Chiesa nelle più sperdute

parti del mondo, senza macchina e senza tight, senza acqua potabile né

maccheroni cucinati… alla Caterina”.

“È proprio vero”.

“Non pensate ai preti manager. Sono manager travestiti da preti”.

“Quando non è ancor peggio!”

“Cosa vuoi dire, Caterina?”

“Penso ai preti manager che, amorevolmente, accolgono l’infanzia abbandonata.

Se qualcuno di questi è pedofilo, trova il modo per compiere abusi

sessuali di tipo seriale e predatorio persino essendo pagato”.

“Sì, ma non pensare solamente ai preti. Pensa a quanta gente dice di volere

amorevolmente assistere l’infanzia abbandonata e poi risulta essere un

pedofilo”.

“È vero, don Vincenzo. È proprio vero. Molti dei casi di abuso si realizzano

all’interno di amorevoli comunità”.

“Comprendiamo bene come risulti molto più facile. Non c’è famiglia dietro

ai ragazzi abbandonati. E se c’è è come se non ci fosse”.

“Già”.

“Pensate poi, a quanto debba essere forte il legame che si struttura fra un

povero bambino, o bambina che sia, senza alcun punto di riferimento, e quello

che gli appare come un autentico salvatore!”

“Certo. Il salvatore può farne ciò che vuole, profittando delle debolezze, dei

vuoti, dei bisogni dei bambini soli”.

“Lei, però, è stato invitato ad abbandonare la propria diocesi!”

Gli occhi di don Vincenzo si bagnarono, come sempre, quando ripensava al

suo allontanamento da Bridgeport.

“Non preoccupatevi della presenza di Enzo. Un amico di Caterina è anche

un mio amico”.

“Grazie, don Vincenzo”.

“Non si può essere grandi amici se non si condividono i grandi valori”.

“Certo, don Vincenzo”.

Lorenzo, al solito, volle metterla sullo scherzo.

“Attenti, però, al momento in cui un’altra donna si metterà fra voi due”.

Enzo volle subito far franare ogni dubbio.

“Nessuna donna potrà mai mettere a repentaglio l’amicizia fra me e

Caterina”.

“Dammi tempo e vedremo”.

Finalmente Enzo e Caterina avevano trovato una sera libera per entrambi.

Buona per recuperare il tempo perduto.

Intorno a una tavola imbandita.

Don Vincenzo quella sera si sentiva solo e la telefonata a Lorenzo era stata

come l’SOS di un naufrago.

Tre o quattro posti a tavola, non fa differenza alcuna.

Quella sera don Vincenzo si era sentito più solo del solito.

Nell’attesa di Lorenzo, e poi durante il breve tragitto, tutta la divina commedia

venne proiettata nel suo cinema personale, per la centesima volta.

E la Divina Commedia è bagnata da tanto amore…

 

Capitolo 19

Sull’Amore proibito

 

I tre bimbi correvano per strada come se fossero i più felici al mondo.

Eppure non avevano niente.

No, avevano una capanna di stracci e lamiere.

Ecco cosa avevano.

Bugia…

Avevano anche un padre.

La madre no.

Non aveva resistito.

Stenti e fame prima, tre parti dopo…

Non ce la fece.

Se ne andò una sera, nella penombra, per non spaventare i bambini.

Erano il suo unico tesoro.

Non voleva dar loro alcun tedio. Però i tre non la capirono.

“Perché la mamma è andata a vivere sotto terra?”

“Perché da lì vede tutto”.

“Come vede tutto, se è sotto la terra?”

“Perché da lì guarda il cielo, il cielo fa da specchio a tutto il mondo e così la

mamma vede tutto”.

“Cosa importa a noi che vede tutto?”

“Ah no, miei piccoli. Solo chi vede tutto può aiutarci”.

“Perché non da qui?”

Un bambino chiede “perché?” cento volte al giorno.

Tre bambini trecento volte al giorno.

“Quando sta per arrivare la pioggia violenta, lei lo vede prima e con un colpo

di mano la allontana dalla nostra baracca”.

“E che altro?”

“Quando precipita un fulmine, lei lo vede prima e con un colpo di mano la

allontana dalla nostra baracca”.

“E poi?”

“Quando vede il sole lontano dalla nostra baracca, lo prende con le mani e lo

porta sopra di noi”.

“Ancora!”

“Quando vede che i nostri vestiti sono un po’ lacerati, ne prende di nuovi da

qualche parte e ce li porta”.

“Li ruba?”

“No, la mamma non ruba. Glieli regalano”.

“Perché non farseli regalare qui?”

“Ve l’ho detto. Lei vede tutto. Può volare in ogni parte del mondo, scegliere

la persona più generosa e chiedergli dei vestiti nuovi. Poi vola da noi e ce li

porta”.

“Un’altra, papà!”

“Un giorno è volata per cercare persone generose e abiti nuovi. Cercò dappertutto,

ma non ne trovò. Allora volò più in alto, oltre le nuvole. Lì chiese

aiuto ad alcune persone che parlavano fra loro. Una si chiamava Dio, una

Allah, un’altra Buddha”.

“Dicci la fine, papà”.

“I tre parlottarono fra loro un bel po’ e alla fine le diedero don Vincenzo. Le

dissero: ecco la persona che fa per te. Portala ai tuoi figli e a tuo marito”.

Spesso i regali arrivano da lontano, da molto lontano.

È la favola della Befana, no?

Il mare non lo avevano mai visto.

I più anziani avevano loro detto che i paesi che hanno il mare sono più ricchi.

Che c’è più da mangiare.

Lì, fra le Ande, nella terra dei Kallawaya, erano capaci di leggere quello che

c’era oltre il cielo.

Ma, soprattutto, erano bravi a cogliere i segreti delle erbe.

Nei secoli dei secoli. Lì si perde il ricordo dell’inizio delle loro miracolose

guarigioni.

Miracoli che non temono il confronto con le cure dei camici bianchi.

Sol che loro, i Kallawaya, non se ne stavano ad aspettare i malati.

No.

Se ne andavano per gli stretti sentieri delle loro terre, viandando per trovarli.

E nel loro continuo peregrinare incontravano altri guaritori sacrificali.

Si confrontavano anche con gli indovini.

Ma loro erano straordinari.

Un’erba per tutti i mali.

Non ve n’ era uno che non avesse il suo antidoto, più o meno verde.

Magari avevano cominciato con il curare se stessi: le loro vertigini, la loro

tachicardia.

O il forte battito del cuore in gola che li prendeva mentre attraversavano la

Carretera de la Muerte.

Là, dove se ne stavano stretti stretti, quasi litigando con il duro terriccio.

Nella Carretera de la Muerte.

Calcando quel minuscolo viottolo che per chilometri e chilometri li trasportava

dall’Amazzonia alle Ande orientali.

Nel mentre sognavano.

Che bello!

Di potersi liberare in volo, come il condor.

Per poi scendere giù, fino ai piedi delle montagne.

Planandovi dolcemente.

Nel mentre sognavano.

Fantastico!

Di poter poi risalire, in alto.

Di nuovo lì…

Uhm!

Che brivido…

Poter guardare giù e fare le boccacce alle balze.

Senza alcuna paura, per quegli spaventosi strapiombi.

No!

Non può essere…

È vero.

Se l’hanno chiamata Via della Morte, allora vuol dire che di alcuni di loro

avevano visto il volo, sentito l’urlo disperato.

Poi, niente più.

Nessuno di quei poveretti è riuscito a risalire le aspre pendici.

A rivedere le rocciose creste e i profondi crepacci.

A gelare e tentare di ripararsi dall’ululante vento.

Nella Carretera de la Muerte era consentito solo di stringersi nell’angusto

viottolo, scavato nella montagna.

Tutt’al più di potersi riposare un po’.

La notte, dopo il faticoso cammino del giorno.

Tutte uguali quelle minuscole piste trans-amazzoniche.

Amiche e nemiche di sempre.

Sterrate.

Duramente ciottolose.

A migliaia di metri d’altezza.

Per farli sentire più vicini alle nuvole.

Il segreto del miserabile – testo definitivo.pmd 109 05/06/2013, 9.48

110

Per sentire la tranquillità o l’ira degli dei.

Sentire?

Vedere?

Forse avevano imparato anche a curare le loro allucinazioni estetiche…

Sì, certo!

Quando traversavano Salar di Coipasa.

Tutta colpa di quel fantastico luccicare di tante piccole stelle.

Centinaia di piccole comete.

Per centinaia e centinaia di chilometri.

Sì!

Miliardi di lucciole!

All’annunciarsi dell’alba.

Su quella superficie salata, bianca come i ghiacci andini.

E dopo le allucinazioni, le palpitazioni…

E che battito!

Un rullo di tamburi…

Dopo giorni e giorni di prigionia…

Due rulli di tamburi…

Addio, aspre e dure montagne!

Tre rulli di tamburi…

Che battito!

Quale meraviglia…

Dietro a loro la Cordillera Real.

E gli Illimani

E Huayna Potosi.

Ma lì, eccola…

La Conca di La Paz!

“Va bene. Passate pure”.

Così quei miserabili apostoli della salute erano autorizzati a entrare nella

Conca di La Paz.

Ma avevano dovuto imparare a estrarre buon cardiotonico dalle loro misteriose

piante.

Cercavano solo quelle.

E stavano sempre in cammino.

Per raccoglierle e guarire i malati.

Questo dicevano.

Ma la verità era un’altra.

In realtà non volevano perdersi l’estasi di quei paradisi naturali.

Già.
È così.
E li passavano e ripassavano continuamente.
Sempre.
Per fissarli.
Perché nessuna traccia dei ricordi venisse persa.
O minimamente scalfita.
Ma nulla avevano potuto inventare contro la malaria…
Quel maledetto insetto distrusse le famiglie di due giovani sposi.
Niente…
Le loro mirabilie curative avevano perso.
Un insulto alla loro grandezza di poveri medici itineranti.
Uno smacco alla loro presunzione.
“Interrateli!”
“Ma la terra è dura…”
“Interrateli!”
“Ma noi non vogliamo allontanarci da loro…”
“Interrateli!”
E avevano ripreso il cammino.
Come sempre.
Altri malati…
Altre piante…
Le miniere di Oruro e Challapata non potevano garantire un pasto a tutti.
Non c’era molto lavoro.
Non c’era lavoro per tutti loro.
E avevano fame.
Né i pochi giorni del carnevale potevano far dimenticare la loro povertà.
I contadini no.
I contadini avevano scoperto un’altra erba… curativa.
Un’erba che guariva dalla miseria.
Avevano imparato a coltivare la coca.
Ne vendevano la gran parte e scoprivano il futuro.
Ne usavano un po’ e scordavano il passato.
I due giovani reduci, no.
I Kallawaya nulla avevano saputo inventare contro la malaria…
Quel maledetto insetto aveva distrutto le loro famiglie.
E loro non possedevano neanche un metro di terra.
Non potevano farsi consolare a lungo dal charango.
Quel suono andino era diventato sempre più malinconico.
Lontano.
Dovevano andare lontano.
Nell’altra America.
Vicino al mare, però.
Perché i paesi di mare sono più ricchi.
Glielo avevano detto gli anziani.
C’è più da mangiare.
Ma pure loro, come i Kallawaya, possono essere fallaci, talvolta.
I due sposini partirono dal loro paesino, vicino a Curva.
Prima, però, vollero ricevere la benedizione dai maestosi dipinti della chiesetta
di Carabuco.
Poi ricalcarono le orme dei carovanieri del sale.
E via via i salares.
La Laguna Verde
Quella Colorada.
Quanti fenicotteri…
Le quebradas.
Oruro, La Paz, Rurrenabaque, Cobija.
Il treno andava piano.
Cultura Tiwanaku, Cultura Inca, Impero del Tawantinsuyu.
Il treno andava piano.
Guerra del Acre, guerra del Chaco, la revolution de Victor Paz Estenssoro,
la revolution del Che.
Il treno andava piano.
Bisognava ricordare tutto.
Fissare bene.
Il tropico del Capricorno era lontano quando videro una scritta in un cartello
ferroviario: Bridgeport.
Non più Quechua, ora solo lingua inglese.
Non più lama e vigogna, ora solo cavalli e vacche.
Non più coltivazioni di soia e sorgo.
Non più mogani e cedri, ora.
Nessuno, però, che li spregiasse più chiamandoli collas.
Due sole continuità: il Vangelo e la loro povertà.
Gli anziani, per una volta, si erano sbagliati.
Non basta il mare perché un paese sappia sfamare meglio i suoi cittadini.
E quando la moglie, in silenzio, se ne andò, a Corazon, come lo chiamava
don Vincenzo, non rimasero che pochi stracci.

Una baracca di lamiere poggiate l’una all’altra.

E tre grandi e piccoli tesori, vivaci e giocherelloni, nonostante tutto.

Non parve vero a don Vincenzo di essere il loro compagno di giochi.

Era il loro maestro di scuola.

E il cuoco di casa.

E anche il loro lavandaio…

grazie all’aiuto della sua puerpera

Li accompagnava a scuola.

Li vestiva.

Li pettinava.

Era come la loro mamma.

Il papà doveva andare al lavoro.

Si alzava presto al mattino.

Quando il sole non si era ancora levato.

E faticava, faticava molto.

Ma ne era contento.

La moglie gli aveva fatto davvero un bel regalo portandogli don Vincenzo,

dal cielo.

Oltre che una nuova mamma per i suoi figli, Corazon aveva trovato anche

un modesto lavoro.

E sì.

Don Vincenzo si era interessato.

Aveva messo su anche qualche chilo.

E dei mattoni.

Uno sull’altro.

Con travi e tegole.

A far da tetto a una abitazione che potesse esser chiamata casa.

Persino la sua carnagione olivastra era tornata a essere lucida.

Come quando Corazon era uno dei giovani figli delle Ande.

E i suoi occhi non erano più spenti.

Erano lucenti, anzi.

E i suoi capelli erano vivi.

E le sue mani erano vive.

Mani lunghe, lisce.

Mani veloci.

Mani calde.

Una luce bianca aveva sfrecciato lungo tutta la navata.

Appena oltrepassato il marcete.

Appena superata la soglia del portone d’ingresso della Chiesa.

Insieme a Corazon.

E aveva raggiunto don Vincenzo.

Con l’ostia in alto.

Fra le mani.

I suoi occhi erano rimasti fissi là, dove la luce partiva.

E si era fermata in fondo all’abside rotonda.

Dietro l’altare maggiore.

Una luce più tenue, invece, si era centrata su di lui.

Cerchiandolo.

Era entrata da una bifora laterale.

Spezzata in due da una colonnina in marmo.

Curvata da un arco.

Ecce homo.

Dio è amore.

L’amore è di Dio. Gesù è morto per amore degli uomini.

E ha donato a tutti loro un immenso patrimonio.

Eternamente presente.

In tutti.

Per tutti.

Mentre era in macchina con Lorenzo, don Vincenzo bagnava con le sue

lacrime una lettera.

Una lettera che non avrebbe voluto ricevere mai.

Una lettera che stringeva ancora fra le mani.

Come avrebbero fatto da soli, quei tre diavoletti?

Chi li avrebbe sfamati, vestiti, aiutati a giocare e studiare?

Chi gli avrebbe spiegato, per la millesima volta, perché mai la madre avesse

preferito stare sotto la terra?

Anziché vicino a loro…

Ancora una volta un fremito aveva percorso la schiena di Lorenzo.

Non sapeva rispondere a nessuna delle domande.

Fu più lesta Caterina.

“Don Vincenzo, non sono più dei ragazzi! Sono cresciuti adesso”.

“Hai ragione tu, mia cara. Sono io che esagero”.

“Certo, lei sta esagerando”.

Enzo ebbe un momento di esitazione.

Un dubbio gli aveva avvolto la mente.

“Non turbarti, Enzo. Un amico di Caterina è anche un mio amico”.

“Grazie, don Vincenzo”.

“Non si può essere grandi amici se non si condividono i grandi valori”.

“Certo, don Vincenzo. C’è una cosa che non capisco, comunque”.

“Quale?”

“Perché se ne è andato da Bridgeport?”

Caterina e Lorenzo conoscevano bene la risposta, ma Enzo parlava per la

prima volta con il prete.

“Diciamo che se ne è andato contro voglia…”

“Perdonate se non capisco”.

“Gli hanno consigliato, caldamente, di chiedere di tornarsene nella sua terra

d’origine. Con tanti ringraziamenti per la sua opera pastorale a Bridgeport”.

“Ho capito, adesso”.

“È stato uno strazio… una lacerazione… una ferita rimasta sempre aperta”.

“La capisco”.

Lorenzo:

“Capisco anch’io, ma capisco solo lei. Non so come abbia potuto perdonare

i… suoi consiglieri”.

“Sono un uomo di chiesa”.

“Anche un uomo di chiesa ha il diritto di amare”.

“Di amare tutto il prossimo, allo stesso modo. Non di amarne uno più degli

altri”.

“Io non sono uomo di chiesa e quindi non mi lascio ammanettare dai dogmi.

Tutti gli uomini hanno diritto di amare”.

“Io ho promesso fedeltà alla Chiesa”.

“Ma il buon Dio ha donato anche a lei l’amore. Credo non lo neghi a nessuno”.

“Io ne sono certo, ma la Chiesa deve fare ancora molta strada su certe cose

Non è semplice”.

“Forse le cose semplici sono più difficili da capire?”

“Non è difficile capire che il buon Dio ci ha donato l’amore. No. Questo,

anzi, è il fondamento della nostra azione pastorale”.

“Amare è donare. Donare è amare”.

“Certo”.

“Nessun problema, dunque, se un prete ama qualcuno”.

“Noi abbiamo fatto la promessa dell’obbedienza, non della castità”.

“Appunto”.

“Non è questo il problema”.

Enzo, incuriosito:

“Quale, allora?”

“L’omosessuale va accolto, non va discriminato. Ma non deve concretare la

sua sessualità. Deve rinunziare. Non al suo essere omosessuale, ma alla sua

sessualità”.

“Questo è chiedere troppo, non le pare?”

“È la parola della Chiesa”.

“La Chiesa, dunque, può chiedere di rinunziare all’amore?”

“No, non all’amore, ma alla sessualità”.

“Ma la sessualità, quella vera, non è forse amore? Non è un modo di manifestare

l’amore verso qualcuno?”

“Sì, fra un uomo e una donna”.

“Ma un uomo può amare un uomo. Una donna può amare una donna. Non

lo abbiamo certo scoperto ora!”

“Può amarlo o amarla. Il tutto, però, deve fermarsi nel suo cuore”.

“La sessualità, dunque, è turpe! Roba di cui vergognarsi…”

“Quella fra un uomo e una donna è benedetta da Dio”.

“Perché è prodromo di maternità!”

“Perciò è benedetta da Dio”.

“La sessualità senza la maternità, quindi, non è benedetta?”

“Se i due coniugi l’accettano, allora è benedetta”.

“Coniugi?”

“Certo”.

“E se la sessualità, intesa come atto d’amore, viene realizzata fra persone

non coniugate?”

“Quella non può essere benedetta”.

Enzo, quasi con impazienza:

“Che giustizia è questa?

“Dio benedice l’amore coniugale”.

“Sembra una benedizione offerta alla procreazione, più che all’amore”.

“Non è così”.

“La mancata possibilità di procreare può essere causa di nullità del matrimonio,

dunque”.

“Può essere”.

“Non le pare la conferma di quanto dicevo prima?”

“Dio benedice l’amore coniugale”.

“Nel caso di persone omosessuali, basterebbe lasciarli sposare, dunque”.

“Non può esserci matrimonio fra omosessuali”.

“Qual è il loro peccato originale?”

“Il buon Dio ha creato Eva perché fosse la compagna di Adamo. E regalò

loro la possibilità di mettere al mondo dei figli”.

“Già. Crescete e moltiplicatevi. Altrimenti non siete degni di ricevere l’amore

di Dio”.

“No, il buon Dio ama tutti”.

“A patto che alcuni di loro rinunzino ad amare. O che amino solamente con

il cuore”.

“È così”.

“Io, invece, credo che l’amore sia sempre da benedire. L’amore di chiunque.

L’amore per chiunque”.

“Rispetto la tua opinione”.

Caterina:

“Ma quanto le è costato!”

Un lungo silenzio.

Un fardello insopportabile calò pesantemente sulle spalle degli interlocutori.

Non poteva durare più a lungo.

Un colpo di tosse, un po’ di nero d’Avola e poterono tornare a guardarsi

negli occhi.

“Un albero guarda il ramo staccatogli dal vento e piange”.

“Sarà stato un gran dolore…”

“Il ramo guarda l’albero dal quale il vento lo ha staccato e piange”.

“Certo”.

“È stato come rinunciare a una parte di me stesso. A una parte molto

importante”.

“Parla di rinuncia?”

“Sì, di rinuncia. Me lo hanno chiesto, non me lo hanno ordinato”.

“Avrebbe potuto fare diversamente, allora”.

“È stata una mia scelta. Una libera e dolorosa scelta”.

“Noi non avremmo saputo fare quello che lei ha fatto”.

“Il perdono di Dio appaga il mio dolore”.

Don Vincenzo celebrava la propria sofferenza, mentre i suoi interlocutori

sentivano crescere dentro la ribellione.

“Ci sarà il perdono di Dio per coloro i quali hanno invitato un uomo a rinunciare

al suo naturale amore?

Mentre hanno lasciato che altri continuassero a deturpare la vita di tanti

innocenti …”

“Di essi non sarà il Regno dei Cieli”.

“D’accordo. Ma nel frattempo si potrebbe invitarli a starsene da eremiti, se

proprio qualcuno vuole impedirgli di conoscere le galere”.

“È una questione più grande di me”.

“Sol perché lei è uomo di chiesa. Noi vogliamo giustizia, ma non ne percepiamo

alcuna, in questa vicenda”.

“La vostra sete di giustizia sarà accontentata. Non qui”.

“Noi vorremmo che subito, ora, non ci fossero altri bambini a soffrire”.

“Dovreste guardarvi meglio intorno. Non solo i preti causano così grandi

sofferenze. Anche chi non si veste della tonaca, bensì del rango. O altri

ancora che non si vestono di nulla. Tanti sono i giuda”.

“È vero, ma noi siamo contro tutti quelli, tutti insieme!

Specialmente contro chi nasconde i propri impulsi sotto una veste, quale

che essa sia.

Non possiamo tollerare le protezioni, da qualunque parte esse vengano”.

“Di essi non sarà il Regno dei Cieli”.

“D’accordo, ma noi vogliamo una giustizia che si possa conclamare già in

terra, in questo mondo. Non possiamo dire ai nostri bambini di starsene

tranquilli e quieti, perché un giorno avranno giustizia, non sappiamo bene

dove e quando”.

Amore malato?

Sì.

Parlavano di amore malato.

E ne avrebbero riparlato…

 

 

Capitolo 20

Sull’Amore malato

 

 

Trascorsero delle settimane prima che si trovassero dinanzi alla tavola

Enzo e Letizia, da una parte.

Caterina e Lorenzo dall’altra.

Una tavola imbandita di novità, ancor prima che di cibo.

Il pomeriggio precedente Enzo aveva voluto preparare l’amica.

“È una tua collega e questo dovrebbe già intrigarti”.

“Che bello!

Finalmente una compagna per Enzo”.

“Già, anche se, a dire il vero, finora non mi era mancata”.

“Sai bene che non mi piaceva il tuo sport preferito: il salto da fiore in fiore”.

“Bisogna pur vivere”.

“Bisogna vivere in modo sano. Cercando di costruire qualcosa di buono

durante la nostra breve esistenza”.

“Risorge Calvino?”

“L’istinto del piacere non riuscirà mai a uccidere i buoni valori. Per fortuna”.

“Non ti concedi mai niente tu”.

“Al contrario, mi concedo il meglio. Non mi convincerò mai che si possa

vivere solo naufragando nell’orgia della soddisfazione immediata”.

“Un bagno ogni tanto, almeno…”

“Quei bagni sono pericolosi”.

“Credo stavolta sarai accontentata: voglio restare a lungo nell’acqua”.

“Finalmente una buona azione. Quando ci darai l’onore di conoscerla?”

Ed eccola lì, Letizia.

Occhi fiammanti.

Un bel sorriso bianco.

Silhouette da modella.

Letizia guardava Enzo da una spanna più in alto.

Soprattutto, guardava poco gli altri due.

E parlava ancora meno.

Un gustoso aperitivo, alcolico al punto giusto.

No.

Nemmeno quello era riuscito a sciogliere la lingua di Letizia.

Solo se pungolata diede qualche risposta telegrafica.

Seppure gli altri tre cercassero di essere avvolgenti e appassionati nelle loro

discussioni, come era loro solito.

Lei no.

Sembrava non appassionarsi.

Era come una spettatrice.

Spesso si distraeva con il telefonino.

Quel piccolo e fastidioso strumento squillò spesso quella sera.

E ogni tanto mutò la sua maniera di disturbare.

Lasciò che traghettassero numerosi messaggi.

Quelli inviati e quelli ricevuti.

Letizia non si scusò nemmeno.

Si allontanava dalla tavola e dalla compagnia.

Si assentava senza dir nulla.

Apprezzò molto la cena, ma con due sole parole.

E la voce le sembrò schiarirsi solo quando arrivò il momento del commiato.

Con tanto di convenevoli, poco adusi in quella casa.

Non la espresse con flagranza, ma una certa delusione era rimasta dipinta

sul viso di Caterina.

Insieme a tante perplessità.

“Non so. C’è qualcosa che non va in quella donna”.

“Sarà stata un tantino imbarazzata. Forse non è abituata a lasciar cadere

immediatamente il velo della confidenza”.

“Può anche darsi. Ma se ti dicessi che mi ha fatto simpatia non sarei sincera”.

“È evidente. Sarai mica gelosa?”

Al solito, Lorenzo aveva cercato di trapassare l’imbarazzo con una buona

dose di semplice ironia.

“No, al contrario. Sono felice che finalmente Enzo abbia una compagnia

vera, anziché quella che dura una notte”.

“Non mi pare che sinora egli abbia speso molte lacrime per questo”.

“Cosa ne ha avuto? Non è più un ragazzino, con i soli ormoni a dirigerne il

cammino”.

“Beh, stavolta gli ormoni lo hanno condotto su un bel lungomare”.

“Sì, è una bella donna. Ma non vorrei che Enzo si fosse innamorato solo per

questo”.

“Auguriamogli di no”.

“Non ti sembrava distratta?”

“Che vuoi dire?”

“Sembrava avere la testa altrove”.

“Capisco bene?”

“Sì”.

“Non capisco perché dovrebbe recitare la parte della fidanzatina”.

“Razionalmente è così, ma non posso nasconderti una mia impressione”.

“Mi fai paura…”

“Niente paura”.
Caterina aveva alcuni cantanti preferiti, e Ligabue era fra questi…
Già.
Niente paura.

 

Capitolo 21

Sulla verità sconvolgente

 

L’operazione si era conclusa da poco.

Tutta la città era stata scossa dal fragore delle sirene spiegate e dai caroselli

delle macchine della polizia.

Sembrava quasi volessero rassicurare la popolazione.

“Ci siamo noi, non preoccupatevi!”

No, non è successo nulla di grave.

Anzi.

Non preoccupatevi.

Gioite, anzi.

Abbiamo tolto di mezzo un killer.

Uno di quelli che prima depositano il cuore in cassaforte e poi sparano

Dopo riaprono la cassaforte e se lo riprendono.

No.

Non lo abbiamo ucciso.

Non possiamo usare le loro stesse armi.

Lo abbiamo arrestato.

E adesso lo faremo marcire in galera.

Per il resto dei suoi giorni.

Così urlavano le sirene spiegate.

Per giorni non si poté parlare d’altro, in città.

Poi la quiete.

La quiete prima della tempesta.

Un amico di Lorenzo lavorava là dove certe notizie vengono apprese in

diretta.

E le aveva confidate a chi sa tenere tutto in pancia.

Ma Lorenzo sapeva bene che prima o poi la bomba sarebbe esplosa.

“Ricordi di quel killer che hanno arrestato qualche settimana fa?”

“Sì, certo”.

“Pare si sia immediatamente pentito di quello che ha fatto finora”.

“Il profumo dell’ergastolo avvicina al divino!”

“Beh, se è per questo nel suo covo segreto hanno trovato anche una Bibbia”.

“A me hanno detto che all’interno della sua casa c’era anche una cappella.

Addirittura una piccola cappella…”

“Vogliono sparare con la coscienza pulita!”

Caterina lesse negli occhi di Lorenzo.

“Ma tu volevi dirmi qualcosa d’altro, non è vero?”

Non poteva.

Era uno che sapeva trattenere tutto nella pancia.

“Vedo che ti hanno già raccontato le gesta di questo pistolero”.

“Belle gesta! Sparare a qualcuno che non può difendersi. Almeno facessero

come i cow boy! Cinquanta metri di qua, cinquanta metri di là e via. Vince

chi è il più preciso. Mi sembrerebbe più onesto”.

“Qui l’onesta è scappata insieme ai buoi, fuori dalla stalla”.

“A me pare che talvolta li rendiamo quasi delle stars, delle celebrità. Spesso

gli affibbiamo anche il… nome d’arte”.

Per quel giorno il compito di Lorenzo era stato svolto.

In attesa di future evoluzioni.

E sapeva bene che sarebbero arrivate presto.

Si trattava di una preparazione al trauma, di modo tale che facesse meno

male.

Sì, un trauma.

Quando i Principi Azzurri cadono, spesso si fanno più male gli altri.

E il principe azzurro può anche avere i tratti del vichingo.

“Bestialità!

Autentiche bestialità…”

“Comprendo la tua delusione”.

“Sta raccontando solo bugie!

Per averne qualcosa in cambio…”

“Pare di no”.

“Parli come se tu fossi presente alle sue confessioni”.

“Hanno arrestato un sacco di gente…”

“Cosa non farebbe un pentito pur di evitare la galera!”

“Hanno dei riscontri precisi alle sue dichiarazioni”.

Caterina non riusciva a placare la propria ira, ma le ultime frasi di Lorenzo

l’avevano messa in difficoltà.

“Si sa qualcosa di più preciso?”

“Trapela che anche altri si stiano pentendo, travolti dalle sue rivelazioni. È

come se si fosse aperto un baratro”.

“Non riesco a crederci”.

“Certo, non è facile”.

“Era sempre a disposizione. Pronto a soccorrere deboli e vittime. Avverso a

ogni sopruso…”

“Nessuno sa cosa facesse quando era solo”.

“Spaccio di droga! Impazzisco…”

“Già”.

“Ma se la regalava a chiunque!”

“Non vorrei ricordarti che così si fa nascere un mercato di possibili clienti”.

“Ma diceva che ciò serviva a fare crescere la ribellione contro il sistema,

contro il potere corrotto!”

“Così si creava un suo piccolo esercito di fedelissimi, pronti a tutto”.

“Certo era molto amato”.

“Appunto”.

“È impossibile che nessuno di quelli abbia capito alcunché!”

“Ho imparato dalla vita che l’amore può essere un grande pericolo”.

“Cosa vuoi dire?”

“Quando ci si innamora non si riesce a discernere bene ciò che è giusto e ciò

che è sbagliato”.

“L’amore non può ottenebrare la mente”.

“Se l’amore sta da una parte sola, l’altro o l’altra sono in completo stato di

dipendenza.

Come da una droga”.

‘ L’amore e la droga sono cose diverse”.

Lorenzo tirò dritto.

“Se una persona o una sostanza ti dominano, l’effetto è quello della dipendenza.

Inconfutabilmente”.

“Ma lui amava veramente. Si vedeva. Si sentiva. Si annusava”.

“Può darsi sia esattamente così”.

“Allora?”

“Se io mi sento amato dal mio capo, farò per lui ogni cosa”.

“In effetti, anche i dittatori sono stati amati da una parte del popolo”.

“Pensa ai capi delle cosche. Non sono forse amati dai loro affiliati? Non sono

disposti a ogni cosa, la più turpe, pur di eseguirne ciecamente gli ordini ?”

“Forse perché rischiano la pelle…”

“Molti sono partiti per un fronte, pur di eseguire gli ordini di un amato dittatore”.

“Non riesco a capacitarmi…”

Caterina era rientrata fra i suoi ricordi.

Non riusciva ad accettare la verità.

Troppo forte lo scontro fra i bei ricordi e la cruda realtà.

“Ricordo che le ragazze lo adoravamo”.

“Lo so”.

“Non era solo una questione di bellezza. Era il nostro protettore, il nostro

benefattore. Era il nostro punto di riferimento”.

“Lo so”.

“Quante feste! Il fine settimana era ovvio che si andasse a una festa e lui

era lì. A regalare felicità. A risollevare da ogni cruccio. A fare vedere orizzonti

nuovi e inesplorati”.

“Capisco”.

“E ci sapeva spiegare ogni cosa. Ogni domanda aveva una risposta. Precisa

e chiara. Senza equivoci”.

“Ogni cosa…”

“Sì ogni cosa. Specie di politica. Noi non ne sapevamo granché, ma quando

lui ce ne parlava diventavamo tutti grandi esperti”.

“Tutti esperti di rivoluzione”.

“Sì e con la passione dettata dal cuore, ancor prima che dalla mente”.

“Sapeva di parlare alla mente, ma di essere ascoltato dal cuore”.

“Sì, era una vera e propria esplosione di passioni. E poi tutti per uno, uno per

tutti!”

“Parlava molto contro il Potere. Vi parlava anche della mafia?”

“La mafia lo disgustava…”

“Sembra una favola”.

“Già”.

“Rivoluzionario, antimafioso e capo cosca!”

“Non riesco a crederlo”.

“Bandiere rosse al funerale di un uomo del popolo, antagonista di ogni perversione

del potere…”

“Si”.

“…oggi accusato di essere stato ammazzato come un cane da una cosca

avversa. Da chi non gli perdonò di volerla scalzare, di volerne prendere il

territorio”.

“Incredibile”.

“Si è davvero una storia incredibile”.

 

 

Capitolo 22

Sull’Albero Maestro

 

 

L’albero era morto.

Avvizzito e stanco si era piegato su se stesso.

“Via! Andate, libere per il mondo”.

“Dove andremo, noi povere foglie?”

“Via, andate libere per il mondo. Raccontate a tutti di un povero albero

invecchiato e senza linfa”.

“Ma noi siamo qui a coprirti, a colorarti, a vezzeggiarti”.

“Non vedete? Nessuno pone più fiori a miei piedi. Nessuno viene più a

proteggersi sotto la nostra chioma. Nessuno…”

“Non sentirti solo, papà albero. Le tue figliolette sono tutte qua. Noi non

vogliamo lasciarti solo”.

“Arriva il tempo che il papà lasci libere le sue figliolette. Vi ho costrette a

stare qua, sempre qua.

Non sapete nulla del mondo, se non di questa piccolissima parte di esso”.

“A noi basta”.

“No, il mondo è grande e la vita è breve. Correte, correte!”

“Papà albero, tu sei solo deluso e depresso”.

“Questo è vero”.

“Hai tanto bisogno di noi”.

“Il mio dolore non deve essere la vostra prigione”.

“Noi ci sentiamo libere e vogliamo vivere vicino a te”.

“Non è più il tempo. Andate, piccole foglie mie. Andate”.

Si piegò e stramazzò al suolo.

Trascinando con sé lo scoramento e il silenzioso lamento.

Continuo…

Doloroso…

“Non è più il tempo. Andate, piccole foglie mie, andate. Che dolore non

rivedervi più!

Ma almeno saprò che anche voi avrete vissuto la vostra libertà. Con tutti i

suoi dolori e le sue gioie”.

Il segreto del miserabile – testo definitivo.pmd 126 05/06/2013, 9.48

127

La saggezza e la natura…

Spesso si incontrano.

E fanno lunghe passeggiate.

E parlano…

 

Capitolo 23

Sul Vento Buono

 

“Saggio, perché papà albero ci ha lasciate?”

“Perché ha voluto lasciare viva in voi la speranza”.

“Potevamo coltivarla insieme”.

“Non ha retto al dolore. Non avrebbe più avuto la forza di sostenervi. Così

ha preferito che voi godeste della vostra libertà. Senza l’ ingombrante peso

delle sue delusioni”.

“Povero papà albero”.

“Sappiate che lui è contento di voi. Sente le parole che state dicendo a me”.

“Povero papà albero”.

“No, no. Non pensate a lui con dolore. Ringraziatelo, invece. Ha saputo

farvi conoscere i veri valori della vita”.

“Lo ricordiamo bene. Ma una delusione può essere così profonda da farti

mollare?”

“Papà albero ha lottato molto, adesso tocca a voi e ad altri”.

“Adesso ti capiamo meglio, Saggio. Non basta un esempio, per grande che

possa essere, per vincere la cattiveria”.

“Bene, sono contento”.

“Grazie, Saggio”.

“No, non me dovete ringraziare, ma papà albero. Un grande esempio non

basta per vincere la cattiveria, ma senza un grande esempio molti si arrenderebbero,

senza combattere”.

“Puoi farci degli esempi, Saggio?”

“Guardatevi intorno. Vedete quanta gente cerca di imporvi il proprio volere,

prepotentemente?”

“Si, certo”.

“Guardate nuovamente. Vedete molti ribellarsi a tanta ingiustizia?”

“No. In verità no”.

“Ecco spiegato il mio dire. Troppa gente è abituata a dire di si, paurosamente

e con deferenza. Anche a chi cerca di imporre prepotentemente il proprio

volere”.

“Conosci il motivo di ciò?”

“Per fortuna sono in pochi, ma i Cattivi esistono. A tutti i costi vogliono

possedere denaro e agi superflui. Pure a costo di rubarne ad altri. Pure a

costo di renderli dei miserabili, spogliandoli di ogni dignità”.

“Come riescono a far ciò?”

“Attraverso l’uso iniquo del potere”.

“E la Giustizia?”

“La rendono ingiusta, con l’inganno. Riescono persino ad apparire benevoli

nei confronti di chi stanno rendendo indegno”.

“E la Legge?”

“Hanno stravolto pure il senso della Legge. Pensate. Una legge dovrebbe

garantire dei diritti, tutti i diversi diritti, con il solo limite del non fare del male

a nessuno”.

“Invece?”

“Invece hanno reso la Legge una imposizione. Hanno imposto a tutti che i

loro privilegi si perpetuassero, attraverso l’uso della Legge”.

“Scusaci, Saggio. Non siamo pronte a capire”.

“Non siete le sole. La Legge dovrebbe garantire i tanti e differenti diritti di

tutti. Nella loro totalità. Ciascuno dovrebbe essere libero di vivere la propria

vita come la vuole. Nel rispetto totale della altrui libertà.

Dell’altrui diversità”.

“Invece?”

“Invece il Potere impone i suoi diritti a tutti. Omologando qualsiasi differenza.

Combattendola, anzi. Impone per legge i propri diritti a tutti. E pretende

l’assoluta obbedienza”.

“Adesso capiamo meglio. Ma aiutaci ancor più. Parli solo delle leggi scritte

sui codici degli avvocati e dei giudici?”

“No, parlo anche delle tante leggi non scritte”.

“E sono altrettanto ingiuste?”

“Spesso lo sono ancor di più. Perché si rifanno a tribunali e giudici che non

possiamo calpestare o conoscere”.

“Gli ingiusti sanno di essere tali?”

“Qualche volta lo sanno. Altre volte, sono convinti del contrario. Pensano,

cioè, di incarnare la Giustizia. Interpretandola unicamente alla luce del loro

pensiero”.

“Scusaci, Saggio. Non siamo pronte a capire”.

 

“Guardate quanti Cattivi pregano e uccidono, non solo materialmente. Guardate

quante preghiere precedono o seguono un delitto. E sono preghiere

rivolte a una Divinità o a un Ideale”.

“Grazie, Saggio. Ci hai aiutate a capire”.

“Volate, adesso. Volate. Fate quello che vi ha chiesto di fare papà albero.

Fatevi condurre dal Vento Buono, quello leggero e gradevole. Evitate di

farvi condurre dal Vento Cattivo”.

“Come possiamo fare ad evitare il Vento Cattivo?”

“Proteggetevi sotto il fusto di un papà albero. Vi aiuterà lui”.

“Ciao, Saggio”.

“Volate, piccole foglie mie. E spiegate al mondo quello che sapete. Parlategli

di vostro papà albero. Volate”.

 

Capitolo 24

Sulla conoscenza di una nuova persona

 

“Avevo ragione io, Lorenzo”.

“Su cosa?”

“Su Letizia”.

“Cosa c’è?”

“Enzo si è confidato con me”.

“Bene, in ogni caso”.

“Esce da una storia turbolenta. Da una di quelle storie impossibili, quelle che

ancor più intrigano tante donne”.

“Ecco il perché della sua distrazione…”

“Ecco il suo atteggiamento quasi misterioso. Ecco perché tutto il suo atteggiamento

non mi ha convinta”.

“Nessuno conosce le donne meglio di una donna”.

“Già. Ti dicevo di Enzo. Sta passando brutti momenti”.

“Capisco”.

“Non sa bene cosa fare”.

“E tu? Cosa ne pensi?”

“Gli ho detto che se l’ama veramente deve sapere attendere”.

“Attendere cosa?”

“Che Letizia capisca veramente cosa vuole”.

“Qualcuno dice che Letizia si sia trovata spesso… a non sapere cosa vuole”.

“La notizia è arrivata pure a te?”

“Figurati! Certo”.

“Gli ho detto che so bene come una donna voglia sentire l’amore del proprio

uomo”.

“Talvolta penso che molte donne si innamorano dell’Amore, anziché del

proprio uomo”.

“E molti uomini si innamorano solo della loro donna, anziché dell’Amore”.

“Un bel concerto fra sordi”.

“Mi pare che Enzo sia davvero in difficoltà. Giusto adesso che si è messo in

testa di coltivare una relazione vera…”

“Ha la grande fortuna di avere te come amica”.

“Dici?”

“Certo. È davvero fortunato!”

“Tu che sei uomo, invece, cosa ne pensi?”

“Penso che tu abbia ragione. Se davvero pensa che Letizia possa essere la

sua donna, allora deve fare di tutto perché possa esserlo”.

“Ogni tanto penso che in te ci sia una parte femminile”.

“Non mi offendi. Penso che in tutti noi ci sia del maschile e del femminile”.

“Posso consigliargli di confidarsi anche con te?”

“Certo, se lo vuole”.

Enzo accettò volentieri il consiglio dell’amica e poté scoprire, così, di averne

due di amici.

Tra un bicchiere e un altro, Enzo sciorinò a Lorenzo la gran parte della

propria esistenza.

Mettendo a vista anche le proprie debolezze.

Cosa non solita fra due uomini.

In effetti, Enzo sentì gran sollievo dalla lunga discussione con Lorenzo.

E ciò gli diede forza.

Tanta forza.

“Non è semplice tollerare che la tua donna, o quella che tu vorresti fosse la

tua donna, stia a sorridere a qualcun altro”.

“Sarei più preoccupato se piangesse per qualcun altro”.

“Sarà, ma è dura lo stesso”.

“Questo lo comprendo bene. Ricorda, comunque, che se lei volesse stare

con quell’altro, non avrebbe esitazione alcuna a farlo”.

“È vero, ma non posso sentirmi… in una multiproprietà”.

“È lei che ha scelto di portare il cervello in lavanderia, invece”.

“E io sarei il detersivo?”

“Sì”.

“Mica bello!”

“Invece, sì. Fra mille ha scelto di provare con te. Ciò avrà pure senso e

importanza”.

“Voglio proprio consolarmi”.

“Letizia ha bisogno di verificare che il suo cervello sia pulito E… libero.

Prima di iniziare quella che può essere la sua storia”.

“Non poteva farlo prima di conoscere me?”

“No, è questa la sua prova del fuoco”.

“Non hai detto che Letizia è andata in lavanderia?”

“Anche l’acqua, talvolta, scotta”.

“A ben pensare io non ho mai sentito forte il bisogno di sciacquarmi il cervello,

prima di passare da una donna a un’altra”.

“Generalmente noi uomini siamo più sporchi delle donne”.

“Perché le osanni?”

“No, non credo di sapere osannare qualcuno. Però sono realista. Voglio

guardare le cose così come sono. Senza preconcetti”.

“Solitamente fra uomini si parla male delle donne”.

“Consoliamoci. Solitamente fra donne si parla male degli uomini”.

“Chi ha ragione?”

“Non esiste l’uomo. Così come non esiste la donna. Esistono tanti uomini e

tante donne. Di alcuni si può parlare bene. Di altri si può solo parlare male.

Niente generalizzazioni”.

“Certi preconcetti ci fregano. È vero. Di una donna che dubita delle sue

scelte siamo portati a pensar male”.

“Non facciamo lo stesso per gli uomini dubbiosi. Spesso, anzi, questi passano

per furbi, uomini che valgono”.

“Talvolta non so bene se parlo con te o con Caterina”.

“Spogliati dai preconcetti e anche tu vedrai le cose così come sono. Non

come ci hanno insegnato i cattivi maestri della vita”.

“La mia reazione più istintiva sarebbe quella di mandarla a quel paese”.

“A quel punto i suoi dubbi sparirebbero”.

“Chi pensa al mio fegato?”

“Caro amico, non ti ho detto io di scegliere Letizia”.

“Scusami, lo so bene. Potrei sbagliarmi, però”.

“Certo, ma potresti anche azzeccarci”.

“In realtà lo penso. Lo sento, più che pensarlo. È una cosa che ti parte da

dentro, non sai bene da dove. Ma è forte”.

“Dunque vale la pena di vivere una sconfitta”.

“Mi vedi già sulla ghigliottina?”

“Niente affatto. Potrei immaginarti inginocchiato davanti a un altare, a pronunciare

un fatidico sì. Se questo è importante per te”.

“Non l’ho mai pensato. Mi viene quasi da ridere”.

Ridere.

Ridere è importante.

Saper ridere è saggio.

 

Capitolo 25

Sugli Occhi che parlano

 

Si muovevano quasi come dei ballerini professionisti.

Musica e corpo si muovevano all’unisono.

Una sorta di comunicazione diretta, dalle onde sonore al movimento.

“Guarda quanta felicità passa attraverso quegli occhi a mandorla!”

“Sembrano addestrati al ballo”.

“Come è strana la natura. Da una parte toglie, dall’altra dà”.

“Chissà se noi riusciamo a essere felici come loro”.

“Caterina, anche loro avranno momenti di scoramento”.

“Già, ma adesso se la godono alla grande”.

“E allora contribuiamo alla loro festa”.

La festa di quei ragazzi dagli occhi a mandorla era uno spettacolo vero.

Niente background.

Nessuna prova.

Regista assente.

Tutto era gioia.

Allegria.

Fiera.

Improvvisazione riuscita.

“Lorenzo, assaggia queste pizzette. Le hanno preparate loro”.

“Enzo, è davvero incredibile”.

“Guardali, vestiti da camerieri. È stata una loro idea. Per una sera vogliono

essere autentici professionisti”.

“Chissà per quanto tempo ricorderanno questa serata”.

Il karaoke era la loro orchestra.

“Senti, Enzo, cantano meglio di te”.

“Caterina, per quanto ne sappia io, cantano anche meglio di te”.

E giù le risate.

“Seguono il tempo perfettamente…”

Le voci venivano coperte dal rumore.

Occorreva gridare per farsi sentire.

“Cosa?”

“Sentili. Seguono il tempo perfettamente. Non ti pare?”

“Sì, sono sempre sul quarto quarto, puntualissimi”.

“Lorenzo voi eravate così bravi quando suonavate?”

“Enzo, noi eravamo più bravi, ma meno gioiosi. Mi commuovono”.

Manco a farlo apposta.

“Signora, posso ballare con lei?”

Poteva mai Caterina non accontentare lo smagliante sorriso di chi glielo

richiedeva?

“Certamente, signorino. Balliamo!”

I due uomini si allontanarono, togliendo… ogni imbarazzo.

Sì, perché il signorino si muoveva con la sinuosità di un ammaliatore.

Voleva conquistare Caterina!

“Dov’è la tua Letizia?”

“Non la vedo”.

“Starà regalando un attimo di gioia a qualcun altro dei nostri cari ragazzi”.

“Potrebbe tentare di darne uno anche a me, diamine”.

“Tu non sai ballare”.

E giù le risate.

Caterina e il suo corteggiatore non finivano più di fare a gara a chi fosse più

bravo.

“Tenete un bel bicchiere di vino, signora”.

“Tenga, signorino. Ne beva un po’ anche lei”.

Altro che un po’.

Il nostro trangugio’ tutto di un fiato, prese Caterina per le braccia e l’avvicinò

a se.

Balla! Sei mia!

“Si sono sposati!” – gridò dal fondo dello spiazzale una voce femminile, con

il viso da cinesina.

“Bravo Luca!”

“Evviva”.

E giù un lungo e scrosciante applauso per i… novelli sposi.

“Enzo, ti indicano come testimone”.

“Manca la mia metà, non posso farlo da solo”.

“Dov’è Letizia?”

“Laggiù in fondo. La vedi?”

Vicino ai due c’era la sorella di Caterina.

“Letizia chi?” – chiese a Lorenzo.

“Letizia, la ragazza di Enzo. Vedi quella donna? Quella”.

Un sorrisetto beffardo si trasformò in telegramma urgente, inviato a Lorenzo.

Senza che Enzo se ne avvedesse.

Gli occhi parlano.

“La conosco bene. Stop. Non mi piace. Stop. Certo, è bella. Stop. Va bene

per un breve lasso di tempo, anzi brevissimo. Stop. Costruire una vita con

lei? Stop. Ma chi glielo fa fare? Stop”.

“Ricevuto. Stop”.

I tuoni spaventano.

I fulmini interrompono i sorrisi.

Mannaggia!

Non erano momenti di festa?

 

Capitolo 26

Sui Fulmini a ciel sereno

 

“Cosa si può fare?”

“Poco. Assai poco”.

“Maledizione! Così giovane…”

“È stato un fulmine a ciel sereno”.

“Come lo hanno scoperto?”

“Una visita generica, per un banale senso di nausea persistente”.

“Immagino la botta!”

“Spaventosa!”

“Di che tumore si tratta?”

“Carcinoma anaplastico”.

“Ma non è da persone anziane?”

“Quando si dice la sfortuna…”

“Si tratta di una tipologia di tumore aggressiva?”

“Dipende dalla stadiazione, per quanto ne sappia”.

“E qual è la situazione?”

“La peggiore”.

“Infausta?”

“È meglio farsi poche illusioni… Certo, proveranno a fare tutto il possibile”.

“Ovvio…”

“Dipenderà molto dalle eventuali metastasi, a prescindere dalla localizzazione.

Con le metastasi c’è poco da fare”.

“Cosa tenteranno di fare?”

“Radio e chemio combinate. Ma non danno molte speranze”.

“Vivrà ancora?”

“Forse un anno…”

“Come è strana la natura. Da una parte dà, dall’altra toglie”.

“Non si deve morire a soli trenta anni…”

“Non si dovrebbe morire mai, prima di essere stati vecchi”.

“Se lo conoscessi…”

“Non riesco a ricordarmi di un fratello di Letizia”.

“Pieno di vita. Allegro. Simpatico. Socievole”.

“Miseria…”

“Lei è distrutta!”

“Non potrebbe essere altrimenti”.

“Cosa posso fare per lei?”

“Starle vicina. In silenzio”.

“Non devo sforzarmi troppo. Letizia non parla affatto”.

 

Capitolo 27

Sulla tenerezza

 

Milano era grigia, come suo solito.

Letizia ed Enzo erano neri, come sempre nelle ultime settimane.

Poco.

Radio e Kemio erano state poco generose.

Letizia sentiva che il fratello se ne stava andando.

Velocemente.

Parlava poco, ma le sue budella erano contorte.

Che rabbia!

Una rabbia infinita, contro tutto e tutti.

Dormiva poco.

Mangiava meno.

E pareva risorgere solo quando era vicina al fratello.

Voleva regalargli forza e ottimismo.

Quello la guardava e si inteneriva.

È brutto pensare di dover andare via presto, troppo presto.

Ma sua sorella lo inteneriva.

Voleva quasi consolarla.

E le indicava il lettore CD.

“Là”.

Silenzio.

“Fammi andare in compagnia di Maria Callas”.

Rabbia.

“Io sono più importante di Maria Callas!”

Tenerezza.

“Certo, sorellina mia. Ma quando non potrò più vederti, come potrai farmi

compagnia?”

Silenzio.

“Convinta? Regalami un Carmine. Lo ascolterò, lo fisserò nelle mie orecchie.

E lo porterò via con me”.

Rabbia.

“Verrò io con te!”

Tenerezza.

“Certo, sorellina mia. Ma quando non potrò più sentirti, come potrai farmi

compagnia?”

Letizia si era chiusa ancor più del solito.

Comprensibilmente.

E gli amici a cosa servono?

A soccorrere le persone care.

Anche Maria Callas.

Già.

Maria Callas piaceva a Letizia.

E piaceva a suo fratello.

Ma il canto lirico non bastava.

Bisognava fare qualcosa d’altro.

Da settimane Letizia non usciva dalla stanza del fratello.

Enzo ne era preoccupato e ne aveva parlato con Caterina.

E all’amica aveva confidato di aver provato più volte a convincere Letizia di

concedersi una pausa.

Inutilmente.

Ma Caterina ebbe una buona idea e il giorno dopo attuarono uno stratagemma.

Caterina aveva chiamato Letizia, ricordandole di un invito a cena.

“Non ne sapevo nulla” – le aveva risposto Letizia.

“Mi dispiace. Ci sarà stato un equivoco con Enzo. Avrò certamente capito

male io”.

“Forse Enzo ha dimenticato di dirmelo…”

“Può essere… Ma non fartene un problema”.

“Come no?”

“Non fartene un cruccio”.

“Capisco quanto tempo hai dovuto dedicare…”

“Non preoccupartene. Davvero, non preoccupartene”.

Enzo era vicino alla ragazza, a recitare la parte dello smemorato.

“Enzo, che facciamo?”

“Caterina è una cara amica. Non c’è problema. Se non ti senti, non andremo.

Resteremo a casa”.

“Non vorrei lasciare solo mio fratello”.

“In realtà non è solo, come vedi. Comunque va bene. Resteremo a casa”.

“Possiamo, almeno, non fare tardi?”

“Certo”.

Non avevano saputo inventare di meglio, ma lo stratagemma aveva funzionato.

“Brava Caterina. Sei stata grande!”

“Le servirà”.

“Ne sono convinto. Non mette il naso fuori casa da tempo”.

“Se almeno questo potesse essere utile…”

“Al contrario. Fa male a lei e fa male al fratello”.

“Se non ne fossimo stati convinti non avremmo concertato… l’equivoco”.

“Certamente”.

Per una sera Letizia poté così riscoprire che fuori da casa sua il mondo

esisteva ancora.

Poco importava, a tutti, se la cena fosse prelibata o meno.

Importava solamente che Letizia riscoprisse che, fuori dalla stanza del fratello,

la Terra continuava la propria corsa.

E poi la cena era davvero prelibata…

Fu una bella serata.

Ma durò poco.

Troppo poco…

Una sosta.

Una pausa.

Un momento di calma.

Poi, il maestrale ricominciò a urlare.

E si alzò nuovamente il mare

Anzi.

L’Oceano.

Presto!

Bisognava andare al di là dell’oceano.

 

Capitolo 28

Sul Silenzio

 

Il Giappone era lontano.

Caterina avrebbe voluto visitarlo.

Da sempre.

Adesso era lì, ma non avrebbe avuto tempo di visitarlo.

Avevano poco tempo a disposizione.

Appena il tempo di trovare la tossina.

Quella che attacca le cellule cancerogene.

Lei.

Quella che doveva mettere a tacere per sempre il maledetto tumore.

Per potere gridare al vento:

resta pure, se vuoi,

ma stattene in silenzio

Non rompere più!

Prima la speranza era lontana da loro.

Avevano volato tante ore per averla fra le mani.

E adesso era lì.

Poco distante.

“I giapponesi ne hanno dimostrato l’efficacia. Il blocco totale della crescita

del tumore, capisci!”

“Sì, ma nei topi…”

“Caterina, capisco che tu debba aiutarmi a stare con i piedi a terra”.

“Quando una persona cara ha bisogno di noi, ci attacchiamo a qualsiasi

speranza”.

“Lo so. Dici bene. E forse il mio più nascosto desiderio è quello di dare una

speranza anche a lui”.

“Giusto. La speranza aiuta certamente il malato. Senza speranza il fratello

di Letizia si lascerebbe andare. Non opporrebbe più alcuna resistenza al

male”.

“E lui sa che siamo qui per questo. Non so come ringraziarti per essere

venuta… È stato un gesto…”

Enzo ebbe un attimo di pausa, durante il quale raccolse una piccola lacrima.

“Non ho parole giuste per descriverlo. E devo ringraziare anche Lorenzo…”

“Lorenzo sa che da sempre avrei voluto visitare il Giappone. Questo paese

affascinante!”

“E io mi sento in colpa. Farti venire fin qui solo per cercare una tossina!”

Il telefonino squillò.

“Letizia, dimmi pure”.

“Mio fratello è angosciato per la caduta dei capelli. Si è guardato allo specchio

e sta piangendo”.

“Per la miseria… Non riesci a quietarlo?”

“No, non ci riesco”.

“Ascoltami, metti il viva voce”.

“Okay”.

“Cognatino, mi senti?”

“Rispondo io per lui. Ti sente”.

“Tranquillo. Abbiamo fatto tante ore di volo per portarti la medicina giusta.

Altro che caduta di capelli. Ti faremo cadere tutte le cellule tumorali”.

Dall’altro capo del telefonino silenzio.

“Tranquillo, i capelli cadono solo per l’effetto della chemioterapia.

Potrebbero ricrescerti già prima della fine del ciclo. Magari saranno più

ricci, leggermente diversi nel colore. E magari sottili, come quelli dei neonati.

Vedrai, sarai di nuovo folto. Come prima”.

Dall’altro capo del telefonino silenzio.

“È tutta colpa della cheratina. Ma ne trarrai anche un vantaggio: potrai evitare

di depilarti nel corpo”.

Neanche la battuta sortì l’effetto sperato.

Silenzio.

Manco a farlo apposta, la linea cadde e la comunicazione si interruppe.

Appena un attimo dopo.

Si spezzò…

 

Capitolo 29

Sull’ira di Sugawara

 

A Kyoto c’era tanto da vedere, ma poco tempo per farlo.

Solo per caso, e per fortuna di Caterina, l’anelata tossina veniva venduta a

non molta distanza dal santuario Kitano.

Con il suo splendido giardino.

Quanto erano stati pazienti e accurati gli shintoisti di Kyoto nella scelta degli

alberi da piantarvi!

Serenità…

Ogni pianta doveva sprigionare serenità.

La quiete dei colori.

Splendidi!

E dare pace.

Tanta era stata l’ira funesta.

Ogni ume, dunque, doveva contribuire a placarla.

Con i suoi arbusti multi colorati.

Con i suoi fiori bianchi della prima parte dell’anno.

Con i suoi frutti gialli, pitturati dalle piccole sfumature rosse, quando le piogge

arrivavano a gonfiare i fiumi e i laghi.

Pace, pace.

Altrimenti Sugawara non avrebbe più steso i suoi versi.

Era davvero molto adirato Sugawara Michizane.

Sapeva di essere innocente, ma doveva morire.

Lontano.

In esilio.

Morì sapendo di essere innocente.

Non credettero alle sue parole.

Non credettero ai suoi versi.

Non dovevano credere.

Doveva morire.

Doveva morire, lontano.

In esilio.

Scriva pure, ma muoia.

Da vivo è colpevole.

Da morto è innocente.

Che bella Giustizia!

Quando non poté più leggere i propri versi, Sugawara divenne innocente.

Miracolo!

E adesso che è innocente, per farci perdonare, trasformiamolo in divinità.

Erigiamogli il santuario Kitano.

E chiediamogli perdono.

E diamogli pace.

Ogni tipo di ume.

Tutte le ume che vuole.

Pace.

Plachiamo l’ira di Sugawara.

Dimentichi l’ingiustizia della Giustizia.

Sugawara era morto.

Ma adesso era in pace.

 

Capitolo 30

Grazie, Maria Callas

 

Si spezzò.

Niente pace.

La tossina venuta da lontano non ebbe nemmeno la possibilità di tentare di

portare la pace.

L’altare era adorno di fiori.

La bara pure.

Niente poteva dare pace.

Solo le lacrime avevano diritto di esistere.

Il fratello di Letizia, invece, non aveva più il diritto di esistere.

Lei sì.

Per punizione.

Doveva soffrire, ma non lo dava a intendere.

Lei lì.

Poggiata sulla bara del fratello.

L’orecchio attento.

Non sento, non sento.

Porca miseria!

Mi senti ancora?

Maledizione!

Il dolore ammala la mia anima…

Sono come una nave che naviga, persa nel buio del mare.

Qua, intorno, sento solo un acre odore, di incenso.

Fino a qual punto posso lacerarmi?

Mi senti ancora?

Ho bisogno di un’ancora…

Non puoi non sentirmi!

Fino a qual punto devo espiare?

Sei qui.

Scolpito nelle mie lacrime.

Non muoverti!

Potrebbero scivolare più svelte.

Sì, io ti sento.

Sento il battere delle tue ali…

Lo so.

Stai volando via!

Sorte crudele.

Perché giusto a me, tale sventura?

Sì, lo so.

Ma fino a qual punto devo espiare?

Sorte crudele.

Non muoverti!

Le mie lacrime potrebbero scivolare, più svelte.

Letizia aveva deciso.

Al funerale del fratello cantava Maria Callas.

E tutti a fingere di ascoltarla.

Gli occhi fissi sulla bara

E dietro a lei l’altare

Gli altari.

Cosa non accade intorno a un altare?

Di tutto…

Lacrime e sorrisi.

Dolori e gioie.

Tutti lì.

Intorno a un altare.

Intorno a un altare muta solo il profumo dei fiori.

Il profumo dei fiori e dei sentimenti.

 

Capitolo 31

Sulle risate

 

L’altare era adorno di fiori.

E c’era tanta felicità.

Tanti canti.

Tanti ragazzi.

Anche quelli della festa dei ragazzi dagli occhi a mandorla.

Cantavano più degli altri.

Intonati.

A tempo.

“Dai lutti alle gioie, dalle gioie ai lutti”.

“La vita è così, Lorenzo… È uno scherzo incredibile al quale siamo obbligati

a partecipare. Senza esclusioni”.

“Pochi mesi fa celebravamo un funerale. Oggi siamo alla festa del tuo matrimonio…”

“Non so se tutti hanno la fortuna che ho avuto io”.

“Merito, non fortuna”.

“È troppo bella per me. Non credo di meritare tanta fortuna”.

“Enzo, la bellezza esteriore non vale più di quella che si ha dentro”.

“Lorenzo, tu vuoi solo consolarmi. Mi stai dando del brutto con dolcezza”.

Risate.

“Caterina, ascolta cosa predica il tuo Lorenzo”.

“Cosa dice il guru?”

“Dice che la mia bellezza interiore vale quanto la bellezza di Letizia!”

“Non mi pare che sbagli”.

“Anche tu vuoi consolarmi. Il brutto anatroccolo e la bella regina. Ecco…”

“Dai…”

“Sì, la bella regina è cattiva, il brutto anatroccolo è buono”.

“Siamo al tuo matrimonio o a una parata di cartoni animati?”

Risate.

“Dov’è la tua Letizia?”

“Là in fondo. La vedi?”

“Sì, speriamo che la regina ci degni d’un guardo”.

“Il Re glielo imporrà. Con la forza della sua spada”.

Risate.

“Signora, vuole ballare con me?”

“Accipicchia…

Certo signorino mio. Balliamo!”

Ecco un corteggiatore tenace.

Non l’aveva dimenticata. Chissà quante volte l’aveva sognata.

Era rimasta sua.

Solo sua.

“Lorenzo, dovrai pur diventare geloso!”

“Ammirato, non geloso”.

“E se te la porta via?”

“Meglio lui che Brad Pitt”.

“Dici?”

“Sì, loro sono migliori di tutti noi. Forse ogni diverso è migliore di noi”.

“Dici?”

“Sì, lo dico”.

“Allora perché non ti cerchi una brutta e anchilosata strega? Anche le diverse

sono migliori di noi, no?”

“Forse aveva ragione Pirandello. Lui sì che aveva capito. La bellezza e i

denari non sono gli dei buoni dell’Olimpo. Dov’è la tua Letizia?”

“Là in fondo. La vedi?”

“Forse è meglio che andiamo noi da lei”.

 

Capitolo 32

Su chi vuole educare gli altri

 

La festa era oramai un ricordo.

E la quotidianità aveva ripreso a dominare.

Fra l’altro imponendo di tornare al lavoro.

Qualche settimana dopo la radio aveva dato una raccapricciante notizia.

Era stata arrestata una giovane ragazza, accusata dello spietato omicidio di

una bambina.

“Qualcosa mi fa pensare che quella ragazza la conosceremo presto”.

“Con che animo l’approcceresti?”

“Non è facile incontrare persone accusate di tanta efferatezza. È difficile

mantenere completamente l’ autocontrollo. Ma con il tempo si impara a

farlo. In ogni caso, dentro qualcosa si muove. Comunque”.

“Immagino quanto sia difficile”.

“Lo è”.

“Chissà. Magari potrà esserti utile la presenza di Letizia”.

“Avere un’altra professionista al fianco aiuta, certamente”.

“Pur con il limite di essere solo una volontaria”.

“L’unica diversità consiste nel fatto che lei non può esprimersi in vece della

titolare. Per il resto anche lei è una educatrice”.

“Non le è stato difficile ottenere l’autorizzazione…”

“Non essere anche tu di lingua biforcuta”.

“Voleva essere una mera constatazione”.

“So bene a cosa ti riferisci”.

“Chi te ne ha parlato?”

“Enzo”.

“Ah, proprio lui”.

“Si, me ne ha parlato qualche giorno fa”.

“Tranquillo?”

“Sì, tranquillo”.

“Qualche dubbio sarebbe legittimo, non ti pare?”

“Quell’uomo è oramai una fiamma spenta”.

“Sempre disponibile, comunque…”

“Si può rimanere amici con i propri ex, no?”

“Talvolta gli ex sono portati a sperare. Ad augurarsi segretamente che il

fuoco possa riaccendersi. Magari sforzandosi di apparire distaccati,

ineccepibili”.

“Se Letizia ne ha parlato chiaramente ad Enzo, allora non c’è da

preoccuparsi”.

“Per quanto ne sappia io gliene ha parlato a cose fatte”.

“Enzo non me lo ha raccontato così”.

“Vedi? Non mi pare il massimo della sincerità. Mi ricorda quel tizio che si

vantava di essere democratico perché comunicava ai propri collaboratori le

proprie decisioni. Dopo averle prese”.

Un sorriso ironico di Caterina.

“Pensava davvero che quella fosse la vera democrazia?”

“Sì, ne era proprio convinto”.

“Faceva finta!

Come tanti nostri politici…

Sì. Gli inventori delle Vere falsità e delle Falsità vere”.

“A me la presenza di Letizia non da alcun fastidio”.

“Per amicizia di Enzo…”

“Sì. In verità solo per amicizia di Enzo”.

“Ricordo la tua prima impressione su Letizia e ne convengo. C’è qualcosa

che non mi piace di quella donna”.

“Le cose sono molto cambiate da allora. È tutto diverso”.

“Si sono sposati. Questa è l’unica differenza che riesco a cogliere”.

“Non è poca cosa. Allora Letizia aveva ancora da fare… brain storming”.

“Le auguro che il detersivo possa essersi rivelato buono”.

Parlavano di Letizia.

Ma non era in arrivo una belluina?

Una ragazzina esile.

Minuta nel corpo quanto nella psiche.

Di poche parole, ma molto determinata.

Si vedeva chiaramente come poco o nulla avesse avuto dal mondo.

Era persino difficile comprendere adeguatamente cosa dicesse.

Spesso bisognava chiederle di ripetere le frasi.

Il suo dialetto era stretto e marcato.

Stranamente ridacchiava tanto.

Anche quando non pareva essercene alcun motivo.

Chiedeva poco.

Sembrava interessata solo a sapere quando sarebbe tornata a casa.

Ma in quale casa?

Il procuratore era stato inflessibile: concorso in omicidio, associazione finalizzata

alla produzione di materiale video pornografico, occultamento di

cadavere.

Neanche un così grande macigno sembrava preoccuparla.

“Quando torno a casa?”

Qualcuno provava a dirle che era improbabile che lei facesse presto rientro

a casa.

E lei rispondeva con il suo sorrisetto sarcastico.

“Sarà mica scema?”

Se lo chiesero in molti.

La preoccupazione più grande, all’inizio, era questa:

come avrebbero reagito le altre detenute?

Bisognava proteggerla.

“Quando torno a casa?”

Mentre tutti si affannavano a pensare come risolvere il problema della sua

convivenza con le altre, lei era pronta con la stessa domanda di sempre.

Caterina e Letizia si davano un gran da fare.

Provavano a interessarla con mille argomenti.

Le proponevano anche attività rilassanti.

Le portavano tante cose da leggere.

“Quando torno a casa?”

E poi il sorriso sarcastico.

Di altro non si poteva parlare.

Di sé e della propria famiglia non voleva proprio si discutesse.

Delle accuse, poi…

No, non era successo niente.

Era solamente morta una bambina dodicenne.

Massacrata di botte.

Buttata come un sacco di patate marce in mezzo ai rifiuti di una discarica.

Non era successo niente.

Ne aveva solo sentito parlare in paese.

L’avevano trovata dopo tanto tempo.

Oramai indegna del suo corpicino da bambina.

Martoriata.

Il Procuratore:

“Cosa pensi potesse fare quella povera bambina vicino a una discarica?”

“Forse era andata lì per giocare…”

“La discarica è lontana dal paese!”

“Una bambina non si stanca a camminare”.

“Non ha paura ad andarci da sola?”

“Io non ho paura di niente”.

“Non si parla di te”.

Il procuratore era molto incavolato.

L’intervento dei RIS era stato disposto da tempo, ma quando andarono a

fare i rilievi nella stalla era troppo tardi.

Niente.

Nulla da rilevare.

Eppure chi l’aveva vista l’ultima volta scorrazzare tranquillamente in bicicletta

l’aveva vista riprendere fiato giusto vicino a una stalla.

Potessero parlare le mucche!

Niente.

Nulla da rilevare.

Ma il procuratore era convinto.

L’avevano attratta lì.

Le avevano offeso la gioventù.

Da lì avevano trasportato la sua umiliazione alla discarica.

Nel posto giusto.

Quello che meritano gli spioni.

Animali, c’è qualcosa per voi.

Deturpato, ma fresco.

Animali feroci.

Era rimasta lì giorni e giorni.

Per ben due settimane.

Eppure neanche gli animali avevano voluto infierire.

Era stata già fin troppo severa la punizione.

Punizione di cosa, poi?

Aveva giusto l’ età per giocare, prima di diventare grande e sporca.

E quando una bambina gioca, ride.

Una bambina gioca e ride.

Lei, invece… guardava gli altri.

Li vedeva giocare e piangeva.

Si, li vedeva giocare.

E vedeva altre sue coetanee che piangevano.

Per diventare attrici si deve essere brave, non solo a piangere.

Le sue amiche, invece, avevano imparato solo a piangere.

E stavano addestrando pure lei a piangere.

Non era arrivato ancora il momento, ma pure lei avrebbe giocato.

E pianto.

Strano gioco!

I bambini giocano e ridono.

Tornano a casa e sognano di tornare a giocare.

“Quanto mi sono divertita, mamma!”

“È tardi. Devi andare a nanna”.

“Sì, così potrò sognare di continuare a giocare, mamma”.

“Buona notte”.

“Buona notte, mamma”.

Piangevano.

Le sue amiche, invece, piangevano.

E pure lei avrebbe pianto.

Sarebbe arrivato il suo tempo.

Rozzi, quei registi.

I loro film non avevano alcunché da far ricordare ai posteri.

La paga?

Dieci euro e mille minacce.

No!

Non valgono tutte quelle lacrime.

Niente vale tutte quelle lacrime.

Lei voleva giocare, ridendo.

Voleva divertirsi.

Voleva che ridessero anche le sue amiche.

Voleva che si divertissero anche le sue amiche.

La mamma!

L’avrebbe aiutata la mamma…

Certo!

Appena la mamma lo saprà, tutte torneranno a ridere.

A divertirsi.

Non piangeranno più.

Che bello!

Non piangeranno più.

Oppure piangerà anche la mamma…

I mesi passavano.

La ragazza non cambiava.

Il procuratore era sempre più adirato.

In paese avevano scordato tutto.

Non ricordavano di bambine che avevano pianto.

Non ricordavano di registi in cerca di giovani attrici.

Nessuno aveva mai creato problemi di sorta alle proprie bambine.

Non ricordavano?

No!

Non avevano mai saputo niente…

Perché era morta quella piccola innocente?

Forse si era avventurata in qualche pericolosa avventura.

Forse aveva voluto sapere quali fate si nascondevano tra i rifiuti della

discarica.

Ecco.

Proprio così…

Aveva troppa voglia di giocare!

Doveva essere più prudente, diamine.

Tutta colpa dei suoi genitori!

Non le avevano insegnato che le fate non si nascondono fra i rifiuti di una

discarica?

Loro sono i veri colpevoli.

I genitori della bambina…

Noi, invece…

Noi abbiamo insegnato alle nostre bambine che non si fanno giochi pericolosi.

Noi siamo stati più bravi di quei genitori.

Ecco.

Loro sono i veri colpevoli.

I genitori della bambina…

E Il procuratore era sempre più adirato. Perché mai le prove erano state

cercate in ritardo?

Perché nessuno sentiva il grido di dolore di tante innocenti?

Educatrici, ditemi.

Non vi racconta nulla?

No.

Di cosa parla?

Chiede solo quando tornerà a casa.

Mai!

Non la farò tornare mai a casa.

Almeno finché non ci dice la verità.

Intanto la condanno. Sì, la condanno.

La Giustizia esiste…

Non può prendersene beffa una piccola ragazza di paese.

Una che a mala pena parla in italiano.

Sono poche le prove?

Intanto la condanno.

Di cosa parla, adesso che è stata condannata?

Chiede solo quando tornerà a casa.

Non vi racconta nulla?

No.

“Letizia ci sa fare”.

“Sì, direttrice”.

“Ha legato bene con la ragazza”.

“Le dedica molto tempo”.

“Certo…

So bene che tu hai molte altre cose da fare, Caterina”.

“I casi da discutere sono tanti, uno più complicato dell’altro”.

“Lo so”.

“Il lavoro di Letizia è utile”.

“Certo”.

“Mi pare che con lei si apra almeno un po’”.

“Sì, Letizia così dice”.

“Dobbiamo fidarci. Le ho detto io di parlare con la ragazza. Da sole, quando

non vi sono altri a sentire”.

“Non lo sapevo”.

“Credo che così la ragazza si senta più libera, meno condizionata”.

“Condizionata certamente lo è.

“È da chi, secondo te?”

“Dalla mafia del suo paese”.

“Addirittura, la mafia!”

“Scusi, direttrice. Si è mai chiesta come mai tutto il paese taccia?”

“Senso di vergogna. Sentono un forte senso di vergogna”.

“Vergogna di cosa?”

“La stampa e le televisioni hanno buttato un’ombra sull’intero paese…”

“La stampa e le televisioni non sempre giocano pulito. Ma cosa c’entrano

con quello che è accaduto?”

“Si tratta di un processo senza prove. Detto fra noi: ti è parsa giusta la

condanna?”

“Al processo lei ha mandato Letizia. Non so bene come sia andata”.

“La conclusione è quella che conta. L’hanno condannata, a parer mio ingiustamente.

Non hanno prove”.

“Io so solo che una povera bambina è stata massacrata e buttata fra i rifiuti. Io

so solo che tante altre bambine hanno subito violenze sessuali. Questo lo so”.

“Lo sai?”

“Sì, lo so”.

“Questo è solo quello che si dice…”

“Lo dicono i tutori dell’ordine, mica le cornacchie”.

“Magari solo per darsi importanza. Sai, la condanna della ragazza può comportare

la promozione di chi ha condotto le indagini…”

“Pensa che un ufficiale possa inventarsi la storia dei film pedopornografici

solo per averne una promozione?”

“Fosse la prima volta!”

“Non mi sarei aspettata da lei una affermazione così…”

“Caterina, finiscila con il tuo idealismo. Non è più il tempo. Non hai ancora

capito come funziona questo mondo?”

 

Capitolo 33

Sull’Amicizia

 

“Stento a credere”.

“Anch’io”.

“Ma che rapporto c’è fra quell’uomo e la direttrice?”

“Non lo so. Ancora non lo so”.

“Te lo ha detto con tanta… semplicità?”

“Sì, Lorenzo. Quasi come fosse normale”.

“C’è qualcosa che non va!”

“Cosa pensi?”

“Un uomo, del quale non sappiamo nulla, fiamma spenta di Letizia, va a

parlare di lei con la direttrice.

Ed Enzo, marito di Letizia, ti da’ questa notizia con tanta semplicità!”

“Proprio così.

“Gli hai chiesto quale fosse l’interesse di quell’uomo?”

“Non mi sembrava il caso…”

“Neanche a lui, immagino”.

“Infatti”.

“Scusami, ma credo faccia il nescio”.

“Enzo è sempre stato un mio amico fidato”.

“A questo punto mi pare si possa dire diversamente: tu sei sempre stata una

sua amica fidata”.

“Cosa pensi stia accadendo?”

“Francamente non lo so. Certamente, però, questo non è il comportamento

giusto fra due amici. Scusami, di un amico”.

“Debbo convenire che non è il solito Enzo”.

“Forse sbaglio. Ma Enzo mi pare nelle grinfie di Letizia”.

“Chissà che tu non abbia regione”.

“Oramai Letizia fa di lui quello che vuole”.

“Ma perché?”

“Penso che abbia un grande senso di inferiorità nei confronti di lei”.

“In cosa?”

“Ricordi? Ci ha detto che la trovava troppo bella per lui. Oggi aggiungerei

che mi pare la trovi anche molto più intelligente”.

“Francamente non mi pare”.

“È importante quello che vive lui, non quello che pensiamo noi”.

“Una persona, chiunque essa sia, non dovrebbe farsi… ingabbiare così”.

“Esistono tante persone, l’una diversa dall’altra”.

“Ma Enzo è un amico!”

“Esistono tanti amici, gli uni diversi dagli altri”.

“È stato l’amico di tutta una vita!”

“La Corte di Appello desidera una nostra nota sulla ragazza”.

“Su cosa?”

“Su come vive la sua carcerazione”.

“Lo abbiamo detto molte volte…”

La direttrice interruppe Caterina.

“Si tratta di un aggiornamento”.

“Va bene. Ne rifaremo un’altra. Una copia di tante altre”.

“Io credo, invece, che sia arrivato il tempo di fare una nota diversa dalla

altre”.

“Cosa c’è da dire di nuovo?”

“È passato molto tempo… La ragazza può solo abbrutirsi rimanendo qui

dentro”.

“Non siamo in una clinica di chirurgia estetica”.

La disponibilità della direttrice a condurre una conversazione serena subì

una brusca frenata.

Imprevista.

“Tu credi troppo nella Giustizia e poco nell’uomo!”

“È strano sentirselo dire all’interno di uno dei santuari della Giustizia”.

“Io credo nell’uomo. Nelle sue capacità di migliorare. Di andare oltre gli

errori commessi”.

“In altri casi non ho colto tanta fede”.

Ora la conversazione diventava assai fastidiosa, per la direttrice.

“Vuol dire che in questo caso credo nella capacità della ragazza di migliorare

e di andare oltre gli errori commessi”.

“Non ha mai parlato di errori commessi”.

“Mi pare di capire che tu non voglia scrivere quello che io penso…”

“Non credo che sia corrispondente alla realtà”.

“Non c’è problema alcuno. Scriverò io la nota, insieme a Letizia. Ti saluto,

Caterina. Ho altre cose da fare”.

Ecco fatto.

Letizia aveva stretto amicizia con la Direttrice.

La Direttrice aveva stretto amicizia con Letizia.

E la vecchia amica?

Chi?

Quale amica?

“Lorenzo, domani non potremo andare al mare”.

“Come mai? Aspettavamo la domenica per avere un po’ di tranquillità”.

“L’aspettavo anch’io, come te”.

“Allora?”

“Domani c’è la messa”.

“Non si tratta di una novità”.

“È vero. Ma una novità c’è”

“Quale?”

“Parteciperà alla messa anche il Presidente della Corte d’Appello”.

“Il Presidente della Corte d’Appello?”

“Già”.

“Non mi hai mai detto che la vostra piccola chiesa ospita… tanta eccellenza”.

“Infatti. Non era mai successo prima”.

“Una illuminazione paolina?”

“Damasco è lontana, molto lontana”.

“Ho capito bene?”

“Hai capito benissimo… Sapessi con quanta spavalderia me lo hanno detto!

Sì, la chiamerei spavalderia. Stamani”.

“Chi te lo ha detto?”

“La direttrice e Letizia. Insieme. E la direttrice aveva appena finito un lungo

colloquio con il Presidente della Corte d’Appello”.

“Non mi pare usuale neanche la presenza di quest’ultimo nella stanza della

direttrice”.

“Non si era mai visto prima”.

“Figurati se un Presidente di Corte d’Appello si scomoda dalla propria poltrona…”

“È sempre stata lei ad andarlo a trovare, quando ne ha avuto bisogno”.

“Si vede che stavolta è lui che ha bisogno di lei…”

“Sembrerebbe”.

“E per prima ne ha parlato con Letizia, no?”

“Certo. Avessi visto quanta luce negli occhi di Letizia!”

“Pare che Letizia si sia nuovamente innamorata…”

“Sono un solo corpo e una sola anima”.

“Stavolta non saremo invitati a un nuovo matrimonio…”

“Credo di no”.

“Andiamo al mare, dunque!”.

“Sì! Hai ragione. Andiamo al mare. Loro vadano nel paese che vogliono…”

 

Capitolo 34

Dimettiti!

 

“Ho dato le dimissioni. Non posso più lavorare lì. Non voglio”.

“Loro hanno dato le dimissioni, non tu”.

“Lo chiamano il Ministero della Giustizia!”

“Te lo ripeto: loro hanno dato le dimissioni. Il Carnevale è finito”.

“Avresti dovuto vederli! Tutti insieme. Appassionatamente!”

“Certo, ognuno doveva testimoniare la propria bontà”.

“La notizia le è stata data personalmente dal presidente. Poi la direttrice ha

tessuto le lodi della ragazza”.

“Sono sicuro: manca qualcosa”.

“Non sbagli. Letizia… Dovevi vederla! Sembrava la sorella…

Aveva gli occhi lucidi!”

“Se non ricordo male, non era così emozionata al suo matrimonio…”

“Ricordi bene… Dovevi vederla! Ha allungato la sua mano sulla spalla della

ragazza, strapazzandogliela amorevolmente”.

“Le avrà ricordato come sarebbe stato bello vivere libera, come prima, no?”.

“Si, Letizia sembrava più commossa della ragazza”.

“Tranquilla, era tutta una recita”.

“Con un finale imprevedibile”.

“Nulla mi pare imprevedibile, oramai”

“Letizia ha accompagnato la ragazza al cancello”.

“Non avevo dubbi”.

“Sai chi l’aspettava?”

“Posso pensare tutto il male del mondo”.

“Fallo pure. Davanti al cancello c’era il padre della ragazza, tanti brutti ceffi

e una sorpresa finale”.

“Brutti ceffi?”

“Si, alcuni loschi personaggi, conosciuti come mafiosi del paese”.

“E la sorpresa?”

“La stretta di mano fra Letizia e la sua fiamma spenta”.

“Ancora lui!”

“Sì!”

Il segreto del miserabile – testo definitivo.pmd 162 05/06/2013, 9.48

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“Con una bella compagnia…”

“Sì”.

“E con la benedizione del Procuratore…”

“Sì”.

“Un vero capolavoro!”

“Un’opera d’arte dinanzi la quale ho scritto le mie dimissioni”.

“Loro hanno dato le dimissioni, non tu”.

“Credo tu abbia ragione…”

 

Capitolo 35

Sulla bellezza

 

Il giorno del Natale stava per arrivare.

Una buona cena.

L’ occasione giusta per riunire gli amici.

“Tranquilla, Caterina. Fuori dai monasteri si prega meglio” – disse don Vincenzo,

sorseggiando il solito buon nero d’Avola.

“Fuori dalla giustizia si fa vera Giustizia” – esclamò il Saggio, brindando

insieme a don Vincenzo.

Anche Lorenzo accettò l’invito.

“Preoccupiamoci quando qualcuno grida troppo forte la propria fede. Vuol

dire che è falso”.

Lorenzo tirò giù il suo bicchiere e continuò:

“Chi ha una vera fede, chi crede veramente in qualcosa, non ha bisogno di

esibirlo.

Agisce in silenzio. Fidiamoci di chi opera nell’ombra. Diffidiamo di chi vuole

le prime pagine dei giornali”.

Caterina era un po’ frastornata: “Allora continueremo a credere?”

Don Vincenzo:

“Certo, Caterina. Continueremo a credere e ad agire. In silenzio”.

“Faccio una gran fatica a riprendermi dalla delusione”.

“La vita è bella, ma spesso è faticosa”.

“Come si fa a credere ancora nell’amicizia?”

Il Saggio:

“Il tradimento di una amicizia fa un gran male”.

“Certo. So che in ogni caso ho sbagliato io… Ma non riesco ancora a capacitarmi

di cosa possa accaduto”.

“Ho composto una modesta poesia per te”.

“Grazie, Saggio. Allora un amico esiste ancora?”

Il Saggio le sorrise e si mise a declamare:

“O sirena,

o mio sogno,

bellezza di un paesaggio fantastico,

incantatrice.

Conservi la purezza dell’oceano

e la melodia galleggia nei tuoi occhi,

splendida ladra d’ogni sentimento.

Bella sei tanto

da far naufragar

di schianto,

a suggerir di sordità.

Sirena o tritone tu sia,

ogni stagione

fai traversar”.

Caterina era commossa.

Sembrava che il Saggio avesse preparato la risposta alla sua domanda.

“È così pericolosa, dunque, la bellezza?”

Lorenzo: “È uno dei nemici dell’umanità”.

Caterina: “Perché calpestare i sentimenti? Perché cancellare ogni traccia di

nobiltà dall’animo? Si può ammirare la bellezza senza perdersi nella

meschineria”.

Il Saggio: “La bellezza ci fa innamorare. Perciò ci rende ciechi e sordi”.

“Ma una persona che vale, che ho ammirato per tanto tempo, può diventare

così piccola? Solo per paura di perdere la bellezza?”

Lorenzo: “Ha cancellato tutto dalla propria memoria Di colpo.

Nonostante avesse ricevuto tanto. Ed è rimasto solo lo strumento di una

bella arpia”.

Caterina: “Pensi che ne sia consapevole?”

“Certamente. Solo all’inizio poteva non capire”.

“Non avevo capito niente di lui, dunque!”

“No, non fartene una colpa. Prima Letizia non c’era”.

Don Vincenzo: “Potete dare tutta la colpa alla donna?”

Il Saggio: “Non riusciamo a capire l’uomo se non all’interno della sua realtà.

Rischiamo, altrimenti, di vedere le sue azioni come casuali, estranee e anomale”.

Caterina: “Io continuo a non capire né l’una né l’altro. Non accetto i loro

comportamenti”.

Il Saggio: “Talvolta i sentimenti privano l’uomo della verità”.

Caterina: “La verità deve rimanere tale, anche quando ci si innamora”.

Lorenzo: “Goya ci ricorda l’esistenza di Saturno, il dio degli inferi, dell’oscurità,

del non-senso”.

Per quanto si sforzasse di ascoltare gli altri, Caterina aveva qualcosa che le

bruciava dentro.

“Un uomo, o una donna, non devono ridursi così!”

Lorenzo: “Ricorda la poesia del Saggio sulle sirene…”

“L’amore non deve umiliare la persona”.

“Ma spesso la riduce come le etere: colte, raffinate, artiste, ma senza diritti.

L’unica funzione loro riconosciuta è quella di rendere felici l’altro”.

“E lei?”

“Una arrampicatrice senza scrupoli. Vuole arrivare in cima. Comunque e ad

ogni costo Non è la sola…”

“Esistono persone così?”

“Sì”.

“Questo mondo è brutto!”

Li interruppe il Saggio: “No, questo mondo non è solo brutto. È bello e brutto.

Sa essere a misura d’uomo e disumano”.

Caterina: “C’è solo dolore e ingiustizia”.

Il Saggio: “Sbagliamo a pensare che questo nostro mondo sia solo del dolore

e dell’ ingiustizia.

Così pensando non facciamo altro che convalidarne il dominio. Manteniamo

lo status quo”.

Lorenzo: “Non vedi quanta gente predica il bene e pratica il contrario?”

Don Vincenzo:

“I falsi profeti traggono vantaggi dalla loro professione di bontà, ma sanno di

essere solamente dei racconti fenici”.

Caterina: “La gente, però, crede nei racconti”.

“Sì, purtroppo”.

“Allora?”

Ancora una volta il Saggio: “Ben sappiamo come abbiamo creato falsi idoli

e illusori feticci. Il nostro caro mondo è un universo di falsi miti. A forza di

sentire falsità, magari inventate di sana pianta, ma bene architettate, la gente

finisce per riconoscerle come vere. Si convince che hanno un fondamento

di verità”.

Caterina: “È difficile cogliere la falsità e l’ingiustizia”.

“Eppure le muse esiodee dissero allora: sappiamo dire molte cose false che

sembrano vere e che, invece, non lo sono. Ma sappiamo anche proclamare

la verità, quando vogliamo”.

“Occorre esercitarsi per comprendere quando le muse hanno voglia di mentire

o di proclamare la verità!”

“Per capirle dobbiamo pensare ai tanti falsi valori che ci vengono proposti.

Esibiti come fossero naturali”.

Caterina batteva il piede sul pavimento, ritmicamente: “Sarebbe naturale

l’arrivismo, mentre si passa sul cadavere della bontà?”

Lorenzo: “Talvolta ci ritroviamo nel Medio Evo. Tutto ciò che non corrisponde

al comune sentire è bollato come errato. E peccaminoso.

Azioni spregevoli, ma coronate da successo, assurgono a modello da emulare”.

Caterina sbottò: “Non voglio rinunciare alle mie idee!

Pure se non mi portano alcun successo…”

Don Vincenzo: “Gesù non rinunziò, pure a costo di morire”.

Lorenzo: “Di eroi ne sono rimasti tanti, per fortuna”.

Caterina: “La storia ci insegna come spesso l’umanità sia sprofondata in

azioni barbariche e feroci. Magari nel momento stesso in cui si affermavano

solenni certezze. Pure in epoche di grande progresso. E allora il silenzio e la

meschinità sono stati desolanti”.

Il Saggio: “Il silenzio è dei meschini o dei prigionieri. Ma non solo di essi”.

Lorenzo: “O dei grandi”.

Caterina: “Cosa vuoi dire?

Capisco il perché del silenzio dei meschini e dei prigionieri. Il silenzio dei

grandi, invece?”

Lorenzo: “Voglio dire: è vero ciò che dice il Saggio. L’eroismo, qualche

volta, sta nell’ascoltare e nel tacere. Non nel parlare. O peggio nel gridare.

Eroi sono coloro che cedono, per apprendere. Coloro che rinunciano ad

affermare solenni ma incerte verità. E in quei casi il silenzio è più assordante

di un forte boato”.

Don Vincenzo: “Gesù seppe parlare e seppe stare zitto”.

Caterina: “Ma parlava d’amore. E quando stava in silenzio pensava all’amore”.

Don Vincenzo: “Non vi è altra regola che cercare la verità e testimoniarla”.

Lorenzo: “Testimoniare che l’ imposizione, la conquista, l’appropriazione violenta

sono tutte inqualificabili ingiustizie”.

Don Vincenzo: “Testimoniare la Giustizia”.

Il Saggio: “Molti la affermano, ma non mettono in atto ciò che professano”.

Lorenzo: “Molti se ne fregiano, ma hanno bisogno di evadere dalla strana

prigione che essi stessi si sono creata.. Il professore di Giustizia viene a

essere imprigionato nella propria creazione. Ha solo la speranza della fuga”.

Il Saggio: “Come Dedalo. Il cui genio, però, riesce a trovare il modo di

superare anche se stesso: progetta di costruire le ali e fugge”.

Caterina: “Che falsità! Professare la Giustizia e fuggire da essa, quando si

vuole!”

“Quando fa comodo…”

“Tutto ciò è forse naturale?”

“No. Tutto ciò è frutto della storia. Della storia degli individui e dei loro

ambienti. Dei valori che si assumono come positivi in determinati contesti”.

“Nasciamo brutti, allora. Brutti e cattivi”.

“Nasciamo buoni e simpatici, ma anche iracondi e gelosi”.

“E la nostra razionalità?”

“Non siano solamente razionali. Abbiamo dentro di noi anche tante pulsioni

e tante passioni”.

“Le passioni dovrebbero sottomettersi alla razionalità, invece”.

Lorenzo: “Guarda il caso del tuo amico Enzo…”

Il Saggio: “Quanti si chiamano Enzo!”

Don Vincenzo: “Dobbiamo testimoniare la Giustizia”.

Lorenzo: “Non dimenticando, però, che molti sono osceni e crudeli. Fin quasi

al sadismo… Ignoranti e superstiziosi. Oltre che presuntuosi”.

Caterina: “Questo mondo è troppo difficile per me”.

Lorenzo: “Occorre essere realisti. Guardare in faccia le cose, così come

sono. Questo mondo, però, è bello per tutti. Anche per te”.

Don Vincenzo: “Tutto quello che esiste è anche per te”.

Il Saggio: “Ecco di cosa fregiarsi: di tutto quello che esiste anche per noi. Di

ciò che vuole semplicemente essere assieme a noi. E noi dobbiamo avere

grande rispetto per ciò che vuole semplicemente essere insieme a noi”.

Caterina: “Talvolta non capisco cosa vuole essere insieme a me”.

Il Saggio: “Prima di pensare a capire gli altri dobbiamo pensare a come

acchiappare noi stessi.

Attraversare le più oscure profondità della nostra anima. Per poterne

riemergere. Ricchi di nuova conoscenza”.

Caterina: “A me hanno insegnato delle cose certe”.

Lorenzo: “Spesso si tratta solamente del comune sentire, fatto passare per

normalità. Chi non sa, o non vuole, prendere parte al coro, ne viene

plebiscitariamente escluso”.

Caterina: “Molti dicono di agire per il bene comune”.

Lorenzo: “Non credere alle parole. Guarda i fatti”.

Caterina: “Le parole non contano nulla?”

Il Saggio: “Guarda cosa hanno fatto le dittature e molti dei potenti! Si sono

presentati quali Padri protettori della propria comunità. E invece erano dei

sadici. Dei sanguinari”.

Lorenzo: “E molti di loro sono stati amati dai sudditi”.

Il Saggio: “Ecco l’imbroglio delle parole”.

Foglie!

C’è bisogno di frutti maturi.

Per superare il gusto amaro

della paura del precipizio,

giusto quando,

a fatica,

siamo arrivate all’apice.

Avvizzite,

appesantite dall’inverno,

riscaldiamo i freddi e silenziosi semi.

Germoglio è d’obbligo,

al garrire delle rondini,

libere migranti.

Ridiamo calore ai fusti,

in primavera,

luce all’oscurità.

Di nuovo torniamo dalla terra alla chioma,

al tempo dell’apice.

 

Capitolo 36

Sul Tempo dell’apice

 

Il sopravanzare degli anni aveva piegato ancor più la schiena di Tano.

La sua andatura era sempre più lenta.

Il suo bastone sempre più incerto.

Ma non si arrendeva.

Il Guerriero non voleva vedere la fine.

Continuava a ciondolare per le vie del paese, tutto il giorno.

Ogni giorno.

E la sera c’era sempre l’amico giaciglio, troppo freddo ormai per le sue

ossa.

E parlava più lentamente.

Quasi sommessamente.

Come erano lontani gli anni dei suoi roboanti racconti. “Tre sono le forze

della Terra!

La taddarita,

la pitarra

e la cucca!”

“Cosa vuol dire?”

I più piccoli non capivano e domandavano ai grandi.

Ma anche gli adulti spesso non sapevano cosa Tano volesse dire.

“Cosa volete che significhi? Nulla!

Le sue parole non hanno significato”.

“È solo un povero vecchio che non sa più cosa dire…”

“Ma sono le stesse parole che usava da giovane!”

“Sì?”

“Certo. Le diceva già molti anni fa. Quando ancora le sue gambe erano

forti. E anche le braccia”.

“Beh, allora chiedete a qualcun altro”.

C’era anche chi si affannava a dare delle spiegazioni, tutte sballate.

“Parla degli animali che ha incontrato tutte le notti…”

“Sono le sue paure impersonificate…”

“Sono le tre donne che ha conosciuto…”

“No! Io ho conosciuto una sola donna. Una sola!”

“Non ti adirare, Tano”.

“Invece sì!”

“Non sanno quello che dicono…”

“Possono dir tutto quello che vogliono, ma non devono accostare nessuna

donna a Maria!”

“Tranquillo. Spiegherò tutto io. Intanto pensa a te. Non puoi più vivere

all’addiaccio. Devi trovare un giaciglio più comodo”.

“Non potete privarmi della libertà! Sono un uomo libero! Un letto serve solo

per morire…”

Urlava, Tano.

Ma urlava a se stesso, prima ancora che ad altri.

Urlava al cielo.

E fissava il suo sguardo in alto, quasi attendendo una risposta.

“La sera fa freddo…”

“Volete imprigionarmi?

Sono un uomo libero, io!”

“Tano, non siamo più ragazzini. Abbiamo bisogno di un tetto, di un letto,

di…”

E Tano reagiva, sgranando i grandi occhi.

Tentava quasi di brandire il suo vecchio e malconcio bastone.

Ma le forze erano ridotte al lumicino.

Riusciva appena a muoverlo da terra.

Molti erano angosciati per lui e volevano adoperarsi perché almeno negli

ultimi giorni della sua vita qualcuno avesse cura di lui, dentro un ospizio.

Era troppo vecchio e segnato nel fisico perché potesse continuare la sua

vita randagia.

Ma si trovavano davanti un muro.

Tano non voleva cedere.

“Non potete privarmi della libertà! Un letto serve solo per morire!”

E se ne andava.

Sempre più lentamente.

Quasi tremante sulle ginocchia.

Borbottando.

Una domenica mattina, però…

Sì.

Una domenica mattina.

D’inverno.

 

Capitolo 37

Sugli occhi grandi di una bambina

 

Annarita aveva due occhioni grandi.

Grandi e blu.

Il blu dell’oceano.

E capelli crespi.

Crespi e biondi.

Il biondo del grano.

E una lingua sciolta.

Sciolta come i capelli che le si posavano sulle spalle.

Spalle minuscole, come i suoi piedini.

Piedini veloci.

Veloci come il vento.

Quanto vento, quella domenica mattina…

Una sciarpa di lana.

Di lana viola.

Viola, come il cielo di quella domenica mattina.

Passava da lì, la manina attaccata al paletot del padre.

Passava casualmente da lì.

Tano era seduto sul gradino di un grande portone.

Imbacuccato come poteva.

Con quello che aveva.

Aveva gli occhi spenti, poggiati sulla punta delle sue scarpe.

Quelle che aveva.

E tutte e due le mani si poggiavano stancamente sul povero bastone.

Alzò lo sguardo solo quando una vocina, esile e garbata, gli chiese:

“La vuoi?”

Lentamente gli occhi di Tano si schiarirono, quasi a riprendersi dalla

sonnolenza.

“La vuoi?”

Una manina tesa.

Una sciarpa di lana.

Di lana viola.

Viola come le mani di Tano.

Viola come il cielo di quella domenica mattina.

E un sorriso.

Un bianco sorriso, in mezzo al colore biondo dei suoi capelli crespi.

“La vuoi?”

I bambini non si stancano mai di dare domande.

Lì, ferma.

Annarita si era staccata un paio di metri dalla sua ancora e stava lì, impalata

davanti a Tano.

Il padre si era accorto di tutto e guardava.

Quando sentì le lacrime agli occhi, si girò dall’altra parte, per non darne a

intendere.

“Come ti chiami?”

“Annarita”

“Che bel nome…”

“Annarita, vero papà?”

Il padre dovette fare in fretta.

Ricomporsi, far finta di nulla e rigirarsi.

“Sì, papà. Annarita”.

“La vuoi?”

Di solito erano i maschietti a rivolgere la parola a Tano.

La sua voce fu flebile più del solito, ma i suoi occhi tornarono grandi.

“Quella serve a te, Annarita. C’è molto freddo, stamattina”.

“La vuoi?”

La manina era tesa, senza esitazione alcuna.

Il padre di Annarita capì che doveva fare qualcosa.

“Prendila, Tano. Prendi la sciarpa di Annarita”.

“Prendi la sciarpa di Annarita” – ripeté quella.

La giornata era plumbea, ma fu una bella domenica mattina.

Non si girò nemmeno per guardarlo.

Per vederlo con la sua sciarpa viola al collo.

No.

Nemmeno un guardo.

Sculettava, invece.

Per potersi tenere attaccata al paletot del padre.

E si allontanò dalla vista di Tano.

Fissi.

Gli occhi di Tano erano fissi.

Su quell’esile figura che si allontanava, sempre più.

Fino a scomparire.

Solo allora si concesse di carezzare la sciarpa, quella calda sciarpa viola.

Si convinse?

Lo convinse?

Chissà…

C’era un letto.

Calde coperte e lenzuola pulite.

Un bagno.

Non doveva più passare dalla signora Lucia Buttigè.

Il pranzo glielo servivano a tavola, ora.

Ma fintanto che le forze lo soccorsero, Tano non rinunciò mai a passare

davanti l’osteria.

Lentamente arrivava, lentamente se ne andava.

Era come una vista a un santuario.

Silenziosa.

Tano si fermava a qualche metro dall’ingresso e guardava.

Fisso.

Ormai rigido.

Pure lei silenziosa.

Si affacciava sull’uscio e lo guardava.

Fisso.

Ma lei si muoveva.

Era contenta e, quasi strisciando la gonna, muoveva un poco la mano.

E sorrideva.

Era un colloquio fra sordi.

Qualche attimo, appena.

Stranamente Tano stringeva nella sua mano il fazzoletto rosso.

Non doveva più mostrarne il contenuto.

Ma lo teneva stretto nella mano, appena tesa.

Voleva quasi darlo a notare.

Ma rimaneva chiuso nella sua mano, stretta.

Poi se ne andava, lentamente.

E scompariva dalla vista di Lucia Buttigè, mentre quella lo guardava.

Fisso.

Poi se ne tornava alle sue faccende.

C’era tanto da fare in trattoria.

Ma non c’era più da preparare un pasto per Tano.

 

Capitolo 38

Il Segreto del Miserabile

 

Anche a letto si portava il fazzoletto rosso.

Stretto nella mano.

Sempre con sé, in ogni momento.

Non c’erano più denari da proteggere, però la sua mano era una cassaforte.

Persino quando le forze cominciarono a mancare.

Sempre più.

Velocemente..

Nel letto, non più caldo.

Freddo e rigido, ma con il fazzoletto rosso dentro il palmo della mano.

Gli occhi grandi, spalancati.

Ma spenti.

Posati sul tetto, a fargli da cielo.

“Dov’è il mio cielo?”

“Tranquillo, Tano”.

“Dove sono le mie nuvole?”

“Tranquillo”.

“C’è la taddarita, vero? E la pitarra?

E la cucca?”

“Tranquillo, Tano. Se ne sono andate,per sempre”.

“Dove sono?

Questa non è casa mia!”

“Tranquillo”.

“Voglio correre!”

“Va bene. Corri”.

“Sì!

Voglio cercare qualcuno”.

“Va bene. Cerca”.

Disordinatamente.

Esseri senza corpo che corrono, corrono.

Che macello!

Una immensa folla di sconosciuti che corre.

Tutti incontro a uno, l’ultimo arrivato.

Lo scrutano.

Lo guardano.

Lo sfiorano, toccandolo appena

Per non spaventarlo.

Tano, però, non è disorientato.

Non è confuso.

Non trema.

Poi una stretta più forte.

Lo tiene lì.

Impalato.

E una lacrima luccicante va a posarsi sul palmo della sua mano…

Eccolo!

È lui!

Che gioia!

Finalmente insieme, come una volta!

Allegria, è un giorno di gran festa. “Mamma…” “Figlio…”

“Papà…”

“Figlio…” “Nonni…”

Festa per tutti!

Ma dopo un po’, stretta la mano di tutti, Tano si appoggia su una grossa

pietra.

Dai pantaloni tira fuori il fazzoletto rosso.

“Eccolo!”

Porta la mano alle narici.

Sembra annusarlo.

“Eccolo!”

Le lacrime solcano abbondanti il suo viso, fisso verso laggiù.

Non sente più il rumore di tutta quella gente che corre.

Non sente più tutte le mani che si sono poggiate sulle sue spalle.

Guarda fisso laggiù.

Il fazzoletto rosso stretto nella sua mano.

Non c’era molta gente.

Se ne era andato in silenzio, gli occhi fissi sul tetto.

Sul suo cielo.

Sulle sue nuvole.

Poca gente dietro il suo modesto carro funebre.

Però Annarita c’era.

Era cresciuta, ma ancora sculettava per reggere il passo del padre.

Del Saggio.

Di Don Vincenzo.

Di Lorenzo e Caterina.

Della signora Lucia e del marito.

Le suore che avevano accudito Tano recitavano preghiere.

Insieme a sventurate orfanelle, il cui triste mestiere era quello di accompagnare

tutti i morti alla loro ultima dimora.

Pochi altri.

E il carro proseguiva la sua lenta marcia.

“Lì…”

“Dove?”

“Lì, all’angolo della strada”.

“Sì, Caterina. Adesso la vedo anch’io”.

“Chi sarà?”

“Non so. Non l’ho mai vista”.

Si guardarono tutti, l’un verso l’altro.

Attoniti.

“Nessuno di noi l’ha mai vista”.

Al solito.

Annarita quando vedeva anziani soli, correva verso di loro.

Non aveva una sciarpa viola con sé, ma aveva il suo solito sguardo.

“Perché piangi?”

Silenzio.

I bambini non si stancano mai di dare domande.

“Lo conoscevi?”

Silenzio.

Lo sguardo del padre di Annarita si unì a quello degli altri.

“Eccola!”

Tano non era disorientato.

Non era confuso.

Ma tremava.

Lì, in alto.

La stretta della mano si allentò e dal fazzoletto rosso cadde un pezzo di

carta.

Molto stropicciato.

Antichissimo.

Un appunto.

Un nome.

Maria.

Era così emozionato che non se ne accorse.

“Lo sapevo!”

“Ti avrei rivista!”

Milioni di anime correvano da una parte all’altra, senza freno.

Cercavano antichi volti, mani tese.

Una no.

Se ne stava ferma.

Immobile.

Guardava verso la terra e tremava.

E mormorava.

Immobile.

Guardava verso la terra e tremava.

Ma le lacrime si erano fermate.

Anzi, aveva un cenno di sorriso.

“Avete perso. Lo sapevo!”

Tu, cucca, madre indegna.

Tu, taddarita, diavolo tentatore.

E tu, pitarra, stupida e vanitosa.

Il carro funebre procedeva lentamente.

Le orfanelle erano stanche e le loro preghiere si udivano appena.

Annarita, suo padre, il Saggio, don Vincenzo, Lorenzo, Caterina, la signora

Lucia e il marito di lei, distratti.

Guardavano altrove.

Lì, in direzione di quella anziana donna.

Le ruote del carro scricchiolavano sul selciato, ma non riuscivano a distrarli

dai loro pensieri.

Istintivamente alzarono lo sguardo verso l’alto.

Dietro al mesto carro funebre le suore continuavano a intonare preghiere e

le stanche orfanelle a ripeterle.

Gli sguardi dei pochi altri, invece, saltellavano.

Ora verso la donna sconosciuta, dopo verso il cielo.

Erano solo dei lampi lontani, ma sembrava come se qualcuno stesse parlando.

“Sì. Ho saputo delle vostre storie. Delle tue, Saggio. E delle tue, don Vincenzo.

E delle vostre, miei carissimi amici. Oh, carissimo Lorenzo!

Anche la tua, Caterina. Sì. Le conosco bene.

Ho sentito la vostra tristezza. Ho toccato il vostro dolore.

Sono stato triste, come voi.

E pensavo che avrebbero vinto loro. Insieme a quelle bestie infami!

Le potenze della terra…

Quante volte mi sono scoraggiato!

E mi rimaneva poco da sperare…

Quasi nulla!

Ma sentivo di stringere fra le dita un segreto. Un segreto che prima o poi si

sarebbe svelato. Era sempre lì. Fra le mie dita. Stretto in quel fazzoletto

rosso.

Santo cielo!

L’ho difeso da tutto. Da tutti…

Niente e nessuno avrebbe potuto portarmelo via. Tutto mi hanno portato

via!

Ma quello no.

Era tutto, per me. Era il mio segreto”.

Il segreto del miserabile.

 

 

Sommario

 

Capitolo 1. Sulle regole

Capitolo 2. Sulle catene

Capitolo 3. Sull’Eroe

Capitolo 4. Carlo, l’altro rivoluzionario

Capitolo 5. Sull’albero spezzato

Capitolo 6. Sul pianto di una bambina

Capitolo 7. Sulla bontà vera

Capitolo 8. Sulla Giustizia

Capitolo 9. Sulla Debolezza nei confronti dei forti e sulla Forza nei confronti dei deboli

Capitolo 10. Sul perdono

Capitolo 11. La Legge è uguale per tutti

Capitolo 12. Sui rampolli di buona famiglia

Capitolo 13. Sul Signor Procuratore

Capitolo 14. La Legge non è uguale per tutti

Capitolo 15. Sul Viaggio di Andata e Ritorno

Capitolo 16. Sul Saggio

Capitolo 17. Su Padre Menzogna

Capitolo 18. Sul Sogno Americano

Capitolo 19. Sull’Amore proibito

Capitolo 20. Sull’Amore malato

Capitolo 21. Sulla verità sconvolgente

Capitolo 22. Sull’Albero Maestro

Capitolo 23. Sul Vento Buono

Capitolo 24. Sulla conoscenza di una nuova persona

Capitolo 25. Sugli Occhi che parlano

Capitolo 26. Sui Fulmini a ciel sereno

Capitolo 27. Sulla tenerezza

Capitolo 28. Sul Silenzio

Capitolo 29. Sull’ira di Sugawara

Capitolo 30. Grazie, Maria Callas

Capitolo 31. Sulle risate

Capitolo 32. Su chi vuole educare gli altri

Capitolo 33. Sull’Amicizia

Capitolo 34. Dimettiti!

Capitolo 35. Sulla bellezza

Capitolo 36. Sul Tempo dell’apice

Capitolo 37. Sugli occhi grandi di una bambina

Capitolo 38. Il Segreto del Miserabile

 

 

 

 

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