Gli Altavista | Estratti

Gli Altavista

 

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1

Pietralunga è un paesino del centro della Sicilia, oggi abitato da circa ottomila anime, mentre all’alba del Novecento ne contava poco più di quattromila.

A quel tempo le sue case erano tutte in pietra viva e il loro colore grigio si confondeva con le penombre del tramonto autunnale.

Partecipava a quella pittura di tenui colori il verde vivo dell’edera, quello più timido degli ulivi e il colore della terra, un marrone scuro assai simile a quello dei vestiti in velluto che gli uomini del paese indossavano nelle occasioni più importanti.

Tutti gli altri giorni dell’anno, invece, essi faticavano a lavorare la terra, arsa dal sole d’agosto o freddata dalla brina dell’inizio dell’anno, oppure scendevano quasi nudi dentro le viscere della terra per graffiare un po’ di zolfo o di sale alla dura roccia.

Alla fine della giornata si ritrovavano in una delle cinque bettole del paese, dove bevevano vino buono all’inizio della serata e… meno buono alla fine.

Dentro quegli angusti locali c’era molto fumo e un poco di confusione. Solo in tarda serata una voce si alzava sulle altre, a segnalare che il vino era stato consumato in abbondanza e che era arrivato il momento di augurarsi la buonanotte.

Una modesta luce nel buio della sera accompagnava il rientro nelle loro case, nelle strette stradine dal fondo ciottoloso.

I primi chiarori del mattino li ritrovavano poi pronti a   tornare nei campi o scendere in miniera, per un’altra giornata di lavoro.

Come per darsi una salutare pausa, la domenica mattina uomini e donne indossavano l’abito migliore e davanti all’altare si ritrovavano per ricevere la benedizione del Signore; tutti, poveri e ricchi.

Profittavano della circostanza le ragazze in età buona per maritarsi, le quali, maliziosamente, all’interno della chiesa e poi fuori durante la breve passeggiata, lanciavano sguardi furtivi e talvolta incrociavano lo sguardo interessato di qualcuno.

Sulla tavola imbandita per il pranzo, un pezzo di carne di maiale al sugo ricordava che quella era una giornata di festa.

La più maestosa di tutte, comunque, era la festa della protettrice del paese, la Madonna delle Grazie, che si celebrava una volta l’anno, in primavera.

Ancora oggi quel giorno si fa gran confusione nella piazzetta del paese, perimetrata dalla Chiesa Madre, dalla casa degli Altavista, dal Municipio e da una piccola caserma dei carabinieri, che ospita solo due agenti e un brigadiere.

Dalla Chiesa Madre parte una processione che fa il giro del paese, con il parroco in testa, mentre quattro giovinetti, vestiti con l’abito talare, portano a spalla un’immagine della Madonna, riccamente adornata, grazie anche alle offerte dei fedeli che hanno ricevuto una grazia o che ne chiedono una.

Dopo una sosta davanti alla nicchia della Madonna delle Grazie, scavata nella parete principale della casa degli Altavista, i fedeli ricevono la benedizione.

Fino a qualche decennio fa, per l’occasione, i paesani erano soliti mettere da parte, già parecchio tempo prima, piccoli risparmi utili per farsi confezionare l’abito e le scarpe nuove da esibire durante la processione.

Le famiglie camminavano a gruppi, come a volersi distinguere l’una dall’altra e tutti intonavano canti e inni religiosi, introdotti con voce superba dal parroco.

Alla fine era tutto uno scoppiettare di petardi, tanto divertenti, specie per i più piccoli.

Sciolta la manifestazione, le famiglie si ritrovavano nella casa dei nonni ed era un gran vociare di bambini, che i grandi non riuscivano a controllare e che facevano perdere la pazienza ai più vecchi.

Venivano distribuite mandorle infornate e pistacchi e si consumavano le ultime noci dell’annata precedente.

Con gran severità veniva offerto qualche bicchiere di buon vino.

«Evviva la Madonna!» gridava ogni tanto qualcuno.

E tutti gli altri in coro rispondevano: «Evviva la Madonna!».

E la festa riprendeva.

I discorsi erano quasi sempre gli stessi: la preoccupazione per qualche congiunto malato, le notizie di un parente emigrato, la speranza di un buon raccolto di grano e di olive, le notizie dalla miniera.

In precedenza, all’ora del pranzo, di fronte alla tavola imbandita, il capofamiglia, seduto al capo della stessa, invitava alla preghiera e dopo dava il via alla consumazione del pasto, il migliore di tutta l’annata.

La predica della messa del mattino aveva creato serenità  nell’animo di tutti e ne era testimone la compostezza dei commensali.

Quella giornata era particolarmente attesa dagli Altavista.

Donna Concetta faceva preparare il tutto con grande minuziosità, impegnando duramente la servitù sin dall’inizio della settimana.

Il pranzo doveva essere particolarmente prelibato ed essere servito nelle migliori cristallerie e sui più fini tovagliati.

Anche i sarti avevano lavorato alacremente: gli abiti, infatti, dovevano posare perfettamente sui corpi, per renderli il più possibile aggraziati.

All’esterno la casa veniva adornata a festa.

Nel balcone che dava sulla piazzetta, sopra al grande portone di ingresso, veniva posto un enorme stendardo, di stoffe assai pregiate, colorato di rosso al centro e giallo ocra ai margini; al centro c’era il disegno di una colomba in volo, il tutto limitato da due linee decorative, una in alto e una in basso.

Quando la processione faceva sosta dinanzi alla casa degli Altavista, in preghiera di fronte alla nicchia della Madonna delle Grazie, la gente poteva ammirare il grande portone, semicoperto dalla stoffa che scendeva dal balcone che così nascondeva il fregio della famiglia.

Per quel giorno, infatti, gli Altavista rinunciavano al loro simbolo di nobiltà per proporre unicamente la propria immagine di famiglia di fede.

Il compito più impegnativo per donna Concetta Altavista era quello di ricucire qualsiasi contrasto che fosse eventualmente nato durante l’anno fra i parenti, di modo che tutti fossero presenti alla festa e in buona armonia. Qualsiasi gelosia o invidia, ogni questione di interessi che avesse potuto in qualche modo impedire la presenza di qualcuno dei familiari veniva pazientemente ricomposta dall’intervento della donna e pressoché dimenticata dagli interessati.

Quel giorno di festa doveva vedere solo visi allegri e animi ben disposti!

Queste capacità donna Concetta le aveva apprese in famiglia e dalla nonna in particolare.

La vecchia, che si chiamava come lei, le aveva insegnato l’arte della diplomazia e la nobiltà dello stile durante tutta la sua vita, fino a quando se ne era andata.

Era norma che il pomeriggio nonna e nipote passassero qualche ora insieme ed era quella l’occasione per discutere di tante cose e perché la giovane ricevesse gli opportuni insegnamenti.

Mentre la nonna filava, si parlava delle buone norme a tavola, del rispetto della famiglia, del giusto modo di comportarsi con la gente e, soprattutto, del rispetto della legge del Signore.

Inoltre, si parlava anche di come coltivare la bellezza e lo spirito.

Della nonna donna Concetta aveva fatto un modello, che cercava di emulare al meglio.

In verità, ella si sarebbe comportata in maniera altrettanto abile e con pari grazia; non si ricorda una sola volta, infatti, che non avesse saputo dare un buon consiglio a chi si trovava in difficoltà o che non avesse saputo risolvere ed eliminare un contrasto o dei rancori.

Quella donna era sempre ben pronta verso gli altri, pure a costo di rinunciare a qualcosa per sé.

E dire che anche lei avrebbe avuto dei crucci, l’uno e l’altro pari per problematicità: la sorella Rosalia e il marito, don Giuseppe Vizzini.

 

2

 

Sin da piccola Rosalia aveva dato questioni ai suoi genitori, perché faceva delle cose strane, incomprensibili e anche fastidiose.

Era nata normalmente e così era cresciuta per i primi anni di vita; sembrava, anzi, una bambina particolarmente dotata e vivace.

Forse la aiutavano le sue treccine nere, gli occhi verdi e lo sguardo dipinto dal colore olivastro che caratterizzava un po’ tutti gli Altavista.

A scuola la maestra aveva sempre parlato bene di lei e diceva che era una bambina rispettosa, educata e studiosa. Colpiva la sua estrema puntualità ma anche la sua timidezza; spesso, infatti, la si vedeva isolata dalle altre compagnette e difficilmente si inseriva spontaneamente nei loro giochi.

Le grida gioiose e le espressioni festaiole delle altre facevano risaltare il suo silenzio; il continuo muoversi delle altre contrastava con il suo immobilismo.

Rosalia era stata sempre promossa e alla fine della scuola elementare avevano fatto per lei una festa, alla quale avevano partecipato la maestra, le compagnette e il confessore di casa, oltre i familiari.

Tutti ricordano quello come il suo ultimo giorno di felicità.

Tenuto conto delle difficoltà che la figlia aveva manifestato nel socializzare con le altre bambine, i genitori di Rosalia avevano pensato di farla rimanere a studiare in casa, con l’aiuto di un professore, il quale l’avrebbe iniziata anche allo studio del pianoforte.«Chissà» diceva il padre, «che non si trovi meglio stando da sola. È una bambina timida».

In effetti, sembrava che tutto andasse bene, inizialmente.

La crescita la vedeva ogni giorno più donna e Rosalia cominciava ad assumere i connotati di una bella ragazza quando, all’improvviso, avvenne il dramma.

Rosalia era divenuta signorina in un giorno assolato di agosto ed era rimasta terrorizzata da quell’evento, per il quale aveva ricevuto solo approssimative spiegazioni dalla madre.

Da qualche giorno si era fatta triste e cupa ed evitava di incontrare la gente persino con lo sguardo. A tavola non voleva più sedere con gli altri e, sì e no, mangiava qualche biscotto in camera sua; la notte, inoltre, dormiva molto poco.

La madre, assai preoccupata, tendeva le orecchie nel buio; spesso la sentiva alzarsi e mettersi a passeggiare sino alle prime luci dell’alba quando, spossata, se ne tornava a letto.

La osservava accuratamente e le pareva che ogni giorno la figlia perdesse peso e, in effetti, le ossa della ragazza sporgevano dalle carni.

«Rosalia sta male!» aveva sbottato un giorno.

«È sempre stata così» le aveva ribattuto il marito, il quale era assolutamente convinto di quanto affermava.

Egli, infatti, era meno preoccupato della moglie poiché aveva sempre dato poca importanza alla cosa.

Si spiegava il comportamento della figlia in termini di capricci, di carattere difficile della ragazza.

«Occorre fare qualcosa!» aveva ripreso con fermezza la moglie.

«Mia madre mi ha parlato di un buon medico a Palermo: bisogna farla visitare da lui e curarla nella maniera opportuna».

Il marito aveva esitato molto, obiettando che in quel periodo era molto importante che egli fosse presente nelle campagne, perché c’era da organizzare la raccolta delle olive; che la sua assenza avrebbe rallentato i lavori e creato rilassatezza nei braccianti.

«Vai tu con tua figlia Rosalia» aveva concluso. «Ti accompagnerà mio cugino Filippo, che proprio in questi giorni deve andare a Palermo per risolvere un suo problema di eredità».

Fu così che una mattina presto Concetta Altavista vide partire la sorella, insieme alla madre e al cugino del padre.

La vide tornare dopo quattro giorni e fu un ritorno molto doloroso.

La madre aveva un’espressione tesa e fortemente preoccupata; si era avvicinata al marito e quasi gli aveva urlato:

«È pazza… il dottore mi ha detto che è pazza!».

Quelle parole avevano rimbombato dentro la testa di Concetta così come il rombo del tuono in una zona montagnosa.

«È pazza… pazza… pazza…».

Da allora era stato un continuo e penoso passaggio da una cura a un’altra, da un bravo medico a un altro, e alla fine al manicomio.

Nel frattempo Rosalia era diventata sempre più taciturna e trasandata; le sue treccine nere non erano più ordinate come prima e i capelli cadevano sparsi e sulle spalle e persino il colore degli occhi sembrava diventato meno lucente.

Rosalia trascorreva gran parte del tempo in manicomio, ma ogni tanto tornava a casa, per brevi periodi.

Quando la sorella rientrava a casa, Concetta ne era quasi incuriosita: la indagava minuziosamente e cercava di farsi raccontare qualcosa. Difficilmente, però, dal buio della mente di Rosalia usciva un raggio di luce.

Ella di solito se ne stava silenziosa e in disparte, schivava il rapporto con gli altri e preferiva l’intimo soliloquio.

Si acconciava un tantino soltanto se qualcuno se ne prendeva cura; bisognava, dunque, pulirla, pettinarla e farla vestire a modo.

Don Giacomo, il padre, spesso si adirava contro la figlia, perché non si comportava come egli avrebbe voluto. Probabilmente gli sfuggiva ancora lo stato di malattia della figlia, che egli viveva più che altro come una sorta di offesa a lui, in ogni caso come un disturbo arrecatogli.

Ogni volta doveva preoccuparsi di farla accompagnare in manicomio e di mandarla a prendere quando doveva rientrare per una licenza; e poi tanto lo infastidiva pagare quella pletora di medici e medicine, senza che mai potesse verificare cambiamenti significativi nella figlia, senza che vedesse mai realizzato il sogno di poter rivedere Rosalia come le altre, come Concetta per esempio.

Quest’ultima soffriva molto, e in silenzio. Avrebbe voluto una compagna di gioco, un’amica per le discussioni pomeridiane, alla quale confidare sentimenti ed emozioni; invece dalla sorella riceveva solo silenzi.

Ogni volta sperava che il successivo ritorno a casa della sorella l’avrebbe vista migliorata, che finalmente sarebbe stata l’occasione giusta; ma ogni volta era una delusione.

Si ritrovava spesso a parlarne con la nonna, durante gli incontri del pomeriggio.

La vecchia, la quale aveva ben capito lo stato della nipote Rosalia, cercava di consolare in tutti i modi Concetta: le diceva che la sorella prima o poi sarebbe guarita e che tutto sarebbe cambiato, che doveva avere fede nella Provvidenza. Nel mentre continuava a filare, tenendo gli occhi bassi, quasi a dimostrare quanto poco credeva in quello che diceva.

Intanto Concetta diventava grande e pian piano imparò che le parole della nonna avevano solo un valore consolatorio e niente più. Tuttavia, non smise mai di sperare.

Anche quando si sposò, ed ebbe altre preoccupazioni, sempre un angolo della sua mente rimase occupato dalla sorella: si preoccupava costantemente della sua alimentazione, della sua igiene e voleva che fosse sempre vestita discretamente e che non le mancasse nulla per ricordarsi che era una donna, almeno nei giorni che trascorreva in casa.

Quando Rosalia era in manicomio, donna Concetta si teneva costantemente in contatto con i medici e faceva di tutto perché le fossero assicurate le migliori cure.

Spesso ne parlava con don Giuseppe, nei momenti in cui avevano qualche minuto per stare insieme.

Ma il marito somigliava al suocero, don Giacomo, e come quello sembrava più che altro disturbato e infastidito dal problema.

Si meravigliava, quasi, che la moglie perdesse tanto del suo tempo a occuparsi di una questione senza soluzione.

«È una cosa irrimediabile, ormai» diceva alla moglie. «Devi convincertene».

Lei, invece, pazientemente e con garbo, ricordava al marito che quella, nonostante tutto, era pur sempre sua sorella.

«Dentro di lei scorre il mio stesso sangue; perciò, come vuole la divina Provvidenza, è mio dovere occuparmi di lei» gli rispondeva.

Rosalia, in ogni modo, non era l’unico motivo di contrasto fra marito e moglie.

 

 

3

 

 

 

La famiglia di don Giuseppe non aveva il blasone di nobiltà degli Altavista; i Vizzini, infatti, non avevano avuto titoli nobiliari né parenti nobili. Essi avevano solamente accumulato terre su terre, fino ad averne abbastanza da accontentare le ambizioni, per altro niente affatto modeste, dei quattro figli di don Salvatore: Giuseppe, Francesco, Benito e Lorenzo, nonché dei suoi nipoti, figli dei fratelli.

I Vizzini, dunque, possedevano a quel tempo grandi estensioni agricole, nelle quali lussureggiavano le coltivazioni degli ulivi, il verde intenso dei quali contrastava con il biondo oro dei campi di grano.

Essi erano particolarmente attenti nei riguardi della terra, verso la quale avevano un atteggiamento quasi di venerazione.

I campi erano tenuti molto puliti e non una pietra doveva affiorare in superficie, né un filo d’erba disturbare le coltivazioni.

Perciò molti erano i braccianti che venivano impegnati nel lavoro nei campi. Nei periodi di raccolta, in particolare, erano le donne a essere prescelte, poiché così i Vizzini potevano realizzare un discreto risparmio nel pagamento della manodopera.

Le donne del paese, d’altra parte, erano assai ben disposte a quel lavoro e anzi litigavano per essere tra le elette: pur di guadagnare qualcosa in più, infatti, le famiglie si accontentavano del poco che poteva guadagnare una donna. E poi ci scappava sempre un poco di grano o qualche chilo di olive da conservare per l’inverno…

Inoltre, c’era anche un aspetto piacevole in quel lavoro: l’incontro quotidiano fra tante donne, tutte con gli stessi problemi, sempre uguali, ma anche con le stesse gioie e speranze.

Il lavoro si accompagnava a tutta una serie di racconti, di aneddoti, di rivelazioni, di richieste di consiglio… ed era tutto un vociare.

Qualche volta scoppiava una piccola questione, un contrasto; allora le più grandi dovevano esercitare il loro potere di mediazione, approfittando del rispetto che le giovani dovevano loro, e di cui realmente godevano.

Quando gli ultimi rampolli di casa Vizzini si erano fatti giovanotti, il secondogenito, Benito, ebbe una storia con una di queste giovani donne, che si concluse con il deciso intervento del padre, ma che ebbe uno strascico di polemiche e di sparlerie.

Giuseppina era una delle più belle fra le donne chiamate alla raccolta delle olive di quell’anno.

Era l’autunno del ’35 e quella era stata una buona annata, tanto che si prevedeva un raccolto notevole. Furono perciò ingaggiate diverse donne, almeno una trentina.

Esse erano tutte imparentate con gli uomini che prestavano la loro opera e le loro braccia ai Vizzini per i lavori più pesanti, perciò esse erano tutte conosciute, anche perché già negli anni precedenti avevano avuto occasione di svolgere quell’attività.

Era invece il primo anno che Giuseppina veniva chiamata a quel compito; la sua giovane età, infatti, non le aveva consentito in precedenza di farlo.

Adesso aveva compiuto sedici anni e i genitori avevano deciso che era venuto il tempo che pure lei aiutasse la famiglia, non più solo in casa, ma anche nei campi.

I suoi genitori avevano anche il progetto, non rivelato alla ragazza, di cominciare a mostrarla in giro perché qualche giovane si accorgesse di lei.

Non si sarebbero mai attesi, però, che a posare gli occhi su di lei fosse proprio il signorino Benito, il figlio del padrone.

Ma così accadde.

Era una di quelle giornate ricche di luce della estate di San Martino; ogni tanto capita che quel periodo sia climaticamente così bello da competere con le giornate di Maggio. Quando è così occorre vestire abbastanza leggero, specie per chi deve lavorare, se si vuole evitare il fastidio del caldo.

«Evita di prendere correnti» aveva detto la madre a Giuseppina. «Asciuga spesso il sudore e non metterti, comunque, abiti pesanti».

Giuseppina aveva indossato un abito leggero, sopra il quale aveva messo una giacchetta di lana per proteggersi dal fresco del mattino.

Così, insieme alle altre donne, era partita per i campi.

Pur senza volerlo si era vestita in modo tale da mettere in rilievo le sue doti naturali. Ella era, infatti, una ragazza particolarmente avvenente per l’età: il suo corpo poteva esibire una notevole grazia e inoltre era abbastanza bella in viso, per i due occhi grandi e verdi, le labbra piene e i capelli lunghi e di un bel castano chiaro.

Già da qualche tempo era stata notata dal signorino Benito, il quale in quei giorni aveva intensificato la sua presenza nei campi, per approfittare di qualche utile circostanza per avvicinare la giovane.

L’aveva fatto nel mezzo di una mattinata, mentre Giuseppina era intenta al lavoro.

«Come procede il lavoro?» aveva chiesto con aria indifferente, fissando gli occhi sulla ragazza, la quale, per pudore, aveva evitato di guardarlo.

Una donna che lavorava lì vicino, tra le più grandi, aveva risposto al posto della giovane:

«Va bene, signorino! Quest’anno c’è tanta grazia di Dio».

«Di chi è figlia questa ragazza?» aveva tagliato corto Benito.

Giuseppina ancora una volta aveva evitato di guardarlo in faccia.

«È figlia di Buttigè, signorino» aveva risposto un’altra delle donne.

«Bene… bene…» aveva concluso Benito, continuando a posare lo sguardo sulla ragazza e dimostrando con gli occhi tutto quello che voleva dirle.

Quando egli si era allontanato le donne si rivolsero a Giuseppina, quasi a volersi complimentare con lei.

«Quello vuole proprio conoscerti» aveva gongolato una delle più giovani.

«Avresti dovuto guardarlo negli occhi!» aveva detto un’altra, sorridendo maliziosa.

«Li aveva rosso sangue!».

«L’ho capito» aveva risposto con una buona dose di civetteria Giuseppina, mostrando tutta la sua sicurezza e grande  orgoglio.

Una delle più grandi fra le donne presenti, ricca di tante storie vissute o solamente conosciute, rivolgendosi alla ragazza, ma continuando nella raccolta, aveva commentato:

«Attenta! Il diavolo ti cerca quando vuole prenderti l’anima!».

Quelle parole erano passate quasi del tutto inascoltate per la giovane Giuseppina, tutta presa dal fatto che il figlio del padrone le aveva rivolto tante attenzioni.

Già la sua fantasia galoppava libera…

Nel frattempo Benito aveva continuato nella sua opera di lento avvicinamento alla ragazza, fino a quando un bel giorno era capitato che il caldo aveva ceduto il passo a una pioggerellina leggera ma intensa, la quale aveva mandato le donne a proteggersi sotto gli alberi.

Giuseppina non aveva perso l’occasione di correre sotto l’albero nel quale si trovava Benito.

Questi fu molto gentile e cortese con lei; non tralasciò di parlarle della sua bellezza, le aveva sussurrato dolci parole e, carezzandole i lunghi capelli, le aveva proposto di rivedersi l’indomani.

Durante la sosta del pranzo l’avrebbe attesa nel casolare di contrada Murmentu, a poche centinaia di metri da lì.

Giuseppina dapprima aveva finto di cadere dalle nuvole, poi, anche in quel caso, aveva dimostrato una grande sicurezza, essendo apparsa per nulla intimidita e affatto vergognata.

«Verrò, se potrò; non vorrei che le altre donne mi vedessero».

Sapeva bene, però, che non le importava nulla di quello che le altre avrebbero pensato. Si trattava pur sempre del figlio del padrone, diamine, non di un garzone qualsiasi!

Perciò aveva colto subito il consiglio del signorino Benito, senza mostrargli, comunque, che non aspettava altro.

«Fai finta di andare a prendere una brocca d’acqua» le aveva consigliato quello, e lei aveva assentito.

La pioggia era stata tanto intensa quanto breve e quando lui nobilmente le baciò la mano per salutarla già si sentivano le altre donne che chiamavano Giuseppina perché riprendesse il lavoro.

Quando raggiunse le altre, pur continuando a lavorare, la ragazza non aveva potuto fare a meno di pensare a quello che era successo.

L’attesa dell’indomani fu spasmodica; la notte non passava mai e così la mattina, finché, a mezzogiorno, non era arrivata l’ora della sosta.

«Ho sete e l’acqua sta quasi per finire» disse alle altre. «Vado a prenderne dell’altra».

E si era incamminata verso il casolare, dove trovò il signorino, il quale l’aspettava già da un’ora, non pensando ad altro che a quel corpo avvenente e a quegli occhi grandi e verdi.

Fu mezz’ora d’amore piena.

La gioventù della ragazza era esplosa nel suo sguardo lucente e nel candore della sua pelle, che contrastava con l’oscuro degli occhi e con il chiaro dei capelli castani, che davano riflessi quasi dorati.

Lui non le lesinò parole dolci e tenere, che ancor più fecero scatenare la fantasia e il desiderio nella ragazza. Né lui fece niente per limitarla, affermandole ripetutamente che il loro amore non sarebbe mai finito.

Diverse volte i due s’incontrarono ancora e ogni volta erano mille  baci e sorrisi.

Tutto era andato avanti fintanto che la notizia non arrivò alle orecchie di don Salvatore Vizzini, il padre di Benito.

Si sa che fra quanti lavorano per un padrone c’è sempre quello che, per accattivarsene le simpatie, oltre che per riceverne in cambio favori e prestigio di fronte agli altri, non esita a rapportare tutto quello che succede.

Sebastiano Vella era uno di questi e sua moglie stava lavorando insieme alle altre nella raccolta delle olive.

Ella aveva capito subito l’intrallazzo fra Giuseppina e il signorino Benito; glielo aveva fatto pensare la civetteria della ragazza, la quale, certa del suo rapporto d’amore con quello che doveva essere l’uomo della sua vita, non si limitava per nulla a mostrare alle altre la sua sicumera e a mettere in rilievo le proprie virtù, quasi suscitando l’invidia e la gelosia delle altre donne più giovani, ma anche di quelle più anziane.

Anche loro avevano delle figlie giovani e si chiedevano cosa mai avesse Giuseppina più delle loro ragazze per attrarre così tanto il figlio del padrone.

Solo le donne più vecchie e sagge preferivano evitare qualsiasi riferimento o allusione; dentro di loro c’era già un senso di tristezza e di preoccupazione per quella vicenda, quasi ne presagissero l’amara conclusione.

Alla moglie di Sebastiano Vella, dunque, non era parso vero di potere confidare al marito i suoi sospetti, o meglio, le sue certezze.

Una volta aveva seguito la ragazza, insospettita dalla sua continua volontà di andare a prendere l’acqua, e, nascosta dietro a dei ruderi vicini al casolare, aveva potuto vedere l’incontro fra i due e poi, avvicinandosi di più, aveva potuto sentire e vedere quei corpi felici di incontrarsi.

Né Sebastiano Vella aveva esitato un solo attimo per correre dal padrone e raccontargli tutto.

«Vostro figlio se la fa con la figlia di Buttigè, don Salvatore! Essi s’incontrano ogni giorno nel casolare di contrada Murmentu».

Don Salvatore ne era rimasto molto, ma molto contrariato.

Come poteva quello scellerato del figlio andare a intendersela con una villanella, figlia di contadini?

Quel figlio gli aveva sempre dato a che dire, ma quella volta l’aveva proprio fatta grossa!

Don Salvatore Vizzini non si preoccupò neanche un attimo della ragazza, ma solo di quello che poteva derivare alla famiglia Vizzini qualora la cosa fosse divenuta di pubblico dominio.

Aveva pensato molto sul da farsi.

Sapeva che se lo avesse detto al figlio quello avrebbe negato; che Benito avesse una gran faccia tosta gli era ben noto.

Ritenne meglio, allora, per quanto ciò lo vergognasse, di scoprire di persona i due amanti, cosicché il figlio non potesse negare l’evidenza.

Un giorno, dunque, si era nascosto pure lui, come aveva fatto la moglie del fido Sebastiano Vella, e così aveva potuto vedere e sentire.

Impreparati com’erano alla vista dell’uomo, i due amanti rimasero terrorizzati dall’immagine di don Salvatore Vizzini, il quale, con aria inequivocabilmente seria, si era piazzato dinanzi alla porta, quasi a significare l’impossibilità della fuga da parte dei due.

Egli era sdegnato dalla scena che stava osservando ed esplose la sua ira con un sonoro schiaffo al figlio.

«Svergognato!» gli aveva gridato. «Incapace!».

Quest’ultima affermazione aveva risuonato ricca di particolare mortificazione per Benito Vizzini.

«Incapace… incapace…».

Incapace di avere una ragazza che non fosse una semplice contadinella, figlia di propri dipendenti; incapace di conquistare una ragazza di pari rango: ecco cosa voleva dire il padre.

Fu come una fucilata per il figlio, il quale comprese bene la comunicazione del padre.

Nel mentre la ragazza, in fretta e paonazza in viso, cercava di ridarsi un decoro.

Don Salvatore Vizzini non l’aveva degnata di uno sguardo, né di una parola.

Giuseppina era dovuta così scappare via, senza neanche aver proferito una sola parola.

Don Salvatore, da parte sua, aveva preso il figlio per un braccio e se lo era portato a casa, quasi scortandolo.

Il giorno dopo, le donne che erano andate nei campi per continuare la raccolta si avvidero dell’assenza di Giuseppina ed ebbero molto da ridire sul fatto.

Ormai la voce si era sparsa fra loro e, dunque, tutte avevano ben compreso quello che era accaduto.

La moglie di Sebastiano Vella se l’era riso sotto, contenta di avere adempiuto al suo ruolo di confidente e convinta che il marito ne avrebbe avuto in cambio un guadagno concreto.

In disparte, parlando fra sé e sé, la solita anziana continuava a ripetere: «Il diavolo ti cerca quando ti vuole pigliare l’anima».

In effetti, il signorino Benito aveva concluso la sua avventura amorosa nello stesso attimo in cui il padre gli aveva dato quella dura lezione; egli dimenticò in fretta gli occhi verdi e i capelli castano chiaro della ragazza.

L’unica cosa cui continuò a pensare con orgoglio fu la riuscita della sua fiera conquista e lo faceva con grande arroganza, quasi fosse stata la realizzazione della sua virilità.

Non più tenere parole né più gesti galanti e gentili.

«Incapace… incapace…».

Continuava a pensare alle parole del padre con profonda  vergogna.

Perciò aveva cominciato a rivolgere altrove le sue attenzioni.

Doveva dimostrare che era tutto al contrario, che quel giudizio era fondamentalmente errato, così come, in fondo, aveva dimostrato con quella stessa giovinetta.

Della ragazza si seppe solo che un giorno la videro partire, per chissà dove.

Ella non rivide più contrada Murmentu, né quel casolare, né le giornate di sole novembrino che la Sicilia sa donare durante l’estate di San Martino.

 

4

 

Benito continuò, invece, la sua… riabilitazione, sostenuto da un grande bisogno di affermazione sociale e da una forte tendenza a consolidare la sua posizione di dominante.

Da allora in poi fece tutto pur di dimostrare a se stesso e al padre che egli era capace, forte, fatto di ferro.

Già durante l’inverno decise di impegnarsi attivamente in politica e aderì entusiasticamente al partito fascista.

A distanza di un anno circa, poi, si entusiasmò per le notizie che arrivavano da Madrid circa la decisa opposizione delle forze nazionaliste al governo del Fronte Popolare, che poco prima aveva vinto le elezioni. Fu quasi sul punto di partire per la penisola iberica, come fecero tanti altri suoi camerati, per andare a misurarsi nella guerra civile che infiammava lì.

Con suo rammarico i genitori lo convinsero a rimanere, ma egli si pentì amaramente di averli accontentati quando, quasi tre mesi più tardi, i fascisti conclusero vittoriosi la guerra civile.

Avrebbe tanto desiderato  di trovarsi lì, con gli altri, a festeggiare, vestito come vero fascista!

Egli adorava indossare quella divisa tutta nera, con gli stivaloni alti e luccicanti di pulito e un foulard al collo che arricchiva la sua immagine austera, completata da guanti imperiali e da un monocolo, del quale non aveva per niente bisogno, visto che aveva una vista perfetta e che, tuttavia, non lasciava mai.

Esigeva il massimo rispetto dai suoi concittadini, deferenza da quanti lavoravano a qualsiasi titolo per la sua famiglia; riprovava aspramente quanti non aderivano alla sua ideologia e coloro i quali non sapevano comprendere quanto alto fosse il suo modello di uomo vero.

I suoi discorsi erano intrisi di concetti, forse anche male appresi, letti qua e là negli opuscoli propagandistici.

L’Impero, la Patria, l’Esercito, la guerra: questi termini non mancavano mai nei suoi discorsi, brevi e tonanti, quasi a volere incutere timore in chi stava ad ascoltarlo.

Spesso veniva a diverbio con i suoi concittadini: con il barbiere perché non sapeva radergli la barba, con il venditore di stoffe per la qualità delle stesse, con il panettiere perché gli dava il pane troppo cotto.

Insomma, non amava gli altri, né dagli altri era amato.

D’altronde in paese si era sparsa la voce circa la sua partecipazione all’aggressione da parte di un gruppo di facinorosi a un ragazzo che era stato scoperto ad affiggere propaganda comunista.

Povero ragazzo! Era stato conciato davvero male e fu una vera fortuna che non ci rimise anche la pelle.

In giro si seppe che due del gruppo degli aggressori erano venuti da fuori paese e che l’altro, il terzo, fosse proprio lui, Benito Vizzini.

Nessuno poteva provarlo, ma tutti ne erano certi.

In ogni modo, era tutta la famiglia Vizzini a non godere delle simpatie dei concittadini, ma avverso le lamentele loro indirizzate essi replicavano dicendo che erano invidiati per la grande ascesa che li aveva portati a essere i grossi proprietari terrieri che erano.

Pertanto essi non facevano nulla perché l’antipatia si trasformasse in simpatia. Anzi, avevano assunto atteggiamenti di disprezzo per gli altri e non riuscivano mai a celarli.

Volevano dimenticare in fretta il loro passato e acquisire al più presto una nuova veste e una nuova identità sociale: perciò avevano un gesto di attenzione verso gli altri solo quando ne ricevevano riconoscimento e deferenza.

Il loro paese era un poco diverso da quello degli Altavista, pur trovandosi a non molta distanza da esso, una quarantina di chilometri appena.

 

San Fratello è ancora oggi un paese più grande di Pietralunga.

Intorno al 1910 si potevano contare circa settemila abitanti, mentre oggi sono in ventimila, grazie al notevole sviluppo economico, cui non sono estranei interessi di dubbia liceità.

Allora, invece, la gente era del tutto tranquilla, dedita al lavoro e al culto, socievole e pacifica.

Anche a San Fratello la terra era la prima produttrice di reddito e del modesto benessere della gente. Grano, olive e mandorle rappresentavano le principali coltivazioni, ma c’erano anche pistacchieti e qualche vigneto.

Oggi le terre sono coltivate pressoché esclusivamente a vigna e a ottobre il bianco delle tele protettive dei vigneti sembra quasi un lago di acque chiare.

Gli abitanti di San Fratello erano gente semplice, senza troppi cavilli nella testa né grandi pretese. Era gente che si contentava di quello che aveva e non si sconfortava quando qualche cosa veniva a mancare.

Un forte spirito di solidarietà, per altro, faceva sì che i cittadini si aiutassero molto fra di loro.

San Fratello, per esempio, era uno dei pochi paesi del circondario dove non si vedevano mendicanti per le strade.

Le famiglie meno abbienti, durante le festività, ricevevano segreto aiuto dal Parroco, il quale, nel corso di occasioni liete, quali matrimoni, battesimi, cresime e comunioni, riusciva sempre a mettere da parte qualcosa per i meno fortunati.

Il segreto, in verità, era di dominio pubblico, ma tutti si comportavano come se non si sapesse, per non umiliare i beneficiari dell’obolo.

Anche per questo, in ossequio al precetto cristiano, i fedeli abbondavano sempre nelle offerte alla Chiesa.

Nemmeno i Vizzini venivano meno a questa usanza; tuttavia si leggeva nei loro occhi quanto il gesto fosse innaturale, quasi sforzato, a volte fatto in modo tale che tutti potessero vedere la loro magnanimità. Allora, prima di aggiungere la loro elemosina alle altre, si guardavano intorno e disegnavano un sorriso nei loro volti, quasi dovessero ricevere i complimenti degli altri.

Come avessero fatto i Vizzini a venir fuori così in quel paese tanto amabile tutti se lo chiedevano, senza, però, ottenere risposta.

«Sono fatti di un’altra pasta» si diceva in giro.

«All’origine non provenivano da San Fratello» replicavano i più anziani.

Fatto si è che da decenni essi non pensavano ad altro che ad accumulare roba su roba, a disprezzare il prossimo, o, al massimo, a sopportarlo per convenienza.

Cercavano sempre di imparentarsi con gente ricca e di non dissipare mai le proprietà nelle eredità e nelle doti per le figlie femmine.

Questo loro modo di fare, ovviamente, creava loro attriti con tutti e calamitava antipatie a iosa e se Benito era il più litigioso degli eredi di don Salvatore Vizzini, gli altri non lo erano poi tanto meno; tutti tranne uno: Francesco.

D’altra parte dovevano somigliare in qualcosa a loro padre, al loro nonno Giuseppe, al loro bisnonno…

E poi erano venuti tutti maschi; pertanto a loro le doti dovevano portarle, senza che una goccia delle loro proprietà potesse essere data ad altri.

Essi potevano, insomma, subordinare i loro rapporti alla possibilità di acquisire sempre nuove proprietà, di possedere sempre di più e di ingrandire il loro prestigio.

Vivevano un profondo rifiuto verso chi era inferiore a loro, un rifiuto che spesso sconfinava nel disprezzo. Si può ben comprendere, dunque, la grande ira di don Salvatore Vizzini quando venne a sapere dal fedele Sebastiano Vella che il figlio Benito se la intendeva con una contadinella del luogo, figlia di suoi braccianti.

«Che rabbia mi ha fatto quell’incapace!» andava ripetendosi don Salvatore ogni volta che ripensava a quell’episodio.

Benito, però, stava recuperando benissimo il suo credito: era diventato comandante di centuria delle milizie fasciste e perciò, seppure forzatamente, veniva ossequiato e riverito. “Cosa vuol dire? Sempre ossequio è!”,diceva a se stesso.

Mentre egli cercava a tutti i costi il riscatto personale nei confronti del padre, quest’ultimo provvedeva per lui, avendone programmato il cammino verso una definitiva e valida sistemazione.

Don Salvatore Vizzini, infatti, non perse l’occasione di porre gli occhi su una ragazza di un paese vicino, allorquando venne a sapere che il padre di costei, il notaro Baglio, aveva alzato troppo il gomito durante una delle sere di Natale, giusto mentre giocava a baccarà con gli amici del paese.

Il risultato fu che venne a trovarsi in una difficile situazione economica, a causa delle forti perdite subite in quello sciocco stato di ebbrezza.

A quell’uomo le carte e il vino erano sempre piaciuti, altrettanto che le donne e gli atti notarili: erano quelli i suoi piaceri preferiti.

Negli anni precedenti gli era sempre andata bene con il gioco; quella volta, invece, fu un vero disastro.

La voce si sparse subito in paese e andò oltre, nei paesi vicini. Arrivarono ad affermare che egli aveva offerto di giocare la purezza della propria figlia maggiore in cambio di tutto quello che aveva perso quella sera maledetta.

Sappiamo che in casi simili la fantasia popolare si scioglie come il ghiaccio al sole e scorre libera; la malevolenza della gente avvelena chi cade in disgrazia dopo avere esibito tanto benessere.

Quell’uomo, in verità, non avrebbe mai pensato una cosa simile: amava troppo le sue figlie e poi era uomo di chiesa.

Venne a trovarsi, comunque, nella necessità di dover vendere molte delle sue terre per pagare i debiti contratti. I creditori non gli facevano fretta, dato il prestigio di cui godeva; ma qualcosa doveva pur fare.

Quando la notizia arrivò alle orecchie di don Salvatore Vizzini questi pensò che fosse arrivata l’ora che il figlio Benito lavasse l’onta del suo passato di conquistatore di pollastre!

Durante una cena ebbe modo di parlare della cosa ai propri figli; lo fece guardando per tutta la durata della conversazione gli occhi di Benito, quasi a coglierne espressione d’assenso e, di fatto, quello capì.

La minore delle figlie del notaro Baglio non era né bella né avvenente; tuttavia era una ragazza tranquilla, rispettosa, ossequiosa del padre e delle regole della buona società e abbastanza intelligente.

Aveva capelli neri e lunghi, gli occhi di un comune colore marrone ed era discretamente alta.

Aveva vent’anni.

Per lei, come per la sorella maggiore, il notaro Baglio aveva accumulato un discreto numero di beni, sin da quando esse erano nate.

Egli usava accrescere il patrimonio delle figlie dividendo loro una parte di quanto gli era dato per ogni atto rogato; e nella sua carriera ne aveva segnati tanti di riconoscimenti di proprietà…

La dote che spettava alla ragazza, dunque, era abbastanza consistente, ma, ahimé!, adesso il notaro Baglio correva il rischio di veder dissipare la gran parte di quelle proprietà.

Don Salvatore Vizzini aveva fatto i suoi calcoli: egli avrebbe pagato i debiti del notaro Baglio, prestandogli il necessario, e questi si sarebbe impegnato a dare al figlio Benito in moglie la figlia minore, con una dote quasi pari a quanto il notaro aveva messo da parte per le due figlie.

All’altra sarebbero rimaste le briciole, ma pazienza.

Questo poco importava a don Salvatore Vizzini; in fondo, qualcosa avrebbe potuto ancora guadagnare il notaro e con quello avrebbe potuto aggiungere un poco di proprietà alla dote della primogenita, oltre che ritornargli il dovuto.

Al momento, intanto, la proprietà sarebbe rimasta in famiglia, invece che essere dispersa tra gli estranei creditori.

Fu per questo che il notaro Baglio accettò la proposta di don Salvatore Vizzini, al quale inviò una missiva, tramite un uomo per bene, un commerciante di animali, contenente il proprio assenso.

E così una domenica di Maggio la famiglia Vizzini, di tutto punto vestita, andò a far visita alla famiglia Baglio, per festeggiare il fidanzamento ufficiale dei due giovani.

Alla ragazza Benito portò una serie di oggetti d’oro che colpirono la sensibilità femminile della donna, alla quale quei gioielli piacquero ancor più che il suo futuro sposo.

Altrettanto, Benito non fu particolarmente colpito dalla sua fidanzata, ma a questo era già preparato.

Aveva raccolto, infatti, notizie sulla famiglia e sulla ragazza e sapeva già che la dote era di gran lunga superiore alla bellezza della donna.

Intanto egli non volle perdere l’occasione, durante la riunione delle famiglie, per fare presente come esigesse dalla sua futura moglie il rispetto che la legge di Dio e quella degli uomini sancivano: fedeltà assoluta, obbedienza e obbligo di non contraddirlo mai.

Anche la ragazza, da parte sua, sapeva già del carattere del futuro sposo; pure lei aveva raccolto informazioni sulla famiglia Vizzini e su Benito, perciò sapeva che egli era un tipo molto duro, autoritario, arrogante e poco socievole.

Suo padre, comunque, le aveva garantito che Benito Vizzini sarebbe diventato qualcuno, che il Partito lo avrebbe favorito e che lei, in conseguenza, sarebbe diventata una gran signora e che magari avrebbe abitato a Palermo o a Catania!

Queste prospettive non dispiacquero per nulla alla ragazza.

Lei dal suo paese non era mai uscita; aveva solo sentito parlare della grande città e aveva un gran desiderio di conoscerla. Fantasticava di passare davanti agli affollati bar del centro, di cui le avevano detto, con un bell’abito bianco e l’ombrellino, accompagnata dallo sguardo dei tanti signori, in eleganti abiti scuri, seduti ai tavoli.

I gioielli che Benito le aveva portato in regalo le parvero essere la conferma che i suoi desideri si sarebbero realizzati.

Prima che le proponessero di prendere come marito Benito Vizzini, la ragazza aveva tanto temuto che il padre non potesse più darla in sposa a qualche ricco giovanotto.

Ella non sapeva, in realtà, quanto le perdite al gioco del padre fossero state gravi; sapeva solo che egli aveva contratto qualche debito fuori dell’ordinario. Ciò nonostante temeva lo stesso che la gente non avrebbe più visto bene la sua famiglia, essendosi sparsa la voce sul vizio del padre.

Quest’ultimo, tuttavia, l’aveva tranquillizzata e il fidanzamento con un ricco giovane le fece pensare che egli le avesse detto il vero.

Don Salvatore Vizzini aveva pensato bene: egli avrebbe saldato nell’immediato i debiti di notaro Baglio e il figlio Benito ne avrebbe ricevuto una proprietà per un valore ben superiore. Pian piano don Salvatore avrebbe pure recuperato quanto anticipato.

E poi quell’incapace del figlio avrebbe messo su casa e sposato una giovane di ottima famiglia, dato, quest’ultimo, che avrebbe dato nuovo lustro a tutti i Vizzini.

 

5

 

I figli di don Salvatore Vizzini, come detto, erano quattro: Giuseppe, il primogenito; Benito, il secondo; Francesco, il terzo, e Lorenzo, l’ultimo.

Francesco era meno di due anni più piccolo di Benito.

Al tempo del matrimonio del fratello, avvenuto pochi mesi dopo il fidanzamento con la Baglio, egli aveva ventuno anni.

Dei quattro figli di don Salvatore egli era certamente il più tranquillo, il meno violento.

Era considerato come un ingenuo, un debole certamente, giacché mai aveva fornito prova di essere come un Vizzini doveva essere.

Anche a scuola egli era subito apparso uno dei meno vivaci: non amava saltare da un banco all’altro o tirare giù i libri ai compagni, come avevano fatto i suoi fratelli.

Così era cresciuto senza aver litigato con alcuno, tentando anzi di essere simpatico nei rapporti con gli altri. Se non vi riusciva pienamente era solo perché era un Vizzini, ma di per sé egli era un buon giovane.

Anche il lavoro che si era cercato dava la misura della sua tranquillità: egli era impiegato al Comune, dove se ne stava sepolto fra le polverose carte, dietro a un tavolo di lavoro tarlato e scricchiolante, a fare certificati alla gente.

Si recava al lavoro vestito elegantemente, ma non troppo.

Preferiva quei pullover con la classica scollatura a punta, rivoltati nelle maniche mentre lavorava, perché non si sporcassero di inchiostro.

Andava nelle terre del padre per fare i conti delle paghe dei braccianti, dei crediti da riscuotere e di tutte le altre scadenze economiche.

Don Salvatore era molto contento dell’opera di questo figlio; mai, infatti, avrebbe voluto dare a estranei i conti della propria casa!

Certo, lo avrebbe voluto un po’ più furbo e malizioso.

Furbo, in effetti, Francesco lo era, ma il padre pensava a un diverso tipo di scaltrezza, più smaliziata e con meno sensibilità verso i problemi altrui.

Don Salvatore Vizzini, infatti, era convinto che coloro i quali eccedevano in bontà fossero, in realtà, dei fessi, e anche i fratelli di Francesco la pensavano così.

Per quanto concerneva, invece, il ruolo di gestore dei conti economici della famiglia, tutti erano concordi nel ritenere Francesco l’uomo adatto per quel compito, visto che egli era molto ordinato e scrupoloso e aveva una memoria di ferro, tanto che non gli sfuggiva mai un particolare, per quanto piccolo fosse, circa gli impegni della famiglia.

A scuola, pur non essendo una cima, Francesco era stato abbastanza bravo, certo il migliore tra i fratelli.

Prima di tutti loro aveva imparato la tabellina e le quattro operazioni e aveva poi letto persino qualche classico.

La famiglia Vizzini non aveva una libreria, perciò Francesco aveva dovuto farsi prestare dalla maestra qualche buon libro da leggere. Così aveva potuto imparare qualcosa da Verga e da quel Pirandello da poco scomparso, ma già molto noto.

Tutto preso com’era dal lavoro al Comune e da quello in casa, egli non aveva avuto molto tempo per coltivare le amicizie. Legava con pochi e con un solo amico teneva un rapporto confidenziale.

Si trattava di un suo collega di lavoro, anch’egli ragazzo modesto e mite, con il quale poteva persino provarsi a fare qualche discussione che il padre e i fratelli non avrebbero esitato a definire, con somma ironia, filosofica.

Delle donne non si era mai interessato e non aveva mai avuto un rapporto carnale e sempre aveva rifiutato le sollecitazioni del padre affinché si svezzasse con qualche donna esperta e pratica.

L’insistenza del padre perché ciò avvenisse non era senza motivo, essendo anzi motivata dalla paura: don Salvatore Vizzini, infatti, certe volte aveva persino dubitato delle capacità virili del figlio e perciò avrebbe desiderato al più presto una disconferma.

Francesco mai aveva mostrato simpatia per qualche ragazza, nemmeno per una contadinella, come almeno aveva fatto lo scellerato del fratello Benito.

Per questo don Salvatore a un certo punto decise che fosse venuto il momento di intervenire.

Francesco aveva ormai ventiquattro anni e non si poteva più rimandare di tanto la decisione.

A San Fratello c’era una famiglia, quella dei Pirro, che piano piano, come quella dei Vizzini, si era fatta una bella posizione.

I Pirro avevano da tempo un commercio di animali, che essi compravano per poi rivenderli nella zona. Si trattava di mucche, cavalli e maiali.

Gli animali erano tenuti nelle stalle per poche settimane e poi rivenduti con discreto guadagno.

Da anni i Pirro facevano quel lavoro per il quale, a parte l’aspetto economico, non erano stati mai molto contenti.

La loro casa, poi, era situata proprio vicina alle stalle degli animali e non sempre riuscivano a difendersi dal caratteristico odore…

E poi bisognava sorvegliare le stalle, con tutto quello che c’era dentro, vedere se gli animali erano alimentati a sufficienza, farli curare quando si ammalavano.

Stanchi di queste cose, i Pirro avevano desiderato fortemente che i figli cambiassero completamente attività e perciò li avevano fatti studiare, li avevano seguiti assiduamente e alla fine avevano visti coronati i loro sforzi, avendo tutti i figli ottenuto un titolo di studio.

I genitori li avevano controllati da vicino, senza mai, neanche per un solo attimo, allentare l’impegno; erano, infatti, tanto desiderosi che i figli cambiassero vita da non consentire loro il minimo disimpegno nello studio.

Tuttavia, non dimenticavano mai di premiare ogni loro successo, in modo da stimolarli in concreto, oltre che affettivamente.

Concetta, la grande delle figlie, aveva vent’anni ed era maestra. Su di lei si pose l’attenzione di don Salvatore Vizzini, al quale quella ragazza sembrava il tipo adatto per Francesco.

Intanto aveva una buona dote, cosa che faceva piacere a lui, e poi era una donna tranquilla, che non avrebbe pertanto potuto… mettere paura al timido Francesco.

Per una piacevole coincidenza si sarebbe poi scoperto che Concetta aveva, da parte sua, una notevole simpatia per Francesco, ancor prima che si conoscessero.

Ella, infatti, lo aveva visto qualche volta e ne era rimasta favorevolmente impressionata.

In effetti, si trattava di un uomo grazioso, a giudicare da quello che dicevano di lui le donne, le quali rimanevano quasi offese se lui non prestava loro qualche attenzione.

Non che fosse bellissimo, però suscitava simpatia per la sua timidezza, forse anche curiosità perché non cercava le donne.

Concetta lo aveva visto qualche volta in chiesa, altre volte in piazza; non se n’era innamorata, ma aveva sperato proprio di poterlo conoscere.

Il destino volle che l’incontro fra i due avvenisse e sarebbe stato un incontro che li avrebbe legati per tutta la vita.

Don Salvatore Vizzini parlò prima con Francesco, temendone un rifiuto, ma con sorpresa poté verificare che il figlio non era per nulla schivo del problema; anzi, anch’egli aveva deciso che era arrivato il momento di prendere sposa.

Il giovane non aveva grandi ambizioni; solamente egli desiderava mettere su la propria casa, avere dei figli e vivere tranquillamente i suoi giorni.

Giusto allora aveva deciso di parlarne con il padre, ma quello lo anticipò, senza saperlo.

Quando Francesco seppe che la prescelta era Concetta Pirro ne rimase abbastanza contento, sapendo della sua semplicità e sagacia.

Non essendoci, dunque, ostacoli, affinché il fidanzamento fosse ufficializzato, anche in questo caso fu fissato un incontro fra le famiglie, che, naturalmente, avvenne nella casa dei Pirro.

Furono invitati i musicanti, i quali portarono l’allegria con le loro tarantelle e le suonate con il marranzano.

Quella musica e il dolce sapore della festa allontanarono, almeno per un attimo, i fantasmi di una guerra che la povera gente in cuor suo non voleva, ma che sentiva arrivare.

Si ballò e si consumarono dolci di mandorla e boccali di vino per tre giorni consecutivi.

In una saletta antistante il salone dove si teneva la festa i due padri avevano concordato, nel frattempo, le modalità di passaggio della proprietà.

La dote di Concetta era particolarmente ricca di pizzi e merletti, lenzuola ricamate a Cinquecento e tovagliati di Damasco; ma, oltre le casse colme di biancheria, Concetta avrebbe portato a Francesco un bel mazzo di bigliettoni.

Nel 1939 quei soldi contavano ancora; l’odore della polvere da sparo aveva impregnato tutta l’Europa ed erano tempi, quelli, in cui avere soldi era garanzia di non soffrire la fame durante la guerra, annunziata dall’alba del primo settembre.

Il matrimonio avvenne nel mese di luglio del ’39 e fu davvero l’ultima festa prima della gran tragedia dell’odio fra gli uomini.

Per fortuna Francesco non sarebbe partito per il fronte; egli sarebbe rimasto dietro al suo tavolo, impolverato, al Comune, mentre la moglie avrebbe fatto da maestra a tanti poveri bambini che da lì a poco sarebbero diventati orfani di padre.

Concetta Pirro fu una brava maestra, oltre che per i propri, anche per i figli degli altri,ai quali riuscì a stimolare l’amore per lo studio, in momenti in cui le distrazioni erano quasi d’obbligo.

I suoi figli, poi, fra tutti i nipoti di don Salvatore Vizzini, sarebbero stati gli unici a laurearsi.

 

 

6

 

 

A quel tempo Lorenzo aveva vent’anni; egli, perciò, non poté fare a meno di partire per il fronte.

Don Salvatore Vizzini aveva fatto il possibile per evitare che il figlio partisse, ma ogni suo sforzo si era rivelato vano; dunque, un triste giorno Lorenzo dovette fare le valigie e partire per il fronte.

Egli, in verità, non era scontento.

Da sempre era stato un ragazzo intraprendente, avventuroso, disposto alle esperienze più strambe. Sin da piccolo aveva amato andare su delle collinette di periferia a esercitare una sorta di elementare alpinismo: con corde, piccozza e chiodi si affannava a scalare i circa trenta metri di altezza di quelle modeste alture, mostrando una spregiudicatezza che solo la sua gioventù poteva spiegare.

Non si era mai tirato indietro da qualsiasi forma di gara, di antagonismo o di lotta, sempre voleva eccellere ed essere il primo. Quando non riusciva nel suo intento si adirava, prendeva mille e mille scuse per dimostrare che era stato ingannato o che la gara si era svolta in maniera irregolare.

Spesso, invece, era proprio lui a forzare le regole del gioco per spuntarla sugli altri e in quel caso non accettava mai le rimostranze dei compagni di gioco.

Una volta aveva accettato di giocare con la trottola siciliana, o come si chiama in dialetto “a strummula”, insieme con altri tre ragazzi che abitavano nei pressi della sua casa.

La strummula è una palla di legno, di piccola dimensione e di forma ovoidale, nella cui estremità più assottigliata è innestato un chiodo.

Un laccio avvolto nel chiodo fin quasi a metà della strummula, fatto scivolare velocemente, determina il movimento rotatorio della stessa, movimento che realizza la sostanza del gioco.

L’uso della strummula era assai diffuso fra i ragazzi di quel tempo, i quali dovevano arrangiarsi con quei modesti giocattoli per vivere un momento di divertimento.

Generalmente il gioco si svolgeva così: una strummula doveva essere lanciata a forte velocità dal suo proprietario; gli altri dovevano fare la stessa cosa, prendere poi la strummula nella palma della mano e, mentre la prima strummula girava ancora, poggiargliela sopra o, almeno, farle toccare.

L’importante era che le strummule si toccassero e il tutto doveva avvenire mentre l’altra girava ancora.

Chi non riusciva a farlo, passava sotto; l’abilità consisteva, dunque, nel fare tutto velocemente.

Il giovane Lorenzo si riteneva molto bravo in questo gioco, e di fatti lo era.

Un giorno, però, fu spesso battuto dai suoi compagni di gioco, per cui la sua strummula dovette stare sotto per quasi tutto un pomeriggio.

Egli andò su tutte le furie e in maniera disordinata e sconclusionata si mise a urlare agli amici che lo avevano preso in giro, che essi colpivano la sua strummula dopo che questa aveva finito di girare, che non era vero che le strummule si fossero toccate e così via.

Non era per niente vero; la sua era solo l’ira bollente di chi non voleva perdere, perché non è abituato a perdere.

Lorenzo se ne andò via borbottando e urlando parolacce:

«Non giocherò mai più con voi!» minacciava. «Non venite mai più a cercarmi!».

Ma quelli non gli credevano; sapevano che Lorenzo non sapeva stare da solo.

L’indomani, infatti, fu Lorenzo stesso a scendere in strada e a chiamare a raccolta gli amici.

«Avete le strummule?» chiese loro. «Bene! Allora giochiamo».

Non appena venne il momento che stava sotto la strummula di un altro, Lorenzo, con tutte le forze che aveva in corpo, indirizzò violentemente la sua strummula su quella dell’altro e, quella volta che la mira fu buona, il suo colpo fu tanto violento che spaccò in due la strummula dell’amico.

Questi rimase paralizzato di fronte alla crudeltà di Lorenzo, espressa con tanta partecipazione emotiva.

Lorenzo, infatti, quando tirava, serrava le labbra e quasi sgranava gli occhi.

Appena, poi, vide la strummula spaccarsi a metà egli corse dall’amico, dicendogli:

«Ti prego di scusarmi, non l’ho fatto apposta…».

La richiesta di scuse era in chiara opposizione con la sua aggressività, così chiaramente manifesta, ma di fronte a essa l’amico non poté che piangere lacrime salate, senza nulla poter dire a quel piccolo vandalo.

La cosa non finì là.

Da lì a poco, infatti, Lorenzo distrusse anche la strummula di un altro amico di gioco e a quel punto gli altri se ne andarono via furenti, ma anche impotenti.

Lorenzo, invece, se ne tornò a casa gongolante: la sua vendetta era stata compiuta!

Così fu tutta l’infanzia e l’adolescenza di questo ragazzo, così poco curante degli effetti del proprio comportamento sugli altri e a volte, addirittura, sfrontato e insolente.

A scuola egli pretendeva dai compagni di classe  il massimo aiuto e la collaborazione più stretta quando aveva bisogno, particolarmente nello svolgimento dei compiti di matematica. Allorché, invece, era lui ad avere la possibilità di aiutare gli altri, trovava sempre una banale scusa per fare in modo di evitarlo.

Era insomma uno che voleva tutto per sé senza dare mai nulla agli altri, verso i quali spesso nutriva sentimenti d’invidia e di gelosia.

Il giorno che partì per la guerra qualcuno, fra sé e sé, disse:

«Ben gli sta: imparerà un poco di disciplina e scoprirà com’è dura la vita».

Lorenzo, invece, salutava ad ampi gesti, aveva un gran sorriso sulle labbra e una inappropriata espressione di felicità.

Chissà quale avventura sognava, quel birbaccione!

Egli era certo che sarebbe diventato qualcuno, che avrebbe fatto carriera e che sarebbe tornato in paese con una medaglia al petto.

“Farò parlare di me tutto il paese” pensava. “Dimostrerò che sono capace di tutto”.

E roteava il fazzolettino bianco, mentre il treno si allontanava, singhiozzando, dalla stazione.

Il sole stava tramontando e gli ultimi raggi disegnavano il colore delle arance di quella terra nel cielo, quando don Salvatore Vizzini fece il segno della croce e pregò Iddio che quella non fosse l’ultima volta che vedeva suo figlio.

 

 

7

 

 

Giuseppe era il primogenito dei quattro figli di don Salvatore Vizzini ed era quello più simile a lui.

Egli sembrava nato e cresciuto proprio come lo voleva suo padre: era un grande amante della proprietà, era d’animo duro, rispettava e ossequiava la famiglia e, infine, non ultimo per importanza, era fedelissimo alla Patria quanto lo era alla Chiesa. Era, insomma, la perfetta incarnazione dello spirito dei Vizzini, del quale sembrava un autentico depositario.

Essendo, poi, il primogenito, egli doveva dare l’esempio ai più piccoli; perciò più volte egli si era sforzato di insegnare a Francesco che la eccessiva bontà appartiene ai fessi, mentre agli altri due fratelli aveva cercato di far capire quanto le loro insensate avventure danneggiassero l’immagine della famiglia.

A Benito, in particolare, egli non aveva mai perdonato quella frivola vicenda con la vanitosa contadinella e solamente quando si celebrò il matrimonio con la figlia del notaro Baglio egli fu certo che il fratello non avrebbe più commesso sciocchezze con le donne.

Fino all’ultimo, infatti, Giuseppe temette che Benito potesse mandare tutto all’aria, magari solo perché la futura moglie aveva da offrirgli in bellezza molto meno di quanto non potessero fare altre donne da lui conosciute.

Per fortuna, però, il linguaggio del denaro fu assai convincente per Benito e la grossa dote ricevuta gli rese un po’ più simpatica la moglie.

A suo tempo, Giuseppe aveva approvato pienamente il progetto del padre circa il prestito da offrire al notaro Baglio in cambio della mano di sua figlia. In quel modo Benito avrebbe messo la testa a posto, mentre la famiglia ne avrebbe acquistato in prestigio legandosi alla famiglia di un notabile del vicino paese.

L’unico che ebbe a ridire qualcosa in quella circostanza fu Lorenzo:

«Benito così non solo riceverà una grossa dote dalla moglie, ma riceverà da te, padre, un aiuto tanto cospicuo quanto non potremo averne noi altri figli, almeno nell’immediato» aveva detto rivolgendosi al padre.

Certo non era stato un caso che giusto Lorenzo facesse risaltare questo particolare, essendo egli il più avido di tutti e quattro i figli di don Salvatore Vizzini, in quanto a denaro.

Francesco, invece, non aveva detto una parola; per lui tutto andava bene, anche in quel caso.

Il primo a esprimere pieno assenso al padre era stato Giuseppe, il quale borbottò contro l’ultimo dei fratelli:

«Tu non capisci che forse perdi qualcosa tu, ma che in cambio ne guadagna tutta la famiglia. Per guardare al tuo, non vedi il miglioramento degli altri; eppure si tratta dei tuoi fratelli. In ogni caso» aveva finito, «papà ha deciso così e così si deve fare! Il notaro Baglio, seppure nel tempo, ci tornerà tutto quanto datogli».

«Anche quando sarà il tuo turno saprò come aiutarti» aveva tagliato corto don Salvatore, chiudendo così la discussione, mentre batteva le spalle di Giuseppe.

Tutta quella storia, in ogni modo, aveva avuto per il primogenito un significato particolare. Giuseppe, infatti, intuiva che nella mente del padre andava sempre più prendendo corpo un’ipotesi che lo riguardava assai da vicino. Egli sapeva che, essendo il primo dei figli, sarebbe toccato a lui sposarsi per primo; dunque, dato l’approssimarsi del matrimonio di Benito, il suo non era più lontano.

Inoltre, da qualche tempo aveva notato a casa sua un certo andirivieni di persone importanti, provenienti da Pietralunga, il paese degli Altavista.

La cosa non era passata a lui inosservata e su di essa Giuseppe aveva riflettuto a lungo, arrivando infine alla conclusione che il padre stava progettando il gran salto: l’alleanza con una nobile famiglia.

Non si sarebbe spiegato altrimenti quel viavai di gente in casa propria, particolarmente intenso nelle ultime settimane.

Una volta gli era pure capitato di poterne sapere di più quando, origliando dietro la porta dello studio del padre, aveva potuto cogliere qualche parola degli interlocutori e, soprattutto, un nome: quello di Concetta Altavista.

Qualche giorno dopo quest’ultimo episodio don Salvatore Vizzini, insieme con un suo fratello, era partito per Pietralunga, improvvisamente e senza dare spiegazione alcuna.

Erano partiti al levar del sole ed erano tornati solo all’imbrunire.

Quel misterioso viaggio aveva fatto pensare a Giuseppe che ormai mancava poco al grande annuncio.

Dopo pochi giorni, infatti, don Salvatore Vizzini lo convocò nel suo studio e, non riuscendo a nascondere una certa emozione, gli disse:

«Ho sempre confidato che tu saresti riuscito a portare la nostra famiglia al livello di nobiltà; so che tu sei il più adatto fra i miei figli per realizzare questo mio annoso progetto».

E continuò:

«Non potevo certo affidarmi a quell’impulsivo di tuo fratello Benito, per il quale abbiamo pensato la sistemazione più giusta; né potevo pensare a Francesco: è troppo buon cuore, quel ragazzo; lui ha da percorrere un’altra strada. Lorenzo, poi, è ancora troppo giovane e prima deve sistemarsi la testa. Di te, invece, mi fido; tu sei il più adatto!».

Dopo una breve pausa, concluse:

«Sappi che per te ho chiesto e ottenuto la mano di Concetta Altavista da Pietralunga; fra non molto sarete sposi!».

Giuseppe ebbe un sussulto.

Sapeva già, dentro di sé, che quell’annuncio sarebbe arrivato da un momento all’altro, per cui pensava che, quando il momento fosse arrivato, egli sarebbe rimasto impassibile.

Non fu così: un brivido gli percorse la schiena e l’emozione lo prese alla gola, tanto che non riuscì a dire altro che:

«Sì, papà».

Lo disse con la voce esitante di un bambino impaurito di fronte al maestro che vuole interrogarlo.

Il padre continuò:

«Certo, mi è costato parecchio sacrificio, ma sono sicuro che ne sarò ampiamente ripagato».

Non era stato facile, infatti, convincere don Giacomo Altavista; egli, infatti, avrebbe preferito dare in sposa la figlia Concetta a un altro nobile, ma l’offerta dei Vizzini fu assai significativa.

Quel furbo di don Salvatore Vizzini aveva fatto circolare la voce che il figlio Benito avrebbe sposato la figlia di notaro Baglio e questa voce era arrivata anche a Pietralunga, alle orecchie degli Altavista.

Don Salvatore desiderava che don Giacomo sapesse che la famiglia Vizzini non sarebbe stata solo una famiglia di ricchi proprietari terrieri e che, dunque, un’alleanza fra le famiglie fosse possibile.

Così non sarebbe stato, però, se la proposta non fosse stata accompagnata da una consistente offerta di denaro.

Non che gli Altavista ne avessero bisogno, ma i tempi erano brutti: la paura della guerra era già presente in tutti, insieme al folle desiderio di pochi di farla.

Si prospettavano, perciò, tempi grami.

Inoltre gli Altavista avevano sostenuto parecchie spese per la malattia di Rosalia e chissà quante altre ancora ne avrebbero dovuto, visto che ormai si erano convinti che la malattia della figlia era un mostro invincibile e che il danno era ormai cronico, senza una via di ritorno.

L’offerta di don Salvatore Vizzini era cospicua e allettante, ma don Giacomo Altavista aveva considerato soprattutto un altro dato: che nessun nobile si era fatto avanti per chiedere la mano della figlia Concetta.

Egli se ne era fatto un cruccio.

«Come mai?» si era chiesto a lungo.

Non aveva saputo darsi una risposta, ma un tarlo gli bucava la mente.

Concetta, infatti, non aveva difetti ed era stata cresciuta come si conveniva a una ragazza di nobile famiglia. La nonna della giovane le aveva insegnato le virtù e le aveva coltivato la giusta disposizione d’animo e da parte sua la ragazza aveva appreso benissimo gli insegnamenti. Infatti, ella sapeva conversare brillantemente, dimostrava un’ottima cultura e conosceva perfettamente le norme della buona creanza. Era rispettosa della famiglia e della religione, andava a messa tutte le domeniche e non dimenticava mai di rinsaldare il vincolo spirituale con il divino ricevendo la comunione.

Concetta, poi, aveva saputo anche curare la bellezza e il proprio corpo; era assai graziosa e aveva una bella silhouette.

Aveva, insomma, tutto quello che si poteva chiedere a una ragazza del suo rango.

Eppure nessuno si era fatto avanti per chiederne la mano, pur essendo ormai in età di maritarsi.

Don Giacomo qualche volta aveva accennato della propria preoccupazione alla moglie:

«Perché nessuno chiede la mano di nostra figlia Concetta?» le chiedeva con fare nervoso.

E quella, evitando di fare altrettanto e, anzi, ostentando serenità, rispondeva:

«Vuol dire che non è arrivato ancora il suo momento».

«Ma è già in età di prendere marito!» ribatteva don Giacomo. «Quando io ti ho sposata» le ricordava, «tu eri più piccola di tua figlia!».

«Arriverà il suo momento» replicava a bassa voce la moglie.

«Noi abbiamo fatto tutto quanto c’era da fare?» continuava don Giacomo, in modo tale da evidenziare come, in effetti, interrompesse se stesso, più che chiedere realmente alla moglie.

«Certo, certo» faceva quella.

«Abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare».

Don Giacomo Altavista non voleva ammetterlo nemmeno a se stesso ma, come detto, lo tormentava un dubbio atroce: che in tutta la faccenda in qualche modo entrasse la malattia della figlia Rosalia!

Spesso questa idea gli balenava nella mente, facendosi strada fra tanti altri pensieri che la affollavano; ma don Giacomo faceva come per buttare fuori della finestra un oggetto vecchio nella notte di Capodanno.

Si faceva quasi forza per non prendere in considerazione la maledetta ipotesi. Quella, comunque, tornava sempre a farsi presente.

E poi, a cos’altro doveva pensare?

A volte era arrivato persino a decidere di non fare più ritornare a casa la figlia Rosalia, di lasciarla per sempre in manicomio, o magari fino a quando Concetta non avesse preso marito.

Pur senza svelarne le segrete ragioni, qualche volta don Giacomo era arrivato a parlarne alla moglie, giustificando la sua proposta con la necessità che Rosalia si allontanasse per un tempo più lungo dalla casa materna, per stare più tranquilla, perché non si riverberassero dentro di lei le forti emozioni sollecitate dall’incontro con i familiari.

Pensava a dissuaderlo proprio la figlia Concetta.

Non che il padre si azzardasse a farle parola della sua preoccupazione, ma quella non faceva altro che aspettare il ritorno della sorella e sempre con la speranza di riaverla sana, una volta per tutte.

Come avrebbe potuto il padre dirle che non voleva che rivedesse la sorella? Cosa mai avrebbe dovuto inventare per giustificarlo?

La moglie, anche lei, non era per niente d’accordo; dentro di lei batteva il cuore di una madre e una madre, che non sia sregolata, può solo desiderare il ritorno a casa di una figlia malata.

Don Giacomo non aveva la forza e il coraggio di dire alla moglie il vero motivo di quella che appariva come una strana e incomprensibile richiesta: anch’egli, infatti, se ne vergognava un po’.

Perciò rischiava di passare agli occhi della moglie come un padre cattivo, che non ama la propria figlia caduta in disgrazia. Né la moglie sapeva spiegarsi l’improvviso cambiamento nel marito, che lei aveva sempre conosciuto come un ottimo padre.

Pure lei, poveretta, non poteva capire cosa si agitava dentro la mente del marito; e se pure avesse capito si sarebbe vergognata ancor più di lui a parlarne.

Fu così che l’offerta di don Salvatore Vizzini arrivò al momento giusto.

Il padre di Giuseppe non sapeva nulla delle vicissitudini interiori di don Giacomo Altavista e non pensava neppure lontanamente che un triste evento del destino stesse giocando a favore della realizzazione del suo desiderio.

Egli sapeva della malattia di Rosalia Altavista, ma ad essa non aveva dato alcuna rilevanza; quello a cui guardava era ben altro, ed è chiaro a cosa.

Quando don Giacomo, dopo una settimana di notti insonni, decise di accettare la proposta di don Salvatore Vizzini e gliene riferì, quest’ultimo sentì come se dentro di sé qualcosa si gonfiasse: la gioia gli aveva riempito i polmoni, per questo dovette espirare profondamente prima di proferire qualche parola di circostanza.

Tutto ciò avvenne il giorno che Giuseppe, il figlio, lo aveva visto partire all’alba, insieme con uno zio, alla volta di Pietralunga.

Fu deciso, dunque, l’incontro fra le due famiglie, incontro che avvenne poco dopo e che fu curato nei minimi dettagli.

In particolare fu la famiglia Vizzini a non voler tralasciare nulla, dato che volevano dimostrarsi all’altezza della situazione e non sfigurare di fronte a quella famiglia nobile.

Il giorno fissato per il fidanzamento, quindi, concluse un lungo periodo di faticosi preparativi.

Genitori a parte, il più felice di tutti era Francesco: egli voleva tanto bene ai fratelli che non aveva detto nulla in contrario circa l’aiuto che il padre avrebbe dato a Benito e a Giuseppe ed era raggiante perché il primogenito andava a sposare una ragazza nobile.

Egli era convinto che tutta la famiglia ne avrebbe ricevuto in prestigio e onore e segretamente sperava che ciò lo avrebbe aiutato anche nel suo rapporto con la gente.

Francesco, come sappiamo, non era violento come il resto dei figli di don Salvatore Vizzini, ma nonostante tutto era pur sempre uno di loro.

Ora che i Vizzini andavano a imparentarsi con gli Altavista egli era sicuro che le cose sarebbero un po’ cambiate, anche perché, così sperava, i fratelli si sarebbero dovuti ridimensionare, apparire un po’ migliori di quanto non avessero fornito prova di essere prima.

Benito, invece, era, paradossalmente, quasi scontento.

Non poteva fare a meno di pensare che Concetta Altavista era più interessante, come donna, della sua futura sposa, cosa che poté verificare appena gli fu dato di saziare la curiosità di conoscere la futura cognata, della quale gli avevano detto un gran bene.

Ma c’era dell’altro in Benito Vizzini.

Mentre prima il padre, essendo disposto a pagare i debiti di notaro Baglio in cambio della grossa dote della figlia, gli era sembrato offrirgli il massimo dell’aiuto che un padre può dare a un figlio, adesso egli intuiva che l’impegno economico per il matrimonio del fratello Giuseppe era ben più cospicuo.

Inoltre, Benito aveva sentito dire che il suo fidanzamento con la figlia del notaro Baglio era stato, per così dire, preparatorio del fidanzamento del fratello Giuseppe con Concetta Altavista.

Non aveva saputo, perciò, nascondere qualche gesto di stizza e di disappunto, ma aveva dovuto controllarsi.

Anche Lorenzo aveva espresso qualche perplessità, come aveva già fatto in occasione del fidanzamento del fratello Benito, ponendo il problema del suo futuro:

«Cosa resterà per me?» aveva chiesto al padre.

Non che egli avesse la benché minima intenzione di prendere moglie; semplicemente lo spaventava il fatto che il padre aveva dovuto impegnarsi molto per i fidanzamenti di Benito e di Giuseppe. Solo per questo protestava, senza comunque avere l’ardire di contestare.

Il padre, quasi con insofferenza, gli aveva ripetuto la frase che gli aveva detto nella precedente occasione:

«Saprò come aiutarti, quando verrà il tuo momento!».

Vestiti di tutto punto e con un’ottima parure di gioielli, pegno del fidanzamento per la futura sposa, un bel giorno i Vizzini partirono alla volta di Pietralunga.

Erano accompagnati dalle famiglie delle due sorelle e del fratello di don Salvatore, lo stesso che lo aveva accompagnato in precedenza dagli Altavista.

Benito, inoltre, portava con sé la fidanzata e la sorella di lei.

Quando arrivarono a Pietralunga erano le undici del mattino di una giornata primaverile del 1936.

La casa degli Altavista era adornata a festa, quasi come lo era ogni anno in occasione della festività della Madonna delle Grazie.

Don Giacomo, infatti, aveva voluto che il fidanzamento avvenisse con un certo sfarzo, affinché nessuno avesse a pensare a una soluzione d’accomodo per il fidanzamento della figlia. Voleva che si pensasse che quel fidanzamento era lo stesso, se non migliore, rispetto a quello che avrebbe potuto fare la ragazza con un giovane nobile come lei.

Nella piazzetta di Pietralunga, antistante la casa degli Altavista, si era radunata una piccola folla di curiosi, venuti a vedere la famiglia dei Vizzini, per conoscere personalmente quella famiglia proveniente dal vicino paese di San Fratello.

La gente aveva parlato molto di quel fidanzamento, perciò c’era un gran desiderio di rendersi conto di chi fosse lo sposo.

 

Certo, non erano mancati i commenti, ed erano stati i più vari.  Fortunatamente, però, gli Altavista erano tanto voluti bene dai loro concittadini che non venne fuori alcuna malignità nei loro confronti.

Semmai gli abitanti di Pietralunga erano venuti a sapere che a San Fratello i Vizzini non godevano affatto degli stessi sentimenti che essi indirizzavano agli Altavista…

Dunque, i Vizzini arrivarono a Pietralunga preceduti da una fama poco buona e con qualche riserva sul loro conto.

Don Giacomo aveva preparato le cose con grande sfarzo anche per questo.

Il grande portone dl casa Altavista era spalancato e ornato a festa, con grandi mazzi di fiori ai lati; dal balcone sovrastante scendeva un drappo con lo stemma della casa, che faceva il paio con il fregio del portone.

A differenza che durante la festività della Madonna delle Grazie, questa volta i segni nobiliari dovevano essere messi in tutta evidenza: così aveva ordinato don Giacomo.

All’interno della casa si poteva ammirare la cura con cui era stato abbellito il cortile interno, mentre alle pareti delle stanze si potevano ammirare tutti i segni di nobiltà di casa Altavista.

I cuochi, da parte loro, erano stati invitati a preparare uno di quei banchetti che solo una volta l’anno venivano preparati in casa Altavista.

Concetta era stata vestita a meraviglia!

Un bellissimo abito di bianca seta, dalle morbide pieghe, le donava uno slancio pari alla eleganza della persona.

In compagnia della madre ella attendeva con ansia l’arrivo dei Vizzini, poiché ancora non conosceva colui il quale doveva essere l’uomo della sua vita.

Quando la famiglia dei Vizzini arrivò fu fatta accomodare nel grande salone, arredato da comodi sofà e splendidi salotti, alle cui pareti stavano i quadri raffiguranti i parenti vicini e lontani degli Altavista.

Gli occhi di Giuseppe, in ogni modo, erano tutti per Concetta.

Egli fu colpito dalla leggiadria con cui la donna gli si presentava, non solo quella degli abiti, ma soprattutto quella dei suoi movimenti, dalla grazia che esprimeva mentre parlava o anche quando solamente ascoltava.

Ella, infatti, non era mai forzata nei suoi atteggiamenti e tutto le veniva spontaneo, naturale. In fondo le veniva facile apparire in quel modo, perché quello era il suo modo di essere.

Concetta Altavista metteva così a frutto gli insegnamenti che la nonna le aveva impartito durante i lunghi pomeriggi passati insieme.

La nonna se ne era andata da qualche anno, ma dentro la ragazza i suoi moniti erano rimasti scolpiti come in una roccia.

Giuseppe si innamorò subito di quel modo di fare e il suo cuore palpitò immediatamente per quella donna, della quale gli avevano parlato tanto bene, ma della quale solo ora poteva riconoscere che la realtà era all’altezza della fama che la precedeva.

Non si può affermare che Concetta Altavista avesse potuto cogliere altrettanto in Giuseppe; questi, infatti, era molto diverso da lei.

Gli mancava la finezza dei gesti e degli atteggiamenti, il suo volto aveva lineamenti duri e gli occhi erano poco espressivi.

Non che quell’uomo fosse sgradevole, tutt’altro. Egli era un uomo forte, aitante, sicuro di sé.

La sua esistenza, tuttavia, era stata fondata solo sulla ricerca di nuovi possessi; non c’era stato spazio per gli affinamenti delle relazioni e per l’approfondimento delle buone norme.

Egli sapeva quello che bastava sapere e nulla più.

Velocemente, negli ultimi giorni, i Vizzini avevano tutti tentato di apprendere qualche nuova condotta, ma non era stato facile fare in fretta…

Concetta comprese subito tutto ciò, ma non si scompose né si scoraggiò. Pensò che piano piano e con il suo aiuto il futuro sposo avrebbe imparato.

D’altronde sapeva che Giuseppe Vizzini non era di nobile famiglia; l’avevano informata sui Vizzini alcuni amici, i quali avevano raccolto le voci provenienti da San Fratello. Nulla, dunque, le risultò sorprendente di quell’uomo, il quale, nonostante tutto, non le dispiacque.

Fatte le presentazioni di tutti i familiari, i convenuti furono invitati nel salone, là dove la conversazione li accompagnò a una conoscenza più approfondita.

Da lì a poco arrivò il momento dello scambio dei doni.

Da parte dei Vizzini fu donato alla ragazza uno scrigno contenente la parure di gioielli, fatti comprare appositamente nelle migliori gioiellerie di Catania.

Quei gioielli erano veramente belli e Concetta ne fu molto colpita. Pari fu l’apprezzamento dei genitori per i doni che furono offerti pure a loro.

Gli Altavista non furono da meno e anch’essi porsero i loro doni ai Vizzini.

A Giuseppe regalarono un orologio d’oro fatto comprare a Catania, mentre alla madre del fidanzato regalarono dei candelabri d’argento, molto belli.

La festosa atmosfera si trasferì poi a tavola, alla quale furono chiamati alle tredici in punto, usuale ora del pranzo da quelle parti.

Gli ospiti furono accompagnati nella sala da pranzo, dove si poteva ammirare lo splendido buffet, le luccicanti argenterie e i meravigliosi tovagliati.

Concetta sedeva vicino al suo fidanzato, alla destra del padre. Finalmente ebbe così la possibilità di sentire parlare Giuseppe.

Più che per Giuseppe, una naturale simpatia Concetta ebbe per Francesco, del quale la colpirono la riservatezza e la timidezza, accompagnate dal garbo discreto e dalla buona cultura.

Viceversa uno degli osservatori più attenti di Concetta Altavista fu Benito, il quale così suscitò un moto di gelosia da parte della sua fidanzata, la quale, per fortuna, seppe controllarsi, altrimenti l’atteggiamento di Benito avrebbe potuto determinare in lei una dura reazione.

Tutto, invece, andò secondo il verso giusto e la festa si concluse come previsto, per la soddisfazione di tutti.

In una delle salette accanto al grande salone, i genitori di entrambi i fidanzati non avevano perso, nel frattempo, l’occasione di fissare la data delle nozze, che si sarebbero celebrate entro poche settimane, data la volontà di don Salvatore Vizzini di concludere in fretta l’affare.

Qualche mese più tardi, infatti, nel mese delle rose, Concetta Altavista e Giuseppe Vizzini si sposarono.

Un lungo velo cingeva il capo di donna Concetta, la quale fu accompagnata all’altare della Chiesa Madre di Pietralunga dal braccio del padre, don Giacomo.

Quest’ultimo era emozionatissimo e a stento tratteneva le lacrime, le quali, invece, solcavano abbondanti il viso della moglie.

Donna Concetta, vezzosa come non mai, vestiva un bellissimo abito bianco, di pizzo, fatto confezionare da un sarto catanese, appositamente fatto venire a Pietralunga.

Persino Rosalia Altavista era commossa.

Ella era stata fatta venire apposta per la festa, dato che la sua assenza si sarebbe notata assai più che la presenza.

Era stata preparata a puntino: l’avevano lavata e profumata all’occorrenza e fatta vestire con un abito blu con i fiorellini rosa, oltre che delle piccole farfalle in volo, che le donava davvero molto.

Per quanto strano, in quella occasione, quasi che Rosalia volesse fare completamente felice la sorella Concetta, sembrava che la sua malattia fosse del tutto scomparsa; il suo comportamento, infatti, era adeguato e non dava adito a nessun rilievo di sorta.

La sua emozione sorprendeva assai in confronto alla abulia, all’assenza di emozioni, all’incapacità di partecipare pienamente all’ambiente circostante solitamente esibite.

Era, insomma, irriconoscibile rispetto a tutti i giorni che avevano seguito quella disgraziata mattina in cui un medico palermitano le aveva riscontrato i segni della follia.

Anche Giuseppe Vizzini era vivamente emozionato; tuttavia egli cercava di celarsi dietro a un atteggiamento serioso e, al limite, altezzoso: dentro di lui, oltre alla emozione del matrimonio, si agitava la fierezza di essere il rappresentante dei Vizzini, di una famiglia che attraverso il suo matrimonio con Concetta Altavista andava a fare il grande salto, da tempo agognato.

Davanti alla chiesa, in attesa della sposa, egli si muoveva rigidamente e sembrava quasi insaccato dentro al suo abito blu doppio petto. Si limitava solamente a voltarsi leggermente, a destra e a manca, per elargire qualche sorrisetto di circostanza agli intervenuti.

Quando la sposa arrivò, don Giacomo la consegnò al braccio di Giuseppe e i due sposi si avviarono lentamente verso l’altare.

Gli altri familiari seguivano i genitori degli sposi, i quali stavano in testa al piccolo corteo che si avviava dal sagrato verso l’interno della chiesa; dietro a loro c’era tanta gente.

L’invito alla partecipazione alla cerimonia era stato esteso appositamente a tutti i cittadini di Pietralunga e per quel giorno, perciò, solo in pochi andarono a lavorare. Andarono solo coloro che dovevano svolgere lavori essenziali, mentre tutti gli altri, vestiti a festa, erano ad assistere al matrimonio.

Si erano distribuiti in due ali, che segnavano lo spazio al passaggio dei familiari degli sposi, dall’inizio della piazza sino alla piccola gradinata della Chiesa Madre.

Qui il parroco era ad attendere ansiosamente.

Anche per lui quello era un gran giorno; egli, infatti, era cosciente che andava a celebrare il matrimonio più importante della sua carriera ecclesiastica.

Per l’occasione, in verità, era stato invitato a celebrare il rito nuziale il Vescovo della diocesi, ma all’ultimo momento egli aveva fatto sapere di non potere essere presente, perché fortemente indisposto. Egli ne fu sinceramente rammaricato, data l’amicizia e la stima, reciproca, da sempre intercorsa con gli Altavista.

Per contro ne fu felice padre Nicola, il quale ebbe a sostituirlo. Perciò aveva tirato fuori dai vecchi cassettoni gli ornamenti più belli e più vistosi: la stola e la pianeta brillavano sul suo petto, sull’avambraccio sinistro il manipolo.

Anche i due diaconi indossavano la più ornata delle dalmatiche.

La gioia era dipinta nel loro volto, assommata all’ansia di fare presto, tanto che poi parve al celebrante che il rito fosse finito subito dopo che era cominciato.

Egli aveva preparato un discorso adeguato alla circostanza, ma nel momento del commento della Parola del Signore, preso come era dall’emozione, ne dimenticò alcune parti.

Comunque, seppe avere belle parole, non solo per i due sposi, ai quali diede la sua personale benedizione, ma anche per tutti i convenuti alla festa.

Finita la cerimonia religiosa furono offerti ai presenti ceci e semenze, nella più antica tradizione del posto. Poi solo i familiari andarono nella casa degli Altavista, all’interno della quale, nel salone più grande, fu consumato il lauto pranzo.

Donna Concetta sembrava, paradossalmente, la più tranquilla di tutti; ella continuava a muoversi con tale deliziosa grazia da essere al centro di tutte le attenzioni. Inoltre, seppe essere all’altezza della situazione in ogni momento. Arrivò persino a consolare la madre, la quale già piangeva la sua partenza per il breve giro di nozze.

Nonostante la giovane età, dunque, ella fornì prova di avere raggiunto pienamente una maturità tale che, insieme agli insegnamenti ricevuti, le consentiva il suo splendore.

Purtroppo, però, qualcosa doveva guastare la sua giornata più bella; ancora non lo sapeva, ma mancava poco perché sapesse.

Terminata la festa, infatti, Concetta dovette prendere atto che da lì a innanzi avrebbe avuto un altro grande problema, oltre a quello della sorella Rosalia: don Giuseppe, il marito.

Questi le presentò subito la sua diversa immagine, il suo diverso carico culturale, lo stile differente.

Pure avendo percepito la fine sensibilità della giovane moglie, don Giuseppe Vizzini non riuscì a comportarsi adeguatamente con lei, sin dalla prima notte d’amore.

Forse perché toccato dai fumi dell’abbondante vino consumato nella ricca tavola, ma più probabilmente perché altrimenti non gli avevano insegnato, egli stravolse i romantici desideri di donna Concetta, da tanto tempo gelosamente coltivati e custoditi, con un comportamento poco tenero e, anzi, fortemente egoistico ed aggressivo.

Smanioso di possedere la moglie, don Giuseppe sembrava aver fretta di concludere il rapporto nel minore tempo possibile, quanto gli bastò per raggiungere il suo piacere. Poi, senza avere ancora detto una sola parola d’amore, egli si addormentò, non riuscendo neanche a trattenere un sinistro sibilo, che sembrava il segnale d’arrivo di una nave nel porto.

Donna Concetta non riuscì a fermare le lacrime: per anni aveva sognato una prima notte d’amore assai diversa!

Tuttavia si fece forza e, forte del suo ottimismo di sempre, cercò di giustificare il marito e si convinse che nel proseguo egli sarebbe stato diverso, poiché lei l’avrebbe aiutato a cambiare.

Non poté evitare, lo stesso, che nella sua mente si insinuasse un dubbio tanto triste, riguardo all’uomo che aveva appena sposato.

Per sua fortuna donna Concetta Altavista non ebbe i problemi che hanno, in genere, le donne che mettono su casa.

Suo padre, infatti, volle che lei e il suo sposo abitassero la sua casa, la stessa dove Concetta era nata e cresciuta. Padre e madre sarebbero andati ad abitare in un’altra casa, in campagna, a pochi chilometri dal paese, anch’essa molto bella e riccamente arredata, dove erano soliti passare i periodi di vacanza estiva.

Don Giacomo volle così segnalare l’ideale continuità della famiglia Altavista. Egli, infatti, non aveva avuto figli maschi e perciò doveva affidare a quell’unica figlia maritabile il suo prestigio e le sue proprietà.

Donna Concetta fu particolarmente felice della scelta del padre; ella poteva così continuare a vivere nel posto che le era familiare, del quale conosceva ogni minuscolo segreto e che per lei non aveva nessun riserbo.

Già avevano pensato a tutto: quella che era stata la sua camera sarebbe diventata la stanza del suo primogenito, mentre il salone sarebbe rimasto così com’era. Qualche modifica avrebbe voluto apportare, invece, alle altre stanze, magari solo per quanto riguardava l’arredo, per renderlo un po’ più vicino ai suoi gusti, più moderni rispetto a quelli dei suoi genitori.

Le sue intenzioni erano sempre così salde e sicure da ricevere in ogni occasione l’assenso del marito, il quale, per altro, non avrebbe saputo opporre validi argomenti di contrasto.

Solamente egli volle per sé decidere circa lo studio, che a suo parere conteneva troppi libri e pochi contratti.

Egli avrebbe anche voluto cambiare destinazione alla stanzetta dove alloggiava Rosalia, quando ella veniva a trascorrere i brevi periodi di permanenza a casa, ma a tale progetto si oppose fermamente la moglie:

«Questa stanza rimane così com’è!» affermò donna Concetta con sicuro cipiglio.

«Tua sorella potrebbe andare ad abitare con i suoi genitori, in campagna» aveva provato a opporre il marito.

«Certo, lei deve potere decidere dove andare» replicò la moglie, «ma deve sapere che qui c’è sempre il suo posto, che se vuole può venire a stare qui, con sua sorella!».

Molto a malincuore, disturbato com’era dall’idea di ricevere una pazza in casa, don Giuseppe alla fine dovette accettare, non senza aver secreto molta bile.

Egli non riusciva a capire la testardaggine della moglie, il suo incaponirsi nel non voler modificare quella stanza; d’altronde, egli pensava, Rosalia non sarebbe rimasta certo senza dimora, considerato che i suoi genitori avevano abbastanza spazio per lei.

Ma c’era qualcosa di più: egli non riusciva ad accettare che la moglie decidesse per lui!

Quella donna era troppo sicura di sé; obbediente e rispettosa, ma decisa. Difficilmente cambiava idea e non lo faceva mai solo per compiacere il marito.

Questi, abituato com’era a discutere fra uomini, si trovava in serio imbarazzo a discutere con lei e un impulso d’ira lo prendeva ogni qualvolta la donna interveniva nella discussione, negli affari fra uomini.

Donna Concetta, da parte sua, non voleva minimamente cercare di sopraffare il marito; più semplicemente, era sempre lei ad avere qualcosa di buono da dire. Aveva sempre un utile suggerimento da dare, mostrava una maggiore conoscenza di tante cose e anche una maggiore sensibilità nel percepire le situazioni.

La permanenza di donna Concetta in quella casa consentì, inoltre, che fosse continuata la tradizionale riunione di famiglia in occasione della festa della Madonna delle Grazie.

Don Giuseppe inizialmente era d’avviso contrario; egli, infatti, avrebbe voluto che la sua casa non fosse più sede degli incontri della famiglia Altavista.

Anche in questo caso non riusciva a comprendere come non potesse essere un’altra la sede da utilizzare all’uopo.

Ebbe a parlarne con suo padre, don Salvatore, ma questi, senza impiegare troppo tempo nella riflessione, gli consigliò senz’altro di accettare che la tradizione continuasse, così come era stato da sempre.

Solo così il figlio si convinse ad accettare.

Don Salvatore Vizzini comprendeva bene come una rottura della tradizione sarebbe stata imputata di certo all’arrivo in quella casa dei Vizzini e questo sarebbe stato il parere non solo dei parenti degli Altavista, ma anche di tutta la popolazione di Pietralunga. Egli, invece, voleva che il figlio si inserisse in quella famiglia, in nome di tutti i Vizzini, in un modo che fosse il meno possibile traumatico, quasi naturale.

La sua saggezza di uomo anziano gli faceva comprendere bene tutto ciò, mentre l’irruenza del figlio non consentiva la stessa ampiezza di vedute.

Don Salvatore, semmai, impose al figlio Giuseppe e alla nuora che essi si recassero a San Fratello, per una riunione di famiglia, ogni anno, in occasione delle festa del patrono del paese.

Fu così, dunque, che il giorno della Madonna delle Grazie gli Altavista continuarono a riunirsi nella loro vecchia casa, come facevano da sempre.

Si attendeva che la processione si fermasse dinanzi all’icona, posta sul frontespizio della casa; che fosse impartita la benedizione e, infine, lo scoppio dei petardi.

Dopo di che tutte le famiglie rientravano, per festeggiare nelle case la ricorrenza.

In quelle occasioni donna Concetta cominciò a dimostrare tutte quelle capacità che, negli anni, l’avrebbero portata a essere il punto di riferimento di tutti i parenti.

Ella, infatti, dava continuamente prova di sapere usare l’arte della diplomazia, di sapere sempre dare un buon consiglio, di sapere risolvere ogni controversia.

Annualmente, dunque, il ritrovarsi della famiglia Altavista a Pietralunga era l’occasione per la rappacificazione, per la ripresa dei sentimenti di comune appartenenza e di fratellanza.

A tutti quella giovane donna ricordava la nonna, dalla quale aveva appreso gli insegnamenti e della quale adesso prendeva sempre più il ruolo e le sembianze.

Anche all’esterno della famiglia donna Concetta andava ad assumere il ruolo di amata dal popolo, benvoluta da tutti. Presto, infatti, avrebbe saputo dare prova anche di magnanimità.

 

8

 

Il suo matrimonio precedette di poco lo scoppio della guerra e perciò quelli che erano prima tempi miseri presto sarebbero diventati tempi di miseria.

Gli uomini erano partiti per la guerra e pochi di loro erano rimasti a curare la terra, affinché producesse ancora.

Rimasero soprattutto i più vecchi, mentre le donne erano rimaste sole con i bambini, il cui pianto di fame raramente era placato dalla sazietà. Trovare qualcosa da mettere sotto i denti era difficile; qualche volta si riusciva a macinare con un pesto un poco di grano e, con quello, a fare una pagnotta da distribuire, morso a morso, a tante boccucce spalancate, come quelle degli uccellini che nel nido attendono l’arrivo della madre con un piccolo verme nel becco.

Talvolta si stava giorni interi a mangiare solamente qualche filo d’erba edule, generosamente prodotto dalla terra.

Quando la situazione cominciava a diventare estremamente precaria, una madre andava da donna Concetta Altavista e non tornava mai a mani vuote.

La signora doveva fare tutto ciò di nascosto da don Giuseppe, il quale non avrebbe mai accettato di disperdere così le sue risorse.

Quelle rare volte, infatti, che egli vedeva arrivare a casa sua qualche donna bisognosa, si adirava moltissimo, urlava e quasi si dimenava:

«Cosa volete che vi dia? Il mio sangue?» urlava, mentre si dirigeva verso la poveretta. «Anche per noi c’è la guerra! Provvedete a voi come noi provvediamo a noi!».

In quelle circostanze donna Concetta Altavista non riusciva ad aiutare la sventurata, la quale andava via delusa.

Quella, però, tornava immediatamente dopo, o al massimo l’indomani, perché sapeva che prima o poi avrebbe avuto la fortuna di non incontrare don Giuseppe.

E così accadeva.

All’interno di un cortiletto scarsamente frequentato e poco visibile, donna Concetta Altavista riusciva sempre a distribuire qualcosa e a tamponare provvisoriamente le pene della povera gente.

Ah! Se il marito l’avesse vista!

Per fortuna i domestici erano tutti con lei; mai nessuno di loro si sarebbe permesso di farne rivelazione al capo della casa.

Questi arrivava ogni sera borbottando, lamentandosi con la moglie di qualche avversità, sempre temendo per quello che sarebbe successo il giorno dopo.

Alla fine, comunque, dichiarava sempre la sua fede nel Governo, per tutto quello che faceva, certo com’era della vittoria finale.

Egli era stato uno dei pochi fortunati, insieme al fratello Francesco, a essere esonerati dal servizio militare; lui in quanto primogenito, il fratello perché occupato al Comune.

Erano invece partiti Benito e Lorenzo.

 

9

 

Di Lorenzo abbiamo già ricordato il giorno in cui molti pensarono, fra sé e sé: “La guerra lo aiuterà a diventare migliore e, soprattutto, più disciplinato e meno violento”. “Solo un maresciallo ci può con quello!”

E lui salutava, agitando d

Così com’era stato per il più grande dei figli di don Salvatore Vizzini, anche le nozze di Benito con la figlia minore del notaro Baglio, Isabella, furono celebrate con il massimo sfarzo.

Questa volta, però, toccò alla famiglia Baglio sostenere lo sforzo economico e organizzativo, per rassicurare la popolazione, affinché il matrimonio non fosse visto solo come un mezzo per pagare i debiti contratti dal notaio, quella maledetta notte, per colpa del diabolico vino.

Se solo egli avesse potuto cancellare quella data!

Il senso di colpa del notaro era tremendo; quando egli restava solo stringeva la testa fra le mani, quasi a volerla stritolare, mentre qualche lacrima bagnava il suo viso.

Aveva sperato ben diversamente per le sue figlie, all’avvenire delle quali aveva dedicato ogni stilla del suo sudore, e aveva lavorato davvero molto.

Solamente si concedeva delle pause serali, durante le quali fumava un paio di sigari e si divertiva a scoprire se la dea bendata voleva regalargli una bella serata oppure qualche fastidio notturno.

Non avrebbe mai pensato che il divertimento potesse trasformarsi in una tragedia così grande per lui.

Se solo avesse potuto cancellare quella maledetta sera!

Ora la figlia andava a sposarsi quasi costretta a farlo.

Per carità! Nessuna pressione indebita, nessun ricatto più o meno morale.

La ragazza aveva dato una convinta adesione e poi ella era rimasta assai… colpita dalla abbondante gioielleria ricevuta al momento del fidanzamento e già sognava di diventare un’ammirata signora della Catania bene.

Isabella Baglio, inoltre, era la più convinta fra tutti circa le qualità del marito. Lo vedeva così deciso, forte, sicuro e perciò ancor più si convinceva che sarebbe diventato qualcuno e, dunque, qualcuno anche lei.

Il Partito lo avrebbe aiutato, pensava, poiché egli aveva dato prova di adesione e di fedeltà già da tempo e la sua partecipazione alla spedizione punitiva della squadraccia nera ne era la più piena testimonianza.

Il calcolo della ragazza forse era troppo semplice, ma lei non capiva molto di politica, né si interessava molto ai fatti sociali. Ella pensava molto più a se stessa che agli altri, compresa la sorella maggiore, la quale sarebbe rimasta con una dote quasi inconsistente, rispetto a quella che le era stata destinata e che quasi completamente era andata alla minore delle figlie del notaro.

al finestrino il suo fazzoletto bianco, con un’aria sorridente e ingenua, certo da incosciente.

Egli riteneva che stesse per vivere la sua più grande avventura, la più eccitante fra quelle vissute.

«Al mio ritorno ci sarà la fanfara» pensava, commuovendosi al solo pensare a se stesso ammirato da tutti.

Il sole tramontava quando il treno s’infilò dentro la buia galleria e scomparve.

Lorenzo se ne andava giusto nel mentre Benito cominciava i suoi preparativi. Egli si era sposato circa due anni prima, appena sei mesi dopo il matrimonio di Concetta Altavista con il fratello Giuseppe al quale spettava la precedenza, quale primogenito.

“La fortuna, come ha aiutato me, darà una mano anche a lei”. Così placava il suo appena accennato senso di colpa Isabella.

Ella, invece, si vedeva già a passeggio per le vie di Catania o di Palermo, giusto mentre le prime bombe scoppiavano in qualche parte del mondo; ma lei era abituata a pensare solamente a se stessa.

“Nessuno si piglia se non si somiglia” sentenzia un detto popolare di quelle parti, assai calzante nella circostanza.

Lei e Benito erano come due eserciti alleati che, pur mantenendo le proprie differenti milizie, si alleano per una vittoria che interessa a entrambi.

Il padre di lei, invece, pensava alla figlia maggiore e provava gran vergogna per sé: si sentiva un padre svergognato e ormai senza decoro.

Aveva già in mente di usare i suoi futuri guadagni per impinguare la dote dell’altra figlia, oltre che per rendere il dovuto a don Salvatore Vizzini; ma quanto tempo avrebbe avuto dinanzi a sé?

E poi, l’avrebbe mai perdonato un giorno quella figlia?

O forse avrebbe parlato ai nipoti del notaro come di un nonno scellerato, che aveva dilapidato tutti i suoi averi per un vile gioco di carte?

Notaro Baglio non sapeva darsi pace.

A nulla serviva l’atteggiamento carezzevole e benevolo della figlia maggiore, mentre in quei tristi momenti avvertiva con dolore la mancanza del conforto della moglie, che se n’era andata pochi anni prima.

Una volta aveva passato l’intera notte con i gomiti poggiati sul tavolo di lavoro, a fissare lo sguardo, quasi inebetito, sulla fiamma tremante della candela. Le ombre proiettate sul muro sembravano fargli compagnia e gli suggerivano le fantasie più varie.

Si rese conto di ciò che stava facendo solo quando l’esile fumo della candela ebbe sostituito la tenue fiamma.

Fu l’olfatto e non la vista a riportarlo alla realtà e a fargli prendere atto che erano trascorse molte ore.

Decise, allora, di andare a letto e cercò di farlo con il minimo rumore; ma non riuscì a sfuggire alle orecchie attente della maggiore delle figlie, la quale, aprendo la porta della sua stanza, sotto la quale la timida luce della candela aveva segnalato la presenza del padre, gli disse:

«Padre, state male?».

La donna sapeva già cosa in effetti fosse successo, ma faceva finta di nulla.

«Sto bene, figliola, ma ora vai a letto o prenderai freddo» le rispose il padre.

La figlia finse di credere che nulla andasse male e si tranquillizzò solo quando sentì il padre scivolare sotto le coperte.

Notaro Baglio, però, non si addormentò e continuò tutta la notte a pensare alla sua nefandezza, fino a che l’alba non annunziò un nuovo giorno.

L’unico argomento che riusciva a lenire minimamente il suo senso di colpa era quello di avere in qualche modo salvato il patrimonio destinato alle figlie, il quale così non andava perduto per la copertura dei debiti ai creditori.

Certo, l’unica che realmente si era avvantaggiata dalla situazione era la figlia minore, la quale veniva a godere per intero, o quasi, della disponibilità paterna.

Ma era pur sempre sua figlia.

In qualche modo, dunque, a don Salvatore Vizzini andava sempre bene; era come se un sesto senso lo guidasse nella scelta delle situazioni favorevoli per l’economia generale della famiglia, attraverso i matrimoni dei figli.

Così era stato per il matrimonio di Giuseppe con la figlia degli Altavista e anche per Benito con la figlia del notaro Baglio.

Questi suoi successi, tuttavia, erano rimasti come oscurati dalle partenze per la guerra di Lorenzo e di Benito, verso i quali erano rivolte, a quel punto, tutte le attenzioni dei membri della famiglia.

La partenza di Benito fu vissuta, comunque, in maniera molto meno drammatica rispetto a quella di Lorenzo; egli, infatti, non partiva per il fronte, ma andava a Roma a rinforzare le milizie fasciste nella capitale.

Il Partito lo aveva chiamato a questo compito, di così tanto onore agli occhi dell’interessato.

Una missiva, secca quanto imperativa, lo invitava a partire immediatamente per la capitale. A voce, il latore del messaggio annunziava la piena disponibilità da parte del Partito a trasferirlo a Catania, non appena la situazione a Roma lo avesse consentito.

Messaggero e ricevente si trovarono d’accordo che ciò sarebbe accaduto molto presto, certi com’erano che le notizie provenienti dal fronte avrebbero sancito presto le prime grandi vittorie.

Per una strana coincidenza del destino, dunque, sia Lorenzo che Benito, seppure per motivi assai differenti, partivano per la guerra contenti e felici, mentre nei treni e nei camion era tutto un lacrimare, tale da dare un aspetto davvero triste alla situazione.

Le madri e le donne si accalcavano nei pressi dei mezzi su cui i loro uomini venivano fatti salire: cercavano un ultimo abbraccio, un’ultima stretta di mano.

Poi rimanevano sole, quando il rombo dei motori si faceva lontano, e piangevano insieme.

La moglie di Benito, invece, non era molto preoccupata. Pure lei era stata pervasa dalla euforia del marito ed era convinta, come lui, che tutto si sarebbe risolto presto e che egli avrebbe fatto una carriera fulgida. Pertanto, le sembrava più vicino il giorno in cui ella avrebbe potuto passeggiare, ammirata signora, lungo la via Etnea, della quale le avevano parlato magnificando la bellezza delle vetrine, cosa della quale aveva avuto indiretta conferma dalla pregevolezza dei gioielli e degli abiti, del suo matrimonio e pure quello di Concetta Altavista.

Notaro Baglio, infatti, non aveva lesinato gli sforzi perché gli intervenuti e gli osservatori si convincessero del valore di quelle nozze, che i due giovani si sposavano per amore, che l’alleanza fra le due famiglie non era di tipo economico, bensì l’incontro tra famiglie sane e benestanti.

La casa del notaro era stata addobbata a gran festa, come da tempo non succedeva in quella casa, dentro la quale non era d’uso l’allegria, specie da quando la signora era passata a miglior vita; da allora quell’ambiente era rimasto sempre al buio, nella grigia tristezza.

Raramente la casa era visitata da qualcuno e l’unica occasione d’incontro con la gente era la passeggiata della domenica mattina, dopo la messa delle undici.

Quella volta, però, la casa cambiò aspetto e sembrava proprio di essere in un altro posto!

Gli addobbi l’avevano guarnita a festa, mentre la cura che le donne le avevano dedicato nei giorni precedenti il matrimonio aveva reso accogliente e ospitale quella che prima sembrava essere un’abitazione non più degna del sole e del profumo dell’autunno in corso.

Persino notaro Baglio stentava a credere che la sua casa potesse essersi trasformata in quel modo.

Iniziò così dentro di lui un successivo processo di autocritica, avendo potuto riprovare quanto sia piacevole trovare nella propria casa il motivo di essere allegri e felici.

«Al diavolo l’abitudine del gioco!» si era detto, fra sé e sé.

«Non avrò mai più fra le mie mani un mazzo di carte!».

In effetti, egli sarebbe riuscito ad allontanare quel maledetto vizio, aiutato in ciò dall’amore della figlia maggiore e dei parenti, insieme ai quali avrebbe poi condotto un’esistenza meno dolorosa e con molti sprazzi di gioia in più.

Il matrimonio fra Benito Vizzini e la minore delle figlie del notaro fu un momento di grande gioia anche per il parroco della Chiesa Madre di San Fratello.

Questa volta il Vescovo della diocesi, che abbracciava tanto Pietralunga quanto San Fratello, sarebbe stato disponibile a celebrare le nozze, avendo ormai persino dimenticato l’indisposizione che lo aveva bloccato in occasione delle nozze Vizzini-Altavista. Per motivi di opportunità, tuttavia, si preferì non dare a queste ultime un rilievo maggiore che alle prime, evitando che Sua Eminenza fosse il celebrante del rito nuziale.

Tutti gli interessati avevano concordato la decisione. Solo il notaro Baglio ebbe qualche esitazione ad accettare la motivazione con la quale veniva privato di uno degli elementi più importanti attraverso i quali egli intendeva segnalare l’alta levatura del matrimonio.

Fu proprio don Salvatore Vizzini, nella sua qualità di consuocero, a convincerlo della opportunità di quella decisione.

«Anche a me piacerebbe che uno dei miei figli si onorasse della celebrazione di Sua Eminenza; ciò, però, non è opportuno rispetto al precedente matrimonio dell’altro mio figlio, Giuseppe, da troppo poco tempo celebrato» gli disse.

Notaro Baglio, poveretto, si provò a convincere il Vizzini:

«Sono, tuttavia, due matrimoni diversi. Nessuno potrà mai affermare che Sua Eminenza abbia voluto onorare queste nozze e non quelle. Che motivo avrebbe mai avuto per non benedire le nozze di una Altavista?».

«Voi» replicò don Salvatore Vizzini, «dimenticate la semplicità del pensiero popolare: quello ha bisogno di fatti come questi come le fragole hanno bisogno dell’acqua, per alimentare le dicerie».

«Un fatto simile» continuò, «scatenerebbe chissà quali ipotesi, troppo breve essendo il periodo intercorso fra il primo e il secondo matrimonio».

«Signor notaro» terminò il Vizzini, «Benito è mio figlio. Forse che anch’io non sarei felice se le sue nozze fossero onorate dalla celebrazione del nostro Vescovo? Se io ne sconsiglio l’opportunità, un motivo deve pure esserci!».

Notaro Baglio non poté replicare nulla e dovette accettare, seppure a malincuore, una decisione che, da parte sua, anche il Vescovo concordava.

Anche per il parroco di quel paese, dunque, si verificò l’opportunità di celebrare nozze importanti.

Imitando il collega di Pietralunga, anch’egli tirò fuori dai cassettoni della sacrestia i più bei paramenti e li indossò durante il rito, cosa che fecero anche i suoi diaconi.

Fu una grande festa, forse l’ultima prima della tragedia della guerra, per quel tranquillo paesino.

Vennero distribuiti chili e chili di dolci, di mandorle e di pistacchi e il sapore profumo della carne impregnò tutta la casa.

Notaro Baglio volle anche che uno scoppiettio di petardi annunciasse il festino e che un gruppo di musicanti invitasse alla danza gli ospiti.

Furono decine e decine di tarantelle e mazurche.

Ballò persino il vecchio notaio, la cui struttura ossea, ormai anchilosata, scricchiolava a ogni movimento; ma egli volle così esprimere tutta la sua felicità.

Fu anche l’occasione del primo ballo da sposata per donna Concetta Altavista e, purtroppo, anche un’ulteriore occasione per scoprire la durezza del carattere del marito.

Donna Concetta si era recata alla festa con animo ben disposto; era la sua prima uscita da  sposata e avrebbe perciò voluto scolpirne il ricordo. Si era vestita bene, curata alla perfezione la pettinatura e si era data un velo di trucco; tutto ciò metteva in ulteriore risalto la sua grazia e molti occhi si posarono su di lei nel momento in cui salì i gradini della Chiesa Madre di San Fratello.

Il marito, già prima di partire da Pietralunga, aveva assunto un atteggiamento di guardia e invece che andare con animo festoso alle nozze del fratello, si presentò tirato in viso, rigido e cupo.

Aveva un’aria di sospetto per tutto e per tutti; si guardava in giro quasi a volere scoprire chi aveva l’ardire di guardare la sua sposa, se non per uno fuggente attimo, il massimo che egli potesse tollerare.

Purtroppo egli dovette incrociare spesso il suo sguardo con quello di tanti uomini e, per sua fortuna, anche di donne che ammiravano sua moglie e da parte di don Giuseppe Vizzini era tutto un trasalire, una ricca produzione di acida bile e un continuo tentativo di frenare la reazione aggressiva.

Quando iniziarono le danze la situazione peggiorò.

Gli ampi movimenti della tarantella e della mazurca evidenziavano ancor di più la grazia della donna, la quale, oltre tutto ciò che la Provvidenza aveva voluto offrirle, metteva in mostra una fine capacità di seguire il ballo, capacità che veniva accentuata, viceversa, dalle difficoltà del marito.

Questi, infatti, era come un pezzo di legno che si pretende di far muovere con gentilezza e il contrasto ancor più attirava lo sguardo degli invitati, ingrandendo il dispiacere di don Giuseppe il quale, a un certo punto, nel bel mezzo di un ballo, ormai paonazzo di rabbia, prese per mano la moglie e a grandi passi, espressione della sua furia, la portò fuori, nel giardino.

Là, a fronte della sorpresa della innocente donna, iniziò a rimproverarla con grande asprezza e scontrosità. Per quello che era il suo carattere già di sensibilità egli ne aveva dimostrata tanta, non rimproverandola pubblicamente ed evitandole, almeno, l’umiliazione pubblica.

Ciò, però, non diminuì certo la delusione della moglie; in un attimo, per donna Concetta Altavista, il giardino perse il profumo dei suoi fiori, come aveva perso i colori a causa del buio.

«Fai di tutto per metterti in mostra!» urlò alla moglie don Giuseppe. «Non riesco a sopportare tutti quegli sguardi puntati su di te, attaccati come un naufrago a un pezzo di legno».

«Ma io non so di cosa parli!» disse timidamente la moglie, non riuscendo a trattenere le lacrime e vedendo così sciogliere come la neve al sole tutto l’entusiasmo e la gioia con cui si era presentata alla festa.

«So io di cosa parlo!» replicò seccamente il marito. «Dico che ti sei conciata in un modo tale da attirare l’attenzione di tutti, facendomi passare così per un imbecille! Ti guardano come se tu dovessi far loro obbligatoriamente un sorriso; e tu sorridi a tutti…».

Don Giuseppe Vizzini concluse così la sua filippica, per nulla impietosito dal pianto a dirotto della moglie, la quale piangeva più per la delusione provata che per le parole del marito, le quali sapeva bene quanto fossero false e non per lei.

Dentro al cuore della donna, infatti, albergavano sentimenti assolutamente innocenti; giammai avrebbe preso in considerazione, neanche per un solo attimo, di assumere un atteggiamento civettuolo quale quello che il marito le rimproverava.

I suoi atteggiamenti, le sue movenze, i suoi sorrisi le venivano del tutto spontanei, naturali.

Al più le si poteva rimproverare quel fine piacere a compiacersi che provano le giovani donne da poco sposate; ma si poteva davvero farlo?

Ella si crogiolava nel suo stato; aveva raggiunto uno scopo tanto importante per lei e questo era motivo di gioia. Ma già il ricordo della prima notte d’amore e poi l’ultima incomprensibile scenata del marito le davano la certezza che quell’uomo non era così come lei lo aveva sognato.

Da allora ebbe la precisa sensazione che avrebbe dovuto sopportare grandi difficoltà nel rapporto con il marito.

La sosteneva solamente la grande fiducia in se stessa, quella fiducia che le dava la sicurezza nei propri mezzi, delle proprie capacità.

Ancora una volta, dunque, provò a pensare che un giorno sarebbe riuscita a far diventare un po’ diverso il marito, che le cose si sarebbero pian piano modificate.

L’episodio fortunatamente non turbò l’andamento della festa, poiché casualmente avvenne in un momento in cui gli intervenuti erano coinvolti nella rotatoria della danza e perciò ciascuno pensava alla propria dama o al proprio cavaliere.

Dopo, comunque, tutti si resero conto di avere davanti una donna Concetta diversa da quella che avevano visto entrare; ella si appartò, non ballò più e rimase nell’attesa che la festa finisse, anelando che presto si desse l’arrivederci.

Tutto ciò era solo un ricordo quando Benito Vizzini preparava le valigie, con l’aiuto della consorte.

Quando venne accompagnato in piazza perché un camion militare lo portasse via non ci furono le stesse penose scene della partenza di Lorenzo e compagni.

La sua fu una partenza più tranquilla, anche perché c’era solo Benito a partire e, dunque, non molti erano i familiari venuti a salutarlo.

E poi si sapeva che non andava a rischiare la pelle, come il fratello minore.

 

10

 

Donna Concetta Altavista all’interno della sua casa si muoveva a suo agio; d’altronde quella era la stessa casa dove era vissuta da sempre. Ella, tuttavia, viveva quasi come ingombrante la presenza del marito, a causa degli atteggiamenti di don Giuseppe, non solo nei suoi confronti, ma anche in quelli verso gli altri.

Il marito aveva il malvezzo di urlare alla povera gente che andava in casa degli Altavista per chiedere un aiuto, trattava male i domestici ed era scontroso con tutti.

A proposito della servitù, egli impose alla moglie che essa fosse ridotta a due sole unità, adducendo a motivo di ciò la ristrettezza economica causata dalla guerra.

In verità, la casa poteva ancora offrire a tutti i presenti un sufficiente vitto, ma, don Giuseppe era parecchio infastidito dalla fedeltà, che sfiorava quasi l’adulazione, che la servitù manifestava alla signora, mentre a lui riservava, al contrario, solo rapporti freddi e di circostanza.

Si limitavano, infatti, al saluto ossequioso, al quale don Giuseppe non dava mai risposta, all’augurio del buon pranzo e della buona notte, ai quali pure egli non dava risposta alcuna.

La signora, viceversa, era molto gentile e generosa con la servitù, vicino alla quale era cresciuta e con cui aveva sempre avuto un rapporto di simpatia.

Quando il marito le comunicò la decisione, presa senza averle neanche chiesto un parere, lei rimase molto male.

«Ridurremo a due sole unità la nostra servitù; tratterremo con noi solo la cuoca e il marito. Insieme essi saranno adibiti a tutti i lavori della casa. Incaricati di darne comunicazione agli interessati».

Fu con questo stile telegrafico che don Giuseppe Vizzini annunziò la propria volontà alla moglie, senza guardarla negli occhi.

Donna Concetta si sentì gelare.

Provò a replicare qualcosa al marito ma, siccome ormai lo conosceva bene, era sfiduciata circa l’esito della sua velata protesta.

Tentò persino di impietosirlo:

«Come faranno quei poveretti a sopravvivere, con i tempi che corrono?» chiese al marito.

La manovra, tuttavia, ebbe insuccesso e donna Concetta non riuscì a fargli prendere atto di quanto la servitù le stesse a cuore.

Il marito le rispose con un silenzio inequivocabile, mentre continuava a fumare un fastidioso sigaro.

Non le rimase altro, dunque, che pensare come la sua casa sarebbe stata più silenziosa e vuota, non più come prima.

Ebbe un sussulto appena il marito chiuse la porta e uscì. Quell’ingrato le aveva lasciato – proprio a lei! – il compito di comunicare la disgrazia a quella povera gente.

Donna Concetta si strinse la faccia, inumidita dalle lacrime, fra le mani e si poggiò, per un attimo, su uno dei salotti del salone.

Cosa avrebbe potuto dire? A chi l’avrebbe detto?

Pensò, comunque, che, per quanto l’incarico le pesasse enormemente, era meglio che lo assolvesse lei. Chissà cosa avrebbe detto il marito al suo posto; e poi chi avrebbe potuto rassicurare la servitù che l’aiuto di donna Concetta non sarebbe mancato mai, in ogni modo?

Perciò si decise a parlarne al buon Rosario, il vecchio della compagnia. Lo convocò nella sua stanza, lo fece accomodare e, stringendo le mani su quelle del vecchio, gli disse:

«Rosario, la maledizione della guerra si è abbattuta anche su questa casa. Quasi tutto quello che produciamo va a finire nelle casse dello Stato, il quale deve pensare ai poveretti che stanno al fronte.

«Perciò è con gran tristezza che io e mio marito abbiamo deciso di ridurre a due unità la servitù, Tina e il marito. Don Giuseppe non ha voluto provare il dolore di comunicarvelo, perciò ho preso io la triste incombenza, io che vi voglio tanto bene. Proprio per questo non dovete disperare. Noi vi saremo sempre vicini e potrete rivolgervi a noi in qualsiasi momento ne aveste bisogno, per ogni necessità».

Il messaggio non sfuggì a quel vecchio, povero di cultura ma ricco di sentimento.

Anche lui fece come per ingoiare, poi strinse forte le mani della signora e si guardò intorno.

Con gli occhi visitò ogni parete della stanza, e anche il tetto. Volle, per un attimo, quasi impressionare i propri occhi con quelle immagini, in modo da non poterle più cancellare.

Poi si alzò, baciò le mani della donna e, con incedere stanco e malsicuro, si avviò per uscire.

Arrivato dinanzi la porta si girò verso donna Concetta e, con decisione, le disse:

«Grazie, signora!».

Poi si allontanò definitivamente.

Qualche ora dopo, scostando le tende della finestra che dava sul cortile, donna Concetta Altavista poté osservare quel piccolo gruppo di persone che si allontanava dalla casa, portando con sé il poco che era in loro possesso, su un carretto messo a disposizione da un altro poveraccio come loro.

Fatto qualche passo, come se si fossero messi d’accordo, insieme si girarono per guardare alle loro spalle.

Diressero gli occhi proprio su quella mano che salutava da dietro la finestra e ricambiarono il saluto, avendo pure la forza di sorridere.

Donna Concetta non ebbe la forza di scendere a salutarli di persona; il distacco era da lei vissuto come se una parte di sé stesse andando via, e per sempre.

In particolare avrebbe voluto dare un saluto a Giovannino, l’ultimo venuto in casa. Questi era un bambino vispo e assai vivace, di due anni, che da poco aveva cominciato a usare le parole.

Lo si sentiva qualche volta impegnato nei suoi giochi solitari dentro al cortile; ogni tanto inciampava e cadeva, talvolta si faceva male, ma non rinunciava mai all’intenso piacere di sculettare velocemente, correre dietro alle sue fantasie.

Il distacco da quel bambino pesava molto a donna Concetta tanto quanto l’allontanamento da tutta quella gente che, in fondo, l’aveva cresciuta.

C’entrava anche il fatto che il marito aveva da qualche tempo manifestato alla donna l’intenzione di mettere al mondo una creatura.

La proposta inteneriva donna Concetta la quale, al solo pensare di cullare un proprio figlio, si riempiva di gioia.

Anche per questo la vista del bambino che si allontanava la emozionava.

C’era dentro di lei un intimo contrasto: da un lato ella provava un indicibile piacere al pensiero della maternità, ma dall’altro c’era un segreto filo di delusione, legato alla figura del marito.

Quell’uomo, che doveva diventare il padre dei suoi figli, l’aveva profondamente delusa nelle circostanze che abbiamo ricordato e non lasciava presagire miglioramenti nel futuro.

Ecco: questo era il punto centrale dell’intimo contrasto.

Avrebbe potuto, quell’uomo, essere un buon padre, dopo aver dimostrato di non essere un buon marito?

Là si fermava l’entusiasmo della donna, come un’onda stanca si arena sulla riva.

Eppure sapeva che quel momento, tanto voluto e desiderato quanto temuto, sarebbe arrivato, prima o poi.

Don Giuseppe era al riguardo assai insistente, tanto quanto era deluso quando arrivava la prova che la gravidanza era rimandata.

Pensava, addirittura, che il destino si accanisse contro il volere di un uomo che altro non voleva che diventare padre.

Un giorno, tuttavia, la lieta novella arrivò a illuminare la casa.

Un ritardo del ritmo mensile aveva annunziato alla donna la novità, ma lei gelosamente aveva tenuto per sé il segreto; non voleva, infatti, dare un novella che si sarebbe potuta rivelare falsa.

Attese, dunque, per qualche settimana, finché non ebbe più dubbi: era in arrivo il primogenito!

Pensò di trasferire la gioia che provava per prima alla propria madre e poi al marito.

Donna Concetta si sentì molto rassicurata dalle parole della madre, la quale le espresse tutta la sua gioia e le fece sentire quanto il suo aiuto sarebbe stato importante.

Ogni giovane donna alla prima gravidanza ha bisogno di sentire soprattutto questa disponibilità totale, di scoprire che qualcuno che già sa potrà consigliarla per tutte quelle situazioni che, altrimenti, genererebbero ansia, a causa del mistero determinato dall’inesperienza.

Il marito fu molto felice nell’apprendere la notizia e sentì come se si fosse finalmente realizzato il suo più profondo desiderio. Per una volta ebbe persino uno sprazzo di affetto per la moglie, che corse ad abbracciare, quasi per ringraziarla del dono che gli faceva.

Poi, informò subito la sua famiglia e per primo parlò con il padre.

Certo, se non ci fosse stata la guerra, la gioia e la ricchezza dei preparativi sarebbero stati ben maggiori; in ogni caso, comunque, ognuno iniziò la sua parte.

La creatura che andava a nascere sarebbe stata, contemporaneamente, il primo nipote di don Giacomo Altavista e di don Salvatore Vizzini: figurarsi come si preparava quell’evento!

Donna Concetta volle parlare del fatto anche con la sorella Rosalia e decise di farlo personalmente.

Le avevano sconsigliato di farlo; le dicevano che ciò portava male, che il nascituro poteva in qualche modo risentirne; ma donna Concetta volle assolutamente farlo e alla prima licenza in casa della sorella creò l’occasione giusta per darle la notizia.

Un pomeriggio le due sorelle vennero a trovarsi sole nel salone della loro casa e Concetta decise allora che il momento era venuto.

Pose le mani sulle braccia della sorella e, quasi a portarla verso sé con forza, le chiese:

«Rosalia, ti piacerebbe un giorno poter avere un tuo nipotino?».

La sorella la guardò come attonita; il gesto improvviso della sorella l’aveva sorpresa. La guardava con gli occhi sgranati, senza risponderle e con l’aria come impaurita, ma era solo un’espressione, giacché con la sorella si trovava proprio a suo agio, unica persona in questo mondo.

Solo che la sua esistenza ormai non era più finalizzata alla felicità e anzi sembrava, a quella fragile mente, che tutto il mondo le fosse avverso.

«Rosalia, ci pensi? Saresti tu la zia di quella creatura!» incalzò la sorella, quasi per rassicurarla.

Rosalia abbassò le palpebre e parve prendersi un attimo di pausa, come per riflettere su quanto la sorella le diceva.

Sentiva il calore derivante dalla forte stretta con cui quasi la avvinghiava la sorella e fissò le mani di Concetta. Poi alzò lo sguardo all’altezza degli occhi e improvvisamente dipinse un dolce sorriso nel suo volto, fisso su quello della sorella.

Concetta non riuscì a trattenere le lacrime; abbracciò ancora più forte Rosalia e insieme provarono una gioia inusitata.

La gravidanza della donna non fu facile.

Al mattino spesso aveva nausea, capogiri e dolori vari che la disturbavano parecchio, tanto da costringerla qualche giorno a letto.

Purtroppo quelli erano i prodromi della disgrazia, che si faceva annunziare così.

Fu come se all’improvviso fosse scoppiato un temporale dopo giorni e giorni di sereno, sembrava che si fossero scatenati i diavoli.

Iniziò con lo stare male la madre di donna Concetta.

Quella donna era stata bene tutta la vita, si vantava di non avere mai avuto una linea di febbre e, dunque, di non avere mai avuto la necessità di fare una puntura; insomma, non aveva mai conosciuto medici.

Ma, come in casi simili spesso accade, la volta che ne ebbe bisogno fu la prima e l’ultima.

La povera donna, all’improvviso, cominciò ad accusare un fortissimo mal di testa, ad avere capogiri e, cosa che impressionò molto, ad avere diplopia.

Fu consultato immediatamente il dottor Lanza, il medico di casa Altavista; questi appena visitò la paziente si rese conto che si trattava di qualcosa di molto grave, quindi chiese che la donna venisse portata in ospedale, a Palermo.

Non ebbero tempo di farlo, perché la donna perse subito conoscenza e non ebbe neanche la possibilità di dare un ultimo saluto al marito e alle figlie. Le sue condizioni, infatti, si fecero così gravi da far ritenere inutile financo ricoverarla in ospedale e i familiari, pertanto, decisero che la poveretta morisse nella sua casa, essendo certi che anche lei, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito così.

Nel giro di due giorni la donna scomparve; la morte, infatti, arrivò appena trentasei ore dopo che si era sentita male. Qualche ora prima nessuno avrebbe potuto sospettare un così luttuoso evento in casa Altavista!

Inutile dire quanto donna Concetta poté risentire di quella perdita: l’affetto che la legava alla madre, infatti, era immenso, tanto quanto lo era il senso di vuoto che le si aprì dentro.

La prese un forte senso di angoscia, mai provata prima, che contrastava in maniera stridente con l’ottimismo e l’entusiasmo che la donna manifestava sempre.

Perse l’appetito, perse il sonno e cominciò a dimagrire molto.

Nel suo stato ciò era molto pericoloso e difatti il dottor Lanza la mise in guardia sui pericoli che correvano lei e la piccola creatura che portava in grembo. Perciò, seppure sforzandosi molto, donna Concetta riprese un minimo di abitudini alimentari e a sforzarsi di dormire almeno un po’.

Lo fece solo per la piccola creatura che da tanto attendeva e che già amava tanto, nonostante ancora non si lasciasse intravedere in un minimo di rotondità.

Le cose parvero mettersi al meglio e sembrava che dovesse tornare il sereno, ma ancora il peggio doveva venire, seppure nessuno poteva pensare che, chiuso un funerale, se ne preparava un altro.

Non passarono molte settimane, infatti, che uno scarno bollettino annunziò un’altra perdita.

Nelle infuocate sabbie africane molti giovani diedero l’addio alla vita, dopo avere sperimentato come l’odio fra gli uomini sia il peggiore modo di comunicare. E lì finì l’entusiasmo del giovane Lorenzo, partito con quell’incosciente sorriso sulle labbra e fantasticando chissà quale grandezza e festosità al suo ritorno.

Invece, l’ultima sua immagine rimase legata al treno che si infilava nella galleria, nel momento del luminoso tramonto della terra siciliana.

Lorenzo Vizzini morì in piena battaglia, colpito da un proiettile al cuore, mentre strenuamente stava cercando di difendere la propria vita.

Il suo corpo non fu straziato né mutilato, per fortuna. Rimase con gli occhi chiusi, a terra, la barba incolta. In una tasca dei pantaloni conservava gelosamente gli appunti nei quali raccoglieva tutte le sue sensazioni intime, circa il tourbillon di emozioni che viveva quotidianamente.

Sperava un giorno di poterli rileggere tranquillamente, standosene seduto al caldo di un camino scoppiettante, mentre fuori pioveva.

Era, questa, una fantasia che gli si presentava spesso dinanzi agli occhi; quell’immagine, almeno per un attimo, riusciva a compensargli il senso di gran caldo che provava sulla sabbia rovente, consentendogli almeno il ricordo del fresco. E poi quella fantasia era garanzia di ritorno a casa!

A casa, invece, sarebbe tornato da morto e con lui dentro la bara rimasero sepolti tutti i suoi desideri e le sue aspirazioni.

Il telegramma era laconico: “Vizzini Lorenzo est caduto in battaglia. Punto. Eroicamente nella difesa della Patria. Punto. Condoglianze. Stop.”

Dovettero ricorrere ai sali per rianimare il povero don Salvatore Vizzini, il quale perse i sensi leggendo le prime righe dell’annuncio funebre.

Ci furono scene di pianto e di disperazione, di sconforto incontrollato e per donna Concetta fu la ripetizione di immagini ancora vive, tanto recentemente erano state immesse nella memoria.

Anche in questo caso la sua reazione fu molto negativa; le successe come a quel fiore, timidamente spuntato in una piantina quasi essiccata dal sole, sul quale si abbatte una nuova ondata di canicola: si appassì nuovamente.

Così avvizzì il suo fisico, dopo quella seconda tremenda botta e ripresero l’inappetenza, l’insonnia, il pianto.

Non poté resistere neanche la piccola creatura che portava dentro, la quale, infatti, decise di tornarsene da dove era venuta, una mattina, lasciando nello sconforto più totale donna Concetta Altavista e don Giuseppe Vizzini.

Alla donna parve in quel momento di perdere completamente tutto; già prima aveva perso il sostegno della madre e adesso pure il frutto della gravidanza!

Il suo corpo debilitato non ce la fece a far crescere il piccolo feto e perciò fu chiamato, ancora una volta, il dottor Lanza, il quale ormai era diventato uomo di casa, data la sua continua presenza; ma anche in questo caso il poveretto non poté esercitare la sua arte, se non per consigliare una cura riabilitativa, sia per la madre che per il padre della creatura persa.

Anche don Giuseppe, infatti, aveva ricevuto più di una mazzata da quelle drammatiche vicende, avvenute con la velocità di un fulmine, nel breve volgere di poche settimane nella eternità del tempo.

Fu molto difficile per ambedue gli sposi, insomma; ma per fortuna, e con l’aiuto della mano dell’Alto, pian piano essi riuscirono a vincere il pauroso senso di vuoto che si era determinato dentro di loro.

A quel punto i diavoli se ne tornarono all’inferno e in quella casa si riscoprì la tranquillità: quanto meno, non successero altre disgrazie.

Certo, la giovane coppia era stata sottoposta a dura prova e quelle perdite sarebbero rimaste incancellabili nella memoria; né le preoccupazioni costanti per la guerra aiutavano a ricreare un clima di maggiore serenità.

I bollettini di guerra facevano intuire che le cose non andavano tanto bene e che certi fronti erano un vero e proprio calvario. L’elenco dei morti si allungava sempre più, insieme a quello dei dispersi; l’Italia piangeva i suoi morti, le madri i propri figli.

Anche a Pietralunga e a San Fratello le funeree notizie arrivavano con una certa costanza e i Vizzini non furono né i primi né gli ultimi a piangere in un funerale.

Pure in quella trepidante situazione le qualità personali di donna Concetta Altavista, seppure lentamente, riemersero.

La donna, infatti, trovò il coraggio di credere nuovamente nella vita e ricominciò a sperare.

La trasformazione fu così radicale che chiunque la rivedeva dopo i tempi cupi della malattia stentava a riconoscerla.

Progressivamente, aveva ripreso il suo colorito e la sua vivacità e aveva persino ricominciato a organizzare piccole feste in casa sua, in occasione delle sante ricorrenze.

In quelle occasioni si contavano più le assenze che le presenze, ma la donna riusciva a ridare agli altri un minimo di serenità e di pacatezza.

Solo il carattere brusco e aspro del marito aveva un ruolo di freno in questa sua ripresa.

Nel marito, anzi, tutte quelle tristi vicende avevano determinato un ulteriore indurimento del carattere, che aveva reso ancor più difficili i rapporti fra don Giuseppe Vizzini e gli altri.

Egli difficilmente si intratteneva con qualcuno, se non per motivi di lavoro e spesso solo per lamentarsi di come andavano le cose; a tavola era sempre di poche parole e quelle che pronunciava avevano il tono imperativo. Nei riguardi della moglie, infine, non era cambiato quasi per niente dalla prima notte d’amore.

Dal punto di vista affettivo sembrava più legato al suo sigaro che alla consorte e tale atteggiamento distaccato si era ancor più accentuato dopo l’aborto spontaneo di qualche tempo prima.

Egli aveva vissuto molto male quell’evento.

Per carità di Dio! Sapeva che la moglie non c’entrava nulla, ma ogni tanto gli scappava di dire che se lei avesse mangiato di più, se si fosse sforzata di riposare di più, forse la creatura non se ne sarebbe andata.

Don Giuseppe teneva tanto a quel figlio; lo aveva aspettato per tanto tempo, sembrava quasi che non dovesse più venire e proprio quella volta che era venuto, così presto se ne era tornato!

Il figlio avrebbe potuto far dimenticare la perdita del fratello Lorenzo e invece erano due i morti da piangere e tre con la suocera.

Donna Concetta Altavista sapeva di avere fatto certamente tutto quanto le era possibile per salvare il figlio; non aveva colpa se la sua reazione alla perdita della madre era stata così profonda, così radicato essendo il rapporto affettivo che le legava.

Pure lei il bimbo avrebbe voluto averlo, eccome!

Oltre che per la sua vicenda interiore, dunque, ella soffriva vedendo il marito così sconfortato.

Passò qualche mese e si arrivò alle soglie del ’42 quando, all’improvviso e in maniera inattesa, capitò che la donna avesse gli stessi dubbi che aveva avuto in precedenza: forse era nuovamente in attesa!

Paradossalmente, quando ne ebbe la certezza riscoprì il vuoto che aveva vissuto durante la malattia; stavolta, infatti, le risultò immediatamente che non avrebbe potuto appoggiarsi alla madre, alla quale anche allora avrebbe voluto per prima rivelare il suo segreto. Ma fu solo un attimo.

Immediatamente dopo si ricompose e decise di parlarne direttamente con il marito.

Quando questi ebbe la notizia parve riaccendersi in lui la voglia di vivere. Egli, infatti, fu molto felice e anche stavolta ebbe nei confronti della moglie un raro gesto di affettuosità: corse ad abbracciarla e piansero insieme di felicità.

Questa volta la gravidanza procedeva benissimo, senza alcun intoppo e senza che, per fortuna, nessuna notizia venisse a turbare la serenità dell’attesa.

Intanto la guerra era proseguita e sembrava, anzi, volgere alla fine. Le forze alleate cominciavano a programmare lo sbarco in Sicilia e i siciliani avevano sentore di ciò.

Già la gente respirava l’aria americana, quell’aria che avevano avvertito nelle lettere che i parenti inviavano d’oltre oceano. C’era molta curiosità di vedere quella gente ricca, ospitale e che magari masticava qualche parola di siciliano, perché in casa aveva uno zio o un nonno che qualche decennio prima era partito da Partinico, da Tremestieri o da Ficarazzi.

Purtroppo, prima dei cioccolatini e delle chewing gum arrivarono le bombe.

D’altra parte quelle era una guerra, non un incontro fra vecchi amici che non si vedevano da molti anni.

Fu così che quando venne alla luce il rampollo di casa Vizzini-Altavista, invece che le fanfare e i petardi, vennero ad accoglierlo i rumori delle esplosioni. Ci fu ugualmente gran festa, anche perché ancora una volta venne sfiorata la tragedia e, per fortuna, superata.

Tutta la gravidanza era trascorsa in maniera del tutto normale, ma all’ultimo momento una seria complicazione mise in allarme il dottor Lanza, il quale dovette fare ricorso a tutte le sue capacità per riuscire a far nascere la creatura.

Di esperienza egli ne aveva tanta, dato che le sue mani avevano aiutato a venire alla luce la gran parte dei cittadini di Pietralunga, ma egli aveva avuto pure qualche piccola disavventura, il ricordo della quale riaffiorava sempre nei momenti di difficoltà.

Visto che le cose stavano mettendosi male il dottor Lanza aveva deciso di non fare correre rischi alla partoriente e già aveva comunicato la decisione a don Giuseppe Vizzini.

«Dovesse essere necessario fare una scelta fra il figlio e la madre sceglieremo quest’ultima» aveva detto.

Don Giuseppe si lasciò cadere pesantemente su una delle poltrone, non riuscendo a trattenere né la stizza né la delusione.

«Ancora una volta!» esclamò ad alta voce.

«Farò tutto il possibile» aveva replicato il sanitario, comprendendone la reazione.

«Statene certo!».

Forse perché già troppe erano le disgrazie abbattutesi su quella casa, questa volta tutto andò per il meglio.

Il dottor Lanza aveva deciso un ultimo tentativo, fallito il quale avrebbe fatto ciò che c’era da fare.

Decise di usare il forcipe.

Fu uno sforzo per tutti: per la partoriente, per il medico e anche per il piccolo che venne alla luce. Questi, infatti, testardamente volle conoscere la vita e ciò gli venne concesso.

Così nacque Salvatore Vizzini, figlio di don Giuseppe Vizzini e donna Concetta Altavista.

L’euforia sembrò invadere ogni angolo della casa.

Vi contribuì particolarmente don Giuseppe Vizzini, il quale finalmente aveva visto realizzarsi il suo più grande desiderio: quello di diventare padre e per di più di un figlio maschio!

La grande preoccupazione e la tensione derivanti dalle difficoltà che il parto aveva presentato contribuirono a realizzare quasi uno sfogo liberatorio in tutti; nei parenti, negli amici corsi a conoscere il bambino appena la notizia si diffuse, nel dottor Lanza e anche negli ultimi domestici rimasti in casa Altavista.

Proprio questi ultimi erano i più felici.

Donna Concetta Altavista loro l’avevano vista nascere, l’avevano vista bambina, avevano giocato con lei a nascondino e le avevano servito mille e mille volte il pranzo e la cena. Adesso, vederla diventare a sua volta madre di una piccola creatura, simile a come essi ricordavano lei a suo tempo, regalava loro un’intensa emozione.

In un angolo della casa, abbracciati stretti, piansero a lungo.

Era ovvio che il bambino dovesse chiamarsi Salvatore; così, infatti, si chiamava il nonno paterno e quella era una regola da sempre senza eccezioni.

I primi vagiti del piccolo sembrarono ridare a casa Altavista una nuova esistenza e a donna Concetta sembrò di potere rivivere il suo bel rapporto con essa, adesso che nuovi rumori e nuova luce la riportavano allo stato di qualche anno prima.

Anche Rosalia partecipò alla festa.

Giusto era in licenza quando il nipotino decise di presentarsi a questo mondo e, dunque, ella poté partecipare alle intense emozioni che avevano preceduto e seguito l’evento.

Anche il suo volto, ormai segnato dalla lunga malattia, parve per un attimo rischiararsi; ma fu un breve momento.

La malattia l’aveva fatta degradare a un’esistenza pura e semplice; se non si fossero occupati di darle un minimo di decoro e di igiene, ella avrebbe assunto le vesti della malata di mente irrecuperabile alla vita sociale e questa immagine era presente anche nella mente di donna Concetta. Un’immagine che si presentava con tanta pregnanza da determinare una strana reazione nella giovane madre, una reazione del tutto contraria agli atteggiamenti del passato.

Non che Concetta avesse perso anche un poco dell’affetto che provava per la sorella, ma la presenza del bambino le poneva degli interrogativi nuovi, mai pensati prima.

Le condizioni della sorella, in fondo, le facevano ricordare che anche il figlio avrebbe potuto essere malato, anche se il bimbo sembrava sano come un pesce e non c’era nessun segno di malessere.

Probabilmente era proprio il contrasto fra la malattia della sorella e la beatitudine del neonato a mettere in moto le angosce della madre.

In qualche modo tutto ciò ebbe a che fare con il rifiuto della donna di alimentare al seno il neonato. Si sa che il bambino venne affidato a delle nutrici, una o più di una non si ricorda, rinomate per l’abbondanza e la qualità del loro latte, già tante volte verificata con altri piccoli affamati.

Fortuna volle che la crescita del bambino avvenisse nel modo più tranquillo e donna Concetta non ebbe che le normali preoccupazioni di ogni madre per il proprio figlio.

Tanta serenità, tuttavia, una volta venne interrotta e in quella circostanza tutti ebbero una gran paura.

Successe in occasione del bombardamento di una zona limitrofa alla proprietà degli Altavista. Gli abitanti di Pietralunga sentirono il rumore di uno stormo di aerei che si avvicinava lentamente e poi sentirono come un boato ininterrotto sopra le loro teste.

I Vizzini si guardarono atterriti e corsero in un angolo sotterraneo della casa, dove poterono sentirsi minimamente protetti. Da una piccola apertura, adibita all’aerazione del locale, poterono osservare, assai malvolentieri, le scene di guerra.

Gli aerei cominciarono a scaricare decine e decine di bombe, le quali, dopo un sibilo lacerante, esplodevano fragorosamente al contatto con la terra. E fu tutto un susseguirsi di tremendi botti che mise paura a tutti.

Donna Concetta Altavista abbracciò stretto il figlioletto, come se avesse potuto con il suo corpo proteggerlo dal pericolo di un’esplosione. Don Giuseppe cercava di portare la calma e, contemporaneamente, di mantenerla lui.

Erano presenti anche i due domestici, i quali recitavano il rosario mentre fissavano il cielo attraverso la luce della piccola apertura.

Dopo qualche secondo dall’inizio di quella fantasmagoria di colori e di suoni il piccolo si mise a strillare con tutta la forza che aveva e in continuazione.

Ciò fece andare ancor più in ansia i presenti, i quali furono pervasi da un robusto senso di paura.

Non c’era modo di farlo smettere: donna Concetta provò a cullarlo, il padre a carezzargli la fronte, ma non ci fu verso!

Il bombardamento pareva non finire mai e con esso la sofferenza di quella gente.

Intanto, il bambino continuava a strillare, divenne nero in volto e una tosse insistente contribuì a farlo emaciare di più; aveva, in pratica, un alternarsi continuo di tosse e pianto, contro di cui nessuno sapeva cosa fare.

La paura divenne sempre maggiore e ormai non era più per le bombe, ma per il bambino.

Quando il rumore dei botti, infatti, cedette la scena allo stridulo lamento del bambino, quasi non si accorsero che il bombardamento era cessato.

Fu la domestica ad annunciare la cosa, dopo essersi fatto il segno della croce con ampi movimenti della mano.

«Ti ringrazio, Signore!» disse la donna e subito corse a prendere un poco di miele e limone per tentare di frenare il pianto insistente del bambino e la conseguente tosse.

La speranza che al termine del bombardamento sarebbe finito anche il pianto del bimbo andò, purtroppo, delusa. Gli strilli continuarono ancora per un’ora, dopo che le macchine di morte erano andate via, e smisero solamente con il sopravvenire del sonno nel bimbo, ormai spossato.

Pari fatica avevano accumulato i genitori, insieme a una forte tensione che li aveva portati a temere qualcosa di grave, tanto il volto del figlio era arrivato a essere scuro e cianotico.

Il sonno del bambino portò un minimo di pace, ma la madre non poté trattenere un liberatorio pianto, accompagnato da un convulso singhiozzo.

Quietatasi la situazione, i due genitori ritennero opportuno far visitare il figlio dal dottor Lanza, il quale li tranquillizzò circa la salute del piccolo; l’episodio, perciò, passò nel serbatoio dei ricordi e con esso il ricordo della guerra.

E sì! Parve proprio che il passaggio degli aerei avesse rappresentato il tramonto del conflitto: pochi giorni dopo, infatti, venne annunziata la liberazione della Sicilia e, poco meno di un anno dopo, quella dell’intera penisola.

Tutti tirarono un lungo sospiro di sollievo. Persino don Giuseppe benedisse la pace, dopo aver creduto per lunghi anni nella opportunità della guerra, nella necessità di allargare i confini della Patria e dell’Impero.

Profondamente toccato, come era stato, dai fatti bellici, cominciò a ringraziare Dio che quella tragedia avesse avuto fine e si ritrovava spesso a guardare mestamente in direzione dell’Africa, là dove la calda sabbia aveva custodito il corpo senza vita del fratello minore, Lorenzo, tenendolo come un neonato nella culla.

Adesso, pero, c’era da pensare al futuro, a rimettere a posto quanto era andato distrutto dal disuso, a fare riprodurre orgogliosamente la terra e, soprattutto, a fare crescere bene il bimbo e gli altri che sarebbero venuti.

 

11

 

Una lieta novella giungeva da Roma: si trattava di una lettera con la quale il fratello Benito informava del suo prossimo trasferimento a Catania, trasferimento che, di fatto, avvenne qualche giorno dopo.

Parve che la famiglia potesse tornare ad avere il diritto di sentirsi più unita, dopo tante separazioni. Particolarmente felice fu la moglie di Benito, la quale finalmente poté riabbracciare il marito e realizzare il desiderio di trasferirsi a Catania, dopo essere vissuta per tanto tempo come una vedova.

Vivere nella grande città, ammirare le vetrine dei suoi grandi negozi, fare compere, potere vivere da signora, insomma: il sogno diventava realtà.

Quella donna, tutta presa dalla sua fantasia, aveva compreso scarsamente come fuori da lei stesse succedendo un grande sconvolgimento, che la guerra aveva trasformato tutta la realtà sociale.

Rimase, perciò, molto delusa durante la sua prima passeggiata a Catania, quando scoprì che molte vetrine erano vuote, altre molto povere e solo poche potevano esibire i capi e i gioielli che lei si aspettava.

Era già un miracolo che ci fossero almeno pochi commercianti in grado di fare ricordare la ricchezza delle vetrine degli anni precedenti la guerra…

Il marito rimase arruolato in polizia; non sarebbe stato in grado di esercitare un altro mestiere e poi quello che aveva, non solo gli assicurava l’esistenza e il rispetto, ma gli andava anche a genio.

Egli, a differenza del fratello Giuseppe, non aveva cambiato di molto le sue idee, quelle che erano il suo patrimonio ideologico prima dei fatti bellici.

Certo, non poteva più manifestarle con la sua solita baldanza né tanto meno poteva più mettere in atto le sue bravate.

In lui, comunque, non era avvenuta alcuna autocritica, nessuna revisione ideologica, nessuna manifestazione di modificazione interiore; la fine della guerra aveva significato per lui solo un freno alla libera espressione di ciò che pensava o in cui credeva.

Anche per questo non volle cambiare mestiere.

Quel lavoro gli consentiva molte cose, per lui molto importanti: il rispetto, la disciplina, l’ordine e, soprattutto, il comando.

Era diventato nel frattempo maresciallo maggiore e pensava di potere fare ancora carriera, tanto in quell’ambiente era ben voluto.

La prima cosa cui pensò al rientro fu quella di fare figli; Benito e Isabella avrebbero avuto quattro figli, tre femmine e un maschio, l’ultimo, tanto ansiosamente cercato e infine trovato.

La festa della nascita della figlioletta di Benito fu preceduta di poco dalla nascita del primogenito di Francesco Vizzini e Concetta Pirro, la maestrina di San Fratello.

La nascita del figlio di Francesco aveva avuto una grande rilevanza in casa Vizzini: in quella occasione, infatti, don Salvatore Vlzzini poté avere conferma delle capacità virili del figlio Francesco, di quello che egli riteneva essere il meno furbo dei propri quattro figli.

Per qualche giorno, dunque, Francesco lasciò le polverose carte dell’ufficio e festeggiò l’avvenimento.

La nascita del figlio di Francesco diede modo di pensare che anche per lui don Salvatore Vizzini avesse fatto bene i suoi calcoli. Concetta Pirro, infatti, poco prima del matrimonio aveva cominciato a dare le prime lezioni ai piccoli del paese, dimostrando quella pacatezza e quell’amore verso gli altri che il suocero aveva presupposto alla base di un buon rapporto con il figlio Francesco; non a caso la ragazza tanto bene aveva legato con il temperamento mite e arrendevole del marito.

Don Salvatore Vlzzini non avrebbe potuto pensare a un tipo di donna diverso per quel modesto di figlio, che non aveva toccato né visto mai come è fatta una donna quando non si copre di vestiti.

L’unione della coppia e il buon andamento del matrimonio confermavano che, in realtà, il vecchio aveva visto bene.

Francesco e Concetta avrebbero avuto tre figli, due maschi e una femmina, l’ultimogenita, e questi sarebbero stati i più fortunati fra i nipoti di don Salvatore Vizzini. Fra l’altro essi sarebbero stati gli unici a laurearsi, mentre gli altri al massimo avrebbero conseguito un diploma, e avrebbero avuto un buon inserimento nella vita sociale.

La loro fortuna sarebbe stata quella di vivere in un ambiente sereno e stimolante, all’interno del quale l’amore dei genitori per i figli, e di questi ultimi per i primi, sarebbe circolato liberamente e in abbondanza.

L’amore per lo studio che aveva Francesco, così come la moglie, consentiva, inoltre, che i figli vivessero come gratificante il loro impegno scolastico. Essi, dunque, sarebbero andati a scuola con piacere, senza ritrosia alcuna, senza le cefalee e i vomiti dei figli di don Giuseppe o di Benito Vizzini, per esempio.

La nascita dei primogeniti delle coppie Vizzini-Altavista e Vizzini-Pirro, il rientro a Catania di Benito Vizzini e l’appena più tardiva nascita della loro prima figlia, ma soprattutto la fine della guerra, avevano riportato in famiglia la pace che da tempo mancava.

A casa Altavista si riprese l’antica abitudine di ospitare tutta la famiglia riunita in occasione della festa della Madonna delle Grazie e donna Concetta il suo ruolo di abile condottiera.

Ella ebbe modo di esercitare subito le sue capacità la volta in cui due suoi cugini ebbero dei contrasti sulla divisione della eredità paterna. Essi erano arrivati persino a interrompere il saluto e non si incontravano da tempo.

Saputa la cosa, donna Concetta non mancò di invitare entrambi a casa sua, nella ricorrenza della festa. Ambedue i litigiosi, fra loro fratelli, cercarono di inventare delle scuse valide per non presentarsi alla festa di famiglia, ma l’intervento di donna Concetta risultò persuasivo per entrambi; infatti, essi non seppero dirle di no e si presentarono puntuali all’appuntamento.

Donna Concetta chiamò entrambi in un salottino, lontano dal salone in cui si volgeva la festa, con il suo fare garbato e gentile, riuscì alla fine a ottenere che i fratelli si stringessero la mano e si accordassero pacificamente su tutto quanto prima aveva rappresentato motivo di contrasto.

Non fu quella, comunque, l’unica occasione nella quale ella seppe dimostrare le sue capacità di declinare  ogni contrasto e ogni diverbio.

Spesso, infatti, i familiari le si rivolgevano per chiederle consigli o per risolvere qualche ingarbugliata questione.

L’unico a non rivolgerle mai simili richieste era il marito, il quale, anzi, non amava che la moglie affrontasse problemi alla cui soluzione erano deputati, a suo modo di vedere, gli uomini; così era abituato in casa propria.

In realtà, dietro l’atteggiamento disponibile e compiacente di donna Concetta c’era tutto un modo di essere che alla fine induceva persino il marito su posizioni che egli pensava fossero proprie, ma che, in verità, erano della moglie.

Ciò non tolse che saltuariamente scoppiassero dei contrasti fra i due coniugi e uno degli argomenti di maggiore acuità era quello riguardante l’educazione dei figli.

Occorre intanto affermare che a Salvatore, dopo tre anni, si era aggiunto Rosario.

La nascita di quest’ultimo fu molto più tranquilla rispetto a quella del primogenito, così come tutta la gravidanza era stata più serena. Non c’erano state tragedie a turbare la madre, né lutti né guerre, e lo stesso parto fu normale, tanto che il dottor Lanza, la cui vecchiaia ormai si presentava attraverso il bianco dei suoi capelli, non ebbe difficoltà alcuna a portare alla luce il bimbo.

La madre, stavolta, volle che ad allattarlo fosse lei personalmente. Ella aveva evidentemente superato le angosce che le avevano impedito di allattare il primo figlio e l’immagine della sorella Rosalia non le pareva più foriera di chissà quale triste destino.

Provava un piacere nuovo ad allattare la sua creatura, quasi che così si sentisse ancor più intimamente legata al figlio e la piacevole sensazione che provava la faceva pentire di non avere fatto la stessa cosa con il primo figlio e spesso si ritrovava a chiedersi perché mai non l’avesse fatto.

Ripensava alla malattia della sorella, alle condizioni in cui versava Rosalia e ciò le faceva ricordare la sua debolezza, la sua sensazione di solitudine legata alla perdita della madre, alla precedente malattia che le aveva fatto perdere un bambino.

Ripensandoci bene riteneva probabile che fosse stata proprio la sua malattia, anziché quella della sorella, a causarle il rifiuto di allattare il primogenito; debole come era, infatti, ella aveva visto pericolosi fantasmi in qualsiasi cosa o circostanza e aveva trasferito il diabolico simbolo di malattia della sorella nelle difficoltà di nascere del bambino, quale segno premonitore di una possibile patologia del figlio.

Adesso che stava bene tutto ciò le appariva irreale, tanto le parve opportuno e bello allattare il secondogenito.

I due figli crescevano bene, ma entrambi si rivelarono subito tosti e frugoli.

Salvatore si manifestò presto come introverso, poco disponibile a incontrarsi con gli altri, più portato al soliloquio che alla comunicazione. Sembrava che avesse preso molto dei Vizzini, ma come scopriremo più avanti, c’era in lui il filo della sensibilità degli Altavista.

Il minore dei due, invece, si presentava come un bambino che voleva sempre essere accontentato, che voleva tutto e subito, molto socievole e disposto verso gli altri, in mezzo ai quali voleva un ruolo privilegiato, di preminenza.

I due diversi atteggiamenti furono particolarmente evidenziati dalla scolarizzazione. Nel rapporto con gli altri scolari, infatti, i due fratelli si rivelarono completamente diversi e così anche con le maestre.

Salvatore preferiva stare in disparte rispetto agli altri e quando era costretto ad aggrupparsi mostrava di non trovarsi a suo agio. Spesso, poi, era al centro di contrasti, di liti nelle quali si manifestava abbastanza violento, seppure non arrivava mai a fare del male a nessuno; perciò gli altri non lo cercavano né per i compiti né per il gioco.

La madre notava tutto ciò e cercava di intervenire in conseguenza: parlava molto con il ragazzo, gli raccontava storie istruttive e lo invitava con calore a stare insieme agli altri, magari invitandoli nella loro casa. Spesso gli dava qualcosa da portare a scuola in misura maggiore di quanto non gli necessitasse, in modo da averne anche per gli altri, nella speranza di facilitargli il contatto interpersonale.

Il marito, invece, sosteneva che il figlio cresceva bene così com’era, che non doveva mischiarsi troppo con gli altri ragazzi, perché ne avrebbe avuto solo da perdere e che, inoltre, faceva bene a sapersi difendere.

Non c’era verso che marito e moglie trovassero un punto di accordo su tale problema e sovente si trovavano a controbattere le loro opinioni.

Nonostante donna Concetta cercasse di evitarlo, talvolta il contrasto esplodeva davanti allo stesso figlio Salvatore e, per solito, in queste circostanze don Giuseppe mostrava di non essere in grado di autocontrollarsi.

Il figliolo, dunque, si trovava spesso a percepire la differenza di atteggiamenti, grande come era per essere in grado di farlo.

Rosario, invece, dava minori preoccupazioni ai genitori, poiché egli si era inserito perfettamente in classe, legava con gli altri ragazzi, insieme ai quali stava sempre a giocare. Tuttavia, non c’era cosa che egli non volesse per sé e poche volte il padre non lo accontentò.

Don Giuseppe Vizzini, infatti, voleva dimostrare la chiara superiorità sociale dei propri figli rispetto agli altri; perciò non perdeva mai occasione di accontentarli e di soddisfare ogni loro desiderio.

Dei due figli, però, solo uno era portato a chiedere sempre: Rosario.

L’altro sembrava accontentarsi di ciò che aveva ed era poco incline a chiedere qualsiasi cosa.

Anche a questo proposito donna Concetta avrebbe preferito un diverso atteggiamento da parte del marito, ma si ritrovava ancora di fronte a una decisa resistenza da parte del coniuge, il quale era del tutto convinto della esattezza di ciò che faceva.

I nodi vennero al pettine una volta che i due figli cominciarono a farsi grandi e a diventare adulti.

Intanto andavano male a scuola, con particolare disappunto di donna Concetta, la quale voleva che entrambi studiassero fino al conseguimento della laurea, ma anche di don Giuseppe.

Non somigliavano per nulla ai figli dello zio Francesco; quelli, tutti e tre, subito mostrarono un impegno scolastico che lasciava ben sperare per quel futuro roseo che poi, di fatto, realizzarono.

D’altra parte, invece, i figli di Benito somigliavano a quelli di Giuseppe.

Tornando ai nostri, Salvatore dimostrava a scuola delle difficoltà di tipo apprenditivo e sembrava non essere all’altezza di svolgere alcuni compiti. Non che il ragazzo non fosse normalmente intelligente; egli andava male a causa delle sue difficoltà interiori, private. Le sue energie le spendeva per risolvere i propri conflitti personali e non gliene restavano altre per riuscire a scuola e questi conflitti erano legati innanzi tutto ai rapporti familiari.

Tutti i suoi rapporti erano difficili: con il padre, vissuto quasi ostile e avverso; con la madre, dalla quale voleva ancor più amore di quanto non ne ricevesse; con il fratello, del quale odiava la vivacità, l’esuberanza, la capacità di instaurare con facilità dei rapporti.

Rosario, invece, non andava bene a scuola per motivi assai diversi rispetto a quelli del fratello: egli non s’impegnava, era svogliato e preferiva lo scherzo all’impegno, il gioco ai compiti.

Appena fu grandicello mise le donne davanti a tutti i suoi obiettivi, suscitando l’ennesima gelosia del fratello, il quale lo vedeva riuscire nelle imprese dongiovannesche e le rapportava amaramente alle proprie debolezze.

I figli, perciò, erano abituati a vederlo così: poco vicino a loro, poco disponibile e facilmente irascibile. Viceversa essi avevano molto rispetto della madre, con la quale Salvatore in particolare era legato da profondo affetto.

L’opera educativa di quest’ultima, tesa alla ricerca continua del colloquio con i figli, però, veniva spesso resa vana dall’iniziativa autoritaria e scarsamente costruttiva del marito.

Ciò non significa, comunque, che la madre non fosse solita fare rilievo di qualche magagna ai figli; nei confronti di Salvatore, ad esempio, spesso aveva da ridire per il suo scarso rendimento scolastico, imputandogli un impegno non pari a quello richiesto. Una volta uno di questi rimproveri sfociò in una situazione che nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

Donna Concetta aveva ricevuto notizia dagli insegnanti di Salvatore del persistere della sua scarsa riuscita in talune materie; pertanto ella decise di far presente il suo disappunto al figlio.

Quel giorno era particolarmente nervosa, a causa di un vago stato di malessere, per cui non fu felice nell’impostazione del discorso:

«Ho avuto ancora una volta notizia del tuo scarso rendimento a scuola» disse al figlio, appena questi entrò nel salone.

«Hm… sì… forse non vado molto bene» balbettò Salvatore.

«Non è più il momento delle esitazioni!» disse decisa la madre. «Non è giusto che tu continui a prenderci in giro con le tue scuse. Il tuo impegno non è pari al necessario, perciò è solo colpa tua se le cose vanno male a scuola».

Mentre parlava, la donna andava accendendosi di ira e, cosa strana per lei, si lasciò un pochino andare.

«Se solo tu ti ricordassi come ho sofferto per farti nascere, per farti venire al mondo! Sono state pene da inferno…».

La donna a quel punto si mise a raccontare, per filo e per segno, le grandi sofferenze patite al momento del parto e gli ricordò che i familiari erano persino arrivati al punto di dovere scegliere fra lei e il nascituro, tanto le cose si presentavano in malo modo.

Non era la prima volta che parlava di ciò al figlio, ma era la prima volta che lo faceva con tanto livore.

Alla fine, quasi presa da uno strano impeto, concluse:

«Forse sarebbe stato meglio se tu non fossi nato».

Quelle parole, certamente dette in un momento particolare, non rispecchiavano di certo l’affetto che la donna provava per il suo primogenito; tuttavia ebbero l’effetto di un terribile schiaffo, per il quale Salvatore rimase molto scosso.

Egli si rabbuiò in viso e abbassò gli occhi con grande senso di umiliazione, quasi a vergognarsi di essere lì, davanti alla madre, a guardarla.

In quell’attimo pure lui pensò che forse sarebbe stato meglio che non fosse mai nato. Gli vennero in mente tutte le volte che aveva ritenuto che il destino si fosse accanito contro di lui, in particolare quando faceva il raffronto con suo fratello.

Salvatore aveva vissuto tante e tante difficoltà, mentre l’esistenza di Rosario sembrava procedere tranquillamente, per cui Salvatore sentiva di essere, rispetto a lui, meno dotato, forse anche meno meritevole.

Al pensare che persino nel momento del parto il destino aveva fatto una grande differenza fra i due gli vennero le lacrime agli occhi.

Egli amava tanto sua madre e anche per questo quella frase, seppure dettata solo da un inconsueto momento di ira, lo fece soffrire di più.

La cosa non finì lì.

«Se non darai prova, immediatamente, di recuperare con sufficiente impegno, ebbene stavolta parlerò con tuo padre e prenderemo gli opportuni provvedimenti!».

Donna Concetta voleva più che altro scuotere definitivamente il proprio figlio, minacciando di assumere gli atteggiamenti che erano tipici del marito. Ella non si rese conto esattamente, però, di quanto avesse alzato il tono della voce e la porta socchiusa fece filtrare il colloquio fra i due nel corridoio che ne prepara l’accesso.

Giusto in quell’attimo passava don Giuseppe, il quale, dunque, sentì chiaramente quasi l’intero sfogo della moglie e in particolare le sue ultime parole, dalle quali si sentì chiamato in causa direttamente.

Egli non perse tempo ad assumere il ruolo al quale quelle parole sembravano invitarlo; entrò come una furia dentro al salone e, senza dire parola, si avventò sul figlio e gli mollò una serie di ceffoni che lo fecero letteralmente stramazzare su uno dei divani.

«Irrispettoso! Inconcludente!» si mise ad urlare, preso dalla implosione aggressiva, non rendendosi conto di quanto male stesse facendo al figlio, non solo fisicamente.

Donna Concetta rimase pure lei stupita di fronte a tanta violenza. Ella non avrebbe mai e poi mai desiderato che le sue parole contribuissero a realizzare quella scenata; semmai le sue frasi volevano scuotere il figlio. Magari lo aveva fatto usando un tono troppo acceso, ma in ogni caso non pensando minimamente a una punizione così severa.

Venne presa, perciò, da un grande senso di colpa, per cui corse verso il marito, implorandolo di smettere immediatamente.

«Ti prego, adesso basta!» lo implorò.

Mentre diceva quelle parole fece come per afferrargli le braccia, invitandolo così a desistere.

«Basta, basta così» insistette.

Il marito era ormai tanto preso dal suo sacro furore che non solo non intese l’invito rivoltogli, ma addirittura, cieco d’ira, rivolse la sua violenza anche alla moglie, colpendola con forza al viso con un sonoro schiaffo.

«È colpa tua, della tua eccessiva debolezza!» le urlò mentre la colpiva.

Poi, quale predone che ha smesso di infierire sulla sua pietosa vittima, don Giuseppe se ne andò.

Fece come se avesse svolto doverosamente il suo compito di padre e di marito e non ebbe un attimo di incertezza: ciò che aveva fatto gli pareva assolutamente giusto.

Il figlio meritava una lezione per il suo scarso rendimento scolastico e, soprattutto, per il suo carattere triste, che lo portava a isolarsi e a essere antipatico a tutti.

Pareva che don Giuseppe scontasse il debito dell’isolamento che la famiglia Vizzini, la sua famiglia, aveva contratto con la gente di San Fratello.

I Vizzini, in effetti, non erano mai stati amati dai loro concittadini, a causa di quel modo di essere che tanto contrastava con la comune bontà dei paesani.

«I Vizzini sono fatti così» erano soliti dire a San Fratello, quando parlavano dello stridente contrasto fra quella famiglia e il resto del paese.

E se a San Fratello conoscevano bene i Vizzini, anche a Pietralunga stavano imparando a conoscerli.

Da qualche tempo, infatti, a Pietralunga si era sparsa la voce circa la maniera di fare di don Giuseppe nei confronti della moglie e qualcuno aveva cominciato a chiedersi perché mai gli Altavista avessero voluto imparentarsi con una famiglia così diversa dalla loro, per le mancate origini di nobiltà e anche perché erano tanto diversi nel comportamento, anche in quello più minuto.

Certo a tutti sfuggiva il dramma interiore di don Giacomo Altavista e la moglie, i quali avevano vissuto tempi penosi prima di concludere quel matrimonio; soprattutto sfuggiva loro il ruolo essenziale giocato dalla malattia di Rosalia Altavista.

L’esistenza di quest’ultima, viste le cose dall’esterno, aveva un posto così marginale nel contesto della famiglia che nessuno poteva vedervi un elemento determinante per quella scelta, rivelatasi, con il senno di poi, sbagliata.

Chi soffriva più di tutti era proprio donna Concetta, la quale doveva sopportare personalmente il peso del rapporto con la famiglia Vizzini e con il marito in particolare.

Quel giorno la sofferenza fu davvero grande, un tormento.

Da buona e sensibile madre ella non poté trattenere le lacrime abbracciando quel martoriato del figlio Salvatore, il quale se ne stava, quasi lasciato andare, sul divano.

Ripetutamente gli chiese perdono, dicendogli che lei era stata l’unica colpevole della bravata del padre, che non avrebbe dovuto mai e poi mai dire quello che aveva detto e diceva queste cose mentre lo carezzava in volto e gli stringeva le mani, quasi per fargli coraggio e forza di risollevarsi.

Salvatore non esitò un attimo a perdonarla; legato come era a lei da sano e robusto legame di affetto, egli comprese subito il dramma della madre e la sentì molto vicina a sé in quel difficile momento.

Il figlio, anzi, si mise a pensare al rapporto fra madre e padre, a come il carattere gentile della madre potesse sopportare la rudezza di quell’uomo, fra l’altro essendo la madre abituata a un clima familiare così ricco di scambi affettivi e di stimolazioni positive. Soffrì molto, lui che già soffriva per sé, a pensare alle pene della madre.

Quell’episodio, comunque, determinò una spinta al maggiore impegno scolastico in Salvatore, il quale volle così fare un veloce passo verso l’autonomia; lo fece per questo, più che per accontentare il padre.

Infatti, a ventuno anni si diplomò, seppure con il minimo dei voti e quel momento segnò per lui l’inizio di una nuova vita.

Il fratello Rosario si diplomò tre anni più tardi e anche egli ottenne il titolo con il minimo dei voti, giacché anch’egli aveva offerto un impegno appena sufficiente per il raggiungimento dell’obiettivo.

Ad altro egli aveva rivolto le sue attenzioni: più che ai libri, infatti, egli pensava alle donne.

Allorquando, tuttavia, i genitori gli facevano rilevare quanto il suo rendimento fosse modesto egli, che aveva un carattere molto più aperto del fratello, sapeva con le buone parole invischiare i genitori nelle sue bugie, grazie alle quali risultava alla fine sempre giustificato e con le quali sapeva sempre promettere un atteggiamento nuovo, più fruttuoso.

Egli sapeva che stava prendendo in giro chi lo ascoltava, mentre recitava le sue promesse, ma sapeva anche che esse erano utili per il suo quieto vivere e perciò non esitava più di tanto. Nei fatti non modificava mai i propri comportamenti e si dice che ottenne la promozione solo perché era figlio di una Altavista.

Rosario aveva sviluppato, molto più di ogni altro, il vezzo di correre dietro alle sottane.

Bisogna dire che sfruttando il prestigio della famiglia spesso egli riceveva molte attenzioni femminili che non gli sfuggivano mai..

I due fratelli Vizzini erano molto ambiti da diverse fra le buone famiglie della zona, le quali avrebbero gradito imparentarsi con chi assommava ricchezza e nobiltà, nonostante l’una e l’altra si fossero recentemente un pochino ridotte.

Dei due fratelli, quello che suscitava le maggiori attenzioni del gentil sesso era il minore, grazie soprattutto alle differenze comportamentali che c’erano fra i due.

Ambedue, infatti, erano dei begli uomini e se si considera la bellezza di donna Concetta Altavista non ci si poteva aspettare diversamente.

Il più grande, però, a causa dei notevoli struggimenti interiori aveva assunto anche nei lineamenti del viso e nella postura delle spalle un atteggiamento caratterizzato da contrazione e rigidità, le quali ne diminuivano l’eleganza; ma, in verità, era soprattutto il diverso comportamento a rendere meno interessante Salvatore agli occhi delle donne.

Rosario aveva subito cominciato ad accumulare successi e sin da quando aveva frequentato la scuola media erano note certe sue scappatelle, sagacemente nascoste, con le sue coetanee.

«Hai preso tutto da tuo zio Benito!» ebbe a dirgli una volta il padre, quando andarono a protestare presso di lui i genitori di una ragazzina di modeste origini sociali che, in un momento di sconforto, aveva rivelato la corte assidua, nonché il successivo abbandono, da parte di Rosario.

«Sì, sei proprio come tuo zio Benito!» gli ripeteva il padre e non voleva certo significare cose positive attraverso quel paragone.

Don Giuseppe, infatti, ripensava spesso all’avventura del fratello con quella contadinella, Giuseppina Buttigè, che aveva quasi messo in crisi casa Vizzini e, ricordandosi le parole che il padre aveva detto al fratello Benito, venendosi ora a trovare in una situazione simile, don Giuseppe ripeteva al figlio le parole sprezzanti che allora investirono il fratello.

Quel ragazzo, però, sembrava proprio non voler intendere e infatti non faceva altro che ripetere, quasi con monotonia, le solite promesse, cui i familiari erano abituati da sempre; in cuor suo, però, sapeva di non sapersi negare l’ebbrezza che quelle avventure gli regalavano.

A differenza dello zio Benito, però, Rosario seppe rivolgere le sue attenzioni a donne di diverse categorie sociali, non commettendo, dunque, l’errore di rivolgersi solo alle contadinelle!

Poteva contare diversi merletti fra le sue conquiste e questa sua, diciamo così, debolezza era ormai nota anche ai genitori e rappresentava ennesimo motivo di contrasto fra i fratelli Vizzini.

Salvatore, infatti, non poteva vantare altrettante vittorie e, anzi, non riusciva mai a concludere una delle sue iniziative amorose; egli se ne indispettiva molto e trovava così un’altra questione su cui affondare le accuse ai propri genitori, colpevoli, ai suoi occhi, di aver fatto due figli, dei quali uno era la bella copia di un buon modello, l’altro no.

Egli passava ore e ore delle sue giornate a riflettere su queste cose. Spesso preferiva farlo in perfetta solitudine e allora si recava nei campi, in luoghi dove non poteva essere disturbato che dal cinguettio degli uccelli.

Durante i soliloqui egli si incupiva e sembrava dichiarare guerra al mondo circostante, a un mondo dal quale si sentiva distaccato, tanto sembrava in quei momenti lontano e assente rispetto alla vita che gli si svolgeva intorno.

Magari se ne stava a martoriare un filo d’erba, strappato alla terra, sino a quando non gli scompariva fra le dita e solo per necessità, alla fine rientrava a casa.

Davanti a sé trovava sempre la madre la quale, allarmata dai suoi comportamenti e dalle sue lunghe assenze, si ritrovava ad aspettarlo con ansia.

Data l’età raggiunta e considerato che ormai aveva conseguito un diploma, a quel tempo si pose, per Salvatore Vizzini, il dilemma del che fare nell’immediato futuro.

Ai genitori, e alla madre in particolare, sarebbe piaciuto che i figli si fossero laureati, che avessero seguito la strada che stavano felicemente percorrendo, ad esempio, i figli di Francesco Vizzini e Concetta Pirro. Il destino, però, volle che quei nipoti fossero gli unici, fra tutti i nipoti di don Salvatore Vizzini, a laurearsi. Pertanto, fu una delusione cocente per i genitori la decisa affermazione, da parte di Salvatore, di voler abbandonare gli studi.

Li aiutò a ingoiare il brutto rospo la convinzione che quello del conseguimento della laurea sarebbe stato uno sforzo inutile per Salvatore, considerati gli insuccessi scolastici precedenti.

«Be’! In fondo può essere una buona cosa» disse la moglie al marito, mentre questi pareva nascondersi dentro le lenzuola, continuando a fumare l’insopportabile sigaro, che tanto appesantiva l’aria della camera da letto.

«La scuola è sempre stata pesante per lui e non vorrei che ne risentisse nella salute, lui che, poveretto, è nato già così malfermo…».

Vi è da dire, a questo punto, che il forcipe usato dal dottor Lanza al momento del parto del giovane aveva lasciato il segno nel suo corpo, sotto forma di uno schiacciamento del torace all’altezza dello sterno e delle ultime costole di sinistra e, soprattutto, un piccolo sfondamento all’altezza della zona frontale destra.

Ecco a cosa si riferiva la madre, mentre cercava il colloquio con il marito.

«Io avrei preferito che si laureasse, invece; che portasse in alto il buon nome della nostra famiglia, la quale meritava questo riconoscimento, per tutti gli sforzi che abbiamo fatto per lui, per trascinarlo sino a questo punto» disse don Giuseppe, e continuò: «Avrei voluto che si meritasse quello che gli toccherà nella spartizione della proprietà avendo apportato anche lui qualcosa di prestigioso alla famiglia».

«A tutto pensa Iddio!» gli replicò la moglie, la cui fede non aveva vacillato mai un momento. «Nostro figlio non è forte di cervello e perciò egli dà quello che può; non possiamo chiedergli più di quanto non possa dare».

«Non è un cretino!» replicò seccamente il marito. «Né potrebbe esserlo» aggiunse poco dopo, commentando mimicamente, come a dire che uno come lui non poteva dare al mondo un figlio che fosse cretino. «Egli ce l’ha con noi ed è solo per questo che non segue le nostre indicazioni! » concluse aspramente.

«Ma no! No! Salvatore non ce l’ha con noi… e poi cosa potrebbe avere? Forse che abbiamo mancato in qualche cosa con lui?» lo interruppe donna Concetta.

«Non so di cosa si lamenti, ma so bene che si lamenta troppo. Avrei dovuto essere più duro con lui e invece sono stato un debole, solo perché tu mi hai frenato, ecco perché!» disse don Giuseppe con tono di rimprovero alla moglie.

«Sei stato troppo duro con lui, altro che…» commentò sottovoce la moglie. «Semmai avresti dovuto rincuorarlo di più, dargli maggiore fiducia. Invece non lo hai mai fatto, non hai mai voluto ascoltarmi in proposito» replicò quasi stizzita, ma pur sempre con garbo, la moglie.

Donna Concetta così concluse: «Se solo tu avessi compreso la sensibilità che alberga dentro nostro figlio…».

«Che sensibilità e sensibilità… È un uomo, non una femminuccia!» riprese il marito.

Considerato che la discussione cominciava ad andare fuori dal binario previsto, donna Concetta preferì chiudere a quel punto la conversazione, astenendosi persino dal fare le solite lamentele avverso la cattiva abitudine del coniuge di fumare il sigaro in camera da letto, lamentele che non venivano mai raccolte dal marito.

Il figlio Salvatore, per parte sua, sentiva che il giudizio del padre nei suoi confronti non era positivo e ciò lo mandava ancor più in crisi.

Al contrario, il fratello minore riusciva sempre a ottenere quanto meno un atteggiamento diverso, grazie alla sua ruffiana maniera di fare. Non che il padre lo approvasse; anzi, al contrario, egli non riusciva a digerire quella continua girandola di interessi per le donne, ma i suoi rimproveri non erano mai aspri, perché quel ragazzo riusciva ad attenuarli, quasi a schivarli.

In don Giuseppe c’era anche un certo ottimismo, sulla base della esperienza del fratello Benito, il quale dopo un certo periodo di libertinaggio aveva messo la testa a posto e messo su famiglia.

Egli, dunque, era convinto che prima o poi il figlio Rosario avrebbe seguito le orme dello zio, del quale, a dire un po’ di tutti, aveva preso tanto.

Vi è da dire, però, che la presunta somiglianza fra Rosario Vizzini e suo zio Benito non era del tutto autentica: il dato che li accomunava era l’interesse per le donne, ma in tante altre cose essi erano assai diversi.

A Benito, per esempio, mancava la capacità del nipote di costruire buoni rapporti con la gente, capacità che, al contrario, rendeva simpatico il giovane agli occhi degli altri. Lo zio Benito, invece, era duro e scontroso; il suo apparato ideologico lo portava quasi a sprezzare gli altri e a ritenerli certamente diversi da lui, inferiori. A Rosario, viceversa, mancava il rispetto per la famiglia che aveva lo zio, l’amore per l’ordine, individuale e sociale. Egli era scevro da qualsiasi senso di responsabilità, faceva tutto quello che pensava e ogni suo desiderio voleva che fosse esaudito al più presto.

Il padre, a ogni buon conto, si era convinto che il figlio somigliasse allo zio Benito e spesso dichiarava pubblicamente tale sua convinzione. La madre del giovane, invece, era di altro avviso. Il maggiore senso critico rispetto al marito la portava a un’analisi più precisa della situazione ed ella riteneva che il figlio fosse così com’era in realtà: un ragazzo viziato.

Quando parlava di Rosario era donna Concetta ad avere quasi un tono di rimprovero verso il consorte: «Lo hai sempre accontentato in ogni suo desiderio, e ogni suo volere è stato per te un dovere!».

«Ma no! Quel ragazzo ha il sangue di suo zio Benito» replicava il marito.

«Non ha poi tanto di suo zio» rispondeva la moglie, tacendo che l’unico elemento di comunanza fra i due fosse l’amore per le donne, poiché si sarebbe vergognata a riferirlo.

«Ti dico che è tutto suo zio!» continuava il padre del ragazzo. «Vedrai che prima o poi metterà la testa a posto, così come fece Benito a suo tempo».

«Valeva proprio la pena di accontentarlo in tutto?» chiedeva la moglie, tornando a quello che per lei era il problema principale.

«La gente deve forse pensare che il figlio di don Giuseppe Vizzini non abbia quello che vuole? Vorresti questo, tu?» chiedeva il marito. E continuava: «Cosa avrebbero potuto pensare? Che non accontentiamo i nostri figli o, peggio, che non possiamo più permetterci di farlo?».

Il silenzio della donna era indicativo del fatto che di fronte alle rigide convinzioni del marito lei sapeva d’essere perdente.

Ma il marito interrompeva persino il suo silenzio, che egli interpretava diversamente: «Ho capito! Tu pensi che io abbia fatto differenza fra Rosario e Salvatore; mi rimproveri di questo, non è vero? No! C’è solo che il piccolo è abituato a chiedere, mentre il grande non vuole abbassarsi a farlo, non vuole umiliarsi a tanto. Perché io, allora, dovrei dargli ciò che egli nemmeno mi chiede?» aggiungeva.

«Ti sbagli, ti sbagli di grosso» lo interrompeva la moglie. «Quel ragazzo non è per niente superbo! Proprio no! Se egli non ti chiede niente è solo perché è più timido del fratello, perché ha soggezione di te. Altro che superbia…».

«Deve imparare a essere un uomo, non deve avere soggezione!» rispondeva seccamente don Giuseppe.

Egli non si rendeva conto di passare da una accusa a un’altra, magari del tutto contrastante con la precedente. Talvolta accusava il figlio di essere scarsamente virile, “una femminuccia” preferiva dire; altre volte lo accusava di superbia, quasi che il figlio non chiedesse al padre per non subordinarsi a lui.

Egli era lontano dalla vera spiegazione dei fatti e non se ne rendeva conto.

Anche in questo caso il parere della moglie risultava molto più aderente alla realtà di quanto non lo fossero quelle che ormai erano solo ipotesi, erronee, del marito.

D’altra parte era sempre stata lei a tenere vivi i contatti con i figli, era lei a parlare spesso con loro e a seguirli attentamente in ogni loro cosa, magari senza darlo a intendere.

Inoltre, c’era lei ad aspettare Salvatore al rientro dalle sue lunghe passeggiate solitarie ed era ancora lei a non prendere sonno se non dopo avere sentito un seppur minimo rumore che la confortasse circa l’avvenuto rientro di Rosario da una delle sue assenze notturne per convegni amorosi.

Il padre, invece, s’interessava assai poco a tutto ciò; al più sapeva le cose che succedevano, ma non le approfondiva mai, in nessun modo.

Le rare volte che decideva di intervenire lo faceva in un modo tale da far pentire chiunque, anche per un attimo, avesse ritenuto utile il suo intervento.

Comunemente, infatti, non seppe fare altro che ribollire la sua ira e scatenare le briglie dell’aggressività. Riusciva così a ottenere sempre un risultato diverso da quello che egli stesso si sarebbe atteso…

Infatti, né Salvatore cambiò il suo atteggiamento e il suo giudizio verso il padre né Rosario mutò i suoi comportamenti. Anzi, anche quest’ultimo diede prova di scarsa aderenza alle aspettative del padre, allorquando gli comunicò che anche lui non intendeva somigliare ai cugini, figli dello zio Francesco.

Così un giorno disse a suo padre, con il solito tono palesemente adulatorio: «Padre, sono davvero dispiaciuto di doverti dare una notizia che tu non avresti voluto avere mai. Sappi che prima di maturare una decisione simile ho passato tante notti insonni; mi turbava lo sconforto che avrei determinato in te, ma alla fine mi sono convinto che ancor maggiore sarebbe stato il tuo dispiacere se io avessi interrotto la mia carriera scolastica ancora più in là, magari dopo averti illuso di poter realizzare quanto tu desideri».

Rosario si esprimeva con quelle parole tanto cortesi quanto poco sincere, dato che egli sapeva che quello era l’unico modo per evitare che il padre perdesse il controllo di sé.

E così arrivò gradualmente alla sentenza definitiva:

«Pertanto» finì con voce sommessa, «ho deciso che è meglio che io interrompa ora i miei studi; questo diploma mi basterà… Non ce la farei mai a conseguire una laurea; i miei sforzi non potrebbero bastare, poiché lo studio mi affatica molto e io vorrei evitare di perdere la salute sui libri».

Si fermò a quel punto, avendo compreso che i livelli d’ampollosità erano ormai tanto elevati che il gioco poteva essere scoperto. La sua, infatti, era una condizione di salute invidiabile; egli non aveva accusato mai disturbo alcuno, di certo non per affaticamento da studio…

Dopo la prima delusione dovuta al rifiuto del figlio Salvatore di iscriversi all’Università, don Giuseppe Vizzini aveva puntato tutte le sue speranze sul figlio minore, Rosario. La sua ferma convinzione che quest’ultimo, alla fine, avrebbe messo la testa a posto lo portava alla certezza che Rosario avrebbe mutato atteggiamento anche nei confronti dello studio e che, pertanto, avrebbe conseguito una laurea. Don Giuseppe sperava che il figlio si laureasse in Giurisprudenza, per potere da lui essere difeso nei suoi ricorrenti contenziosi; oppure che si laureasse in Medicina, per potere finalmente sostituire il dottor Lanza, ormai tanto vecchio e stanco.

Le amare confidenze del figlio furono, perciò, come un’inattesa percossa.

«Ho avuto due figli indegni del nome dei Vizzini!» tuonò l’ira  don Giuseppe, e continuò: «Nel mentre noi ci siamo sforzati di portare la famiglia sempre più in alto, voi non avete saputo fare altro che crescere a nostre spese, senza mai dare nulla in cambio e non assumendovi mai responsabilità alcuna».

Ormai non riusciva più a controllare le parole ed era già tanto che le languide dolcezze del figlio lo avessero bloccato nei muscoli delle braccia, se non in quelli della lingua.

«Figli indegni! Ecco cosa siete! Questo è il modo di ricambiarci: non vi è stato chiesto niente, se non di andare a spassarvela in qualche università e, fra un divertimento e l’altro, di conseguire una laurea. Ecco, invece, come ve ne uscite! Vi affatica lo sforzo, ma che affanno è? Solo quello di avere la pazienza di restare per qualche ora fermo a guardare cosa c’è scritto in un libro? D’ora in poi le cose cambieranno! Eh, sì! Le cose devono cambiare; non posso più tollerare che si vada avanti così. Adesso dovrete dirmi quello che volete fare e una risposta mi è dovuta al più presto. Non potete continuare a crogiolarvi in questo modo così poco edificante… È meglio che entrambi veniate con me; vi insegnerò io com’è fatta la vita!».

A quel punto si fermò per un attimo; aveva quasi la necessità di tirare il fiato, dopo uno sforzo così energico. Poi, per evitare di continuare nelle sue escandescenze, preferì lasciare la stanza e andare via.

Le parole del padre tuonarono minacciose sia per Rosario, che le aveva ascoltate, sia per Salvatore, al quale furono riferite. Parve ai due fratelli che fosse arrivata l’ora di decidere sul proprio futuro e sul che fare nell’immediato.

In verità fu Salvatore ad avvertire maggiormente la consapevolezza di dover fare qualcosa. Egli passò ore e ore a riflettere e alla fine giunse alla conclusione che era venuta l’ora di mettere su casa e assumersi le proprie responsabilità.

Occorre premettere che il padre era riuscito a far evitare al figlio maggiore, nella sua qualità di primogenito, il servizio militare, esattamente come aveva fatto lui a suo tempo.

Perciò Salvatore era nelle condizioni di poter decidere del suo domani senza temere la pausa del servizio di leva, cosa che invece non fu possibile per Rosario.

Salvatore volle esporre le sue conclusioni alla madre, per riceverne un parere che sapeva essergli tanto utile quanto sentito.

Egli si rivolse alla madre e, dopo una serie di prolegomeni, arrivò al nocciolo della faccenda: «Come hai certamente capito, madre, ritengo sia venuto il momento di mettere su casa. Per intanto dovrei scegliermi una moglie» concluse sorridendo e rimanendo nell’ attesa dell’opinione della madre.

Donna Concetta fu felice di esprimerla immediatamente, ritenendo anche lei che fosse arrivato il tempo giusto perché il figlio mettesse su famiglia. Ella aveva già da tempo programmato la cosa e aspettava solo che le fosse data l’occasione per realizzare il suo desiderio e l’occasione era venuta.

Nella vicina Caltanissetta, capoluogo di provincia sia di San Fratello sia di Pietralunga, risiedeva una famiglia di lontani cugini degli Altsvista. Si trattava dei Barone, anch’essi con discendenza nobiliare; da sempre essi erano stati vicini agli Altavista, oltre che per ragioni di parentela, per un profondo rispetto che legava l’una famiglia all’altra.

I Barone, persone generose e disponibili, erano fra i primi a ricevere l’invito alla festa in onore della Madonna delle Grazie a Pietralunga, in casa Altavista, e mai una volta avevano mancato l’appuntamento.

L’incontro fra donna Concetta Altavista e donna Luisella Barone era sempre un incontro ricco di simpatia e affetto. Le due donne si somigliavano assai in quanto al carattere ed erano anche coetanee. Le differenziava solo la bellezza, della quale la Barone non era provvista altrettanto che la Altavista. Non che ella fosse una donna spiacevole, giacché, anzi, un viso carino la adornava a sufficienza; era il corpo che non rendeva la stessa leggiadria che esprimeva l’altra donna. La Barone, infatti, era una donna massiccia, alta quanto grassa; una mole, insomma, non in sintonia con la finezza dei modi e del carattere della signora.

La figlia di donna Luisella Barone, Amalia, somigliava in tutto e per tutto alla madre, della quale era la controfigura giovanile. Era su di lei che donna Concetta Altavista aveva posto le sue attenzioni circa la donna da proporre in sposa al figlio Salvatore. Ella da tempo aveva cercato di favorire la vicinanza dei due giovani, durante gli incontri fra le famiglie, e non perdeva occasione per elogiare le qualità della ragazza, sulla quale si esprimeva con grande dovizia di qualificazioni positive: ne sottolineava il carattere gentile, ne elogiava la dolcezza dei tratti e ne rilevava la cultura. Donna Concetta ne tesseva le lodi con sicurezza e semplicità, poiché esse corrispondevano realmente al giudizio che ella aveva sulla giovane.

Amalia Barone e Salvatore Vizzini, dunque, avevano avuto occasione di frequentarsi abbastanza spesso e la giovane non aveva mancato di mostrare una certa disponibilità nei confronti dell’uomo.

Al primogenito di casa Altavista, tuttavia, risultava difficile ricambiare le simpatie della ragazza, a causa della corpulenza di Amalia, la quale, come abbiamo detto, somigliava fisicamente alla madre.

Pur trovandola, infatti, carina e gentile, tanto simpatica quanto raffinata, Salvatore Vizzini non riusciva a superare il blocco causatogli da quel corpo vistosamente tondeggiante.

Il loro rapporto, perciò, si era sempre mantenuto su livelli di franca amicizia, mai andando verso quell’altro tipo di legame che avrebbe fatto felice e contenta donna Concetta Altavista e donna Luisella Barone.

Quando la madre decise di proporre al figlio il nome di Amalia Barone, quale sua possibile compagna di vita, si trovò quindi di fronte alla decisa opposizione di Salvatore:

«Mi è molto simpatica, ma solo come amica, madre» disse Salvatore.

«Be’, vedremo più in là…» rispose donna Concetta dopo qualche attimo di silenzio.

Non insistette perché comprendeva che sarebbe stata la peggiore maniera per cercare di raggiungere lo scopo; perciò pose ogni affidamento sulla autentica tenerezza di Amalia e sulle sue qualità morali e culturali.

Considerato che il figlio non aveva mai manifestato particolare interesse per la bellezza femminile, ella riteneva che quelle qualità avrebbero avuto il sopravvento. Continuò, pertanto, a favorire gli incontri fra le due famiglie, come se nulla fosse stato; anzi, poco tempo dopo furono i Vizzini a recarsi a Caltanissetta, invitati dai Barone, in occasione della festa della Real Maestranza, che si celebra in quella città il giorno del mercoledì Santo.

Al seguito della processione i due giovani ebbero ancora una volta la possibilità di stare vicini e pareva che fossero contenti di ciò.

Al rientro a Pietralunga donna Concetta Altavista non perse occasione per chiedere al figlio come avesse trovato l’ambiente di casa Barone.

«Lo conosciamo bene e da tempo ormai…» rispose Salvatore, il quale aveva inteso bene che la madre voleva sapere altro. «In quanto ad Amalia, è stata davvero gentile e carina con me, come al solito del resto. Peccato che non abbia una linea più snella». Salvatore terminò così, ben sapendo di dare la risposta che alla madre interessava ed evitando al contempo di farlo in maniera diretta.

La madre ne fu ancora una volta amareggiata; tuttavia, continuò a pensare che il tempo avrebbe favorito un cambiamento di opinioni nel figlio e che, dunque, era opportuno continuare ad attendere.

Per una di quelle coincidenze che talvolta cambiano il corso della vita di una persona, da lì a pochi giorni sarebbe accaduto un fatto di enorme importanza per tutti i componenti della famiglia.

Donna Concetta all’improvviso cominciò ad accusare forti dolori al fianco, insistenti e lancinanti.

Il dottor Lanza fece una delle sue ultime visite proprio in quella circostanza; poco tempo dopo, infatti, sarebbe deceduto, ormai sulla soglia dei settant’anni.

Le sue mani esperte lo indussero a diagnosticare una possibile calcolosi renale e perciò consigliò che la paziente si ricoverasse. I famigliari seguirono il suo consiglio e ricoverarono donna Concetta all’Ospedale di Caltanissetta.

I Vizzini non avevano avuto, come sappiamo, figlie femmine, per cui si prodigarono ad assistere la malata le donne della parentela, mentre i figli maschi si recavano quotidianamente a farle visita, per avere notizie sulla natura della malattia e sul suo decorso, notizie che in qualche modo li tranquillizzarono.

Non mancarono di dare il loro apporto i Barone, e in particolare Amalia, favoriti anche dal fatto di vivere nella stessa città.

Sembrava, quella, una circostanza favorevole all’ennesimo incontro fra Salvatore Vizzini e Amalia Barone, e invece fu proprio allora che, per una sorta di magico destino, egli conobbe quella che sarebbe stata la sua donna, l’unica della sua vita.

Un giorno Salvatore si era recato a far visita alla madre, come al solito; mentre attraversava il lungo corridoio che portava alla camera dove era alloggiata la madre, aveva notato l’esile silhouette di una giovane donna dai lunghi capelli bruni, che si muoveva ancheggiando sinuosamente.

Salvatore vide la donna da dietro e ne rimase molto colpito, tanto che sentì un forte impulso a conoscerla.

Il suo sangue si era fatto caldo e il cuore ritmava velocemente il suo battito; era questa un sensazione che Salvatore Vizzini provava per la prima volta e ciò mise ancor più urgenza alla curiosità di conoscere la ragazza.

Non gli venne difficile farlo poiché anche la ragazza stava assistendo la propria madre, ricoverata qualche stanza prima rispetto a quella di donna Concetta Altavista.

Si chiamava Rosa Carlino e aveva diciotto anni. Era la figlia di un piccolo commerciante di tessuti che girava i paesi vicini per procurarsi qualche affare fra le madri che pensavano alle doti delle figlie.

La madre della ragazza, anche lei sofferente di calcoli, era ricoverata da pochi giorni.

Si trattava di una casalinga, ben accomodata in questo suo lavoro, nella stessa misura in cui lo erano tutte le donne uguali a lei.

Modesta era la sua condizione sociale e adeguate le sue aspirazioni. Aveva avuto dalla vita quel poco di benessere che aveva desiderato e ne era contenta; con il marito, infatti, erano riusciti a diventare proprietari di una piccola casetta, mangiavano a sufficienza e vestivano con decoro.

C’era una sola nota stonata nella loro casa e si trattava proprio di Rosa.

Quella ragazza aveva accettato malvolentieri la condizione sociale ed economica della famiglia e, presa dal sacro furore dei suoi diciotto anni, ambiva a salire, e di molto, i gradini della

scala sociale.

Si dava, perciò, un bel po’ di arie, cercava di vestirsi al meglio e tentava di apparire interessante in tutti i modi e anche la sua andatura flessuosa era espressione di ricercatezza.

Rosa aveva certamente capito che la sua vicina di stanza doveva essere una persona di rispetto; lo aveva capito dall’atteggiamento del personale, dal tipo di gente che andava a farle visita e, infine, dal fatto che la donna aveva avuto assegnata la stanza in fondo al corridoio, la migliore.

Aperte le finestre della fantasia, Rosa aveva perso poco tempo: «Chi è la donna ricoverata nell’ultima stanza?» chiese a un infermiere.

«È donna Concetta Altavista, signorina» le rispose quello. «Non ha mai sentito parlare degli Altavista da Pietralunga?».

Rosa preferì non rispondere, per non fare capire che no, non aveva mai sentito parlare degli Altavista; non voleva dare a intendere che non conosceva, almeno di nome, le persone importanti.

La famiglia Carlino risiedeva da tempo a Caltanissetta e di tutta la famiglia solo il padre andava fuori città per motivi di lavoro.

Le donne, in particolare, non ne avevano varcato mai i confini e, dunque, poco sapevano di ciò che c’era nei paesi vicini; né il padre, persona piuttosto taciturna, amava parlare del proprio lavoro e degli incontri che aveva con le persone che si avvicinavano a lui per motivi di lavoro.

Quando si fermava a mostrare i suoi capi a qualcuna delle donne che andavano ad ammirare la sua roba, tutte le volte aveva occasione di sapere tutto quello che succedeva alle persone importanti e a quelle meno note del paese. A Pietralunga, in particolare, da tempo si erano radicati gli interrogativi sulle motivazioni dello strano matrimonio fra donna Concetta Altavista e don Giuseppe Vizzini e anche le orecchie del padre di Rosa Carlino avevano potuto sentirle, ma egli non aveva prestato molta attenzione al fatto. Era stato tantissime volte a Pietralunga e da sempre sapeva chi fossero gli Altavista, così come sapeva del matrimonio fra donna Concetta e don Giuseppe e anche delle vistose differenze fra i due.  Mai e poi mai, tuttavia, avrebbe pensato di dover avere a che fare con quella famiglia; eppure così doveva essere.

Salvatore Vizzini era davvero ansioso di conoscere quella così attraente ragazza, per cui cercò in tutti i modi una scusa per farlo e alla fine riuscì a rivolgerle la parola.

Mascherata da un atteggiamento di apparente indifferenza egli poté riscontrare nella ragazza altrettanta disponibilità all’incontro, curiosa come era, Rosa, di conoscere un membro di una famiglia importante.

Pertanto non fu difficile per i due ritrovarsi, prima nello stesso reparto, poi fuori dall’ospedale, in città.

L’entusiasmo che la ragazza aveva scatenato in Salvatore Vizzini fu appena un poco mitigato dalla non eccelsa bellezza di Rosa Carlino. Non si poteva, infatti, dire che il suo viso fosse particolarmente grazioso o che i suoi lineamenti avessero alcunché di specialmente interessante: il suo era un viso comune, appena adornato dai lunghi capelli che le scendevano sino alla schiena.

Salvatore era stato attratto per lo più dal corpo della donna, la quale gli aveva scatenato dentro un interesse quasi istintivo.

Rosa Carlino si rese subito conto che quell’uomo coltivava le sue voglie e perciò poté tirare la corda a lungo.

Sapeva di giocarsi un’occasione importante per entrare a far parte di una famiglia benestante e, addirittura, con trascorsi di nobiltà.

Certamente comprendeva le difficoltà dell’impresa.

Sapeva che tutti si sarebbero opposti a una loro eventuale relazione, stante il divario sociale fra le due famiglie, ma Rosa aveva molta fiducia in sé e una buona dose di ambizione.

Volle proprio tentare, nonostante comprendesse bene le difficoltà, ma intimamente era quasi sicura di farcela.

La sosteneva l’interesse ossessivo che continuamente le manifestava Salvatore Vizzini.

Bisognava vederlo.

Quando egli la incontrava il suo volto assumeva i lineamenti espressivi di chi ha tanto bisogno di qualcosa che, improvvisamente, gli si para davanti.

Durante uno dei loro incontri Salvatore Vizzini cominciò a toccare Rosa e ad accarezzarla; la passione prendeva fuoco e le sue mani trasmettevano calore, ma la donna non lo fece andare oltre.

Rosa comprese che era arrivato il momento di parlare:

«Che futuro abbiamo, noi?» chiese mentre gli allontanava le mani dal suo corpo.

Il silenzio di Salvatore Vizzini fece continuare Rosa Carlino: «Tu mi vuoi, ma i tuoi vorranno mai che io sia tua?».

Diceva queste parole ben sapendo di stimolare l’orgoglio dell’uomo, ma era proprio quello che voleva.

Infatti.

«Essi non possono proibirmi di avere quello che voglio e io ti voglio pazzamente!» rispose quello.

Fu qui che Rosa Carlino concesse maggiore libertà alle avide mani su di lei, lasciando che i freni della passione dell’uomo si allentassero; tuttavia, saggiamente, fece sì che i limiti fossero rispettati.

Ella sapeva che concedendosi subito alle voglie di Salvatore Vizzini avrebbe bruciato la forza che il desiderio dell’uomo scatenava e quella forza le serviva…

Dopo un certo periodo in cui tentò di resistere alle richieste della donna affinché si ufficializzasse il loro rapporto, Salvatore Vlzzini un giorno decise di parlarne in famiglia.

Voleva concludere la cosa con una certa fretta, per cui si rivolse con inusitata decisione alla madre, prospettandole la questione.

La delusione provata da donna Concetta Altavista fu grande.

Ella, comunque, comprese subito che il figlio aveva preso quella posizione con estrema decisione e che difficilmente avrebbe mutato il suo parere, tanta era la foga con cui Salvatore aveva presentato la sua richiesta. Mai, in passato, egli si era permesso di usare toni così perentori, così indubbi.

Colpevole era la forza del desiderio, proprio quella su cui aveva puntato tutte le sue carte Rosa Carlino.

Donna Concetta decise allora di soprassedere; in quel momento non avrebbe cavato un ragno dal buco e non le restava che sperare in meglio per l’indomani. Il giorno dopo, tuttavia, ella si trovò di fronte a un Salvatore ancor più caricato dall’ennesimo, vigoroso, incontro d’amore con Rosa Carlino, la quale gradualmente andava concedendo maggiori piaceri all’uomo, dal quale si faceva raccontare per filo e per segno i colloqui con la madre, in modo tale da potere modulare con sagacia i propri atteggiamenti.

Nonostante tutti gli sforzi, dunque, donna Concetta Altavista non trovò sbocchi; la posizione del figlio era talmente decisa che ella dovette ricorrere all’ultima delle sue possibilità:

«Non so proprio cosa dirti» disse rivolgendosi al figlio, «parlane con tuo padre».

Aveva provato con tutte le sue finezze, aveva tentato di riproporgli il matrimonio con Amalia Barone, presentandogli i benefici dell’unione con una famiglia di pari livello; aveva persino provato la carta del rinvio, sperando che la passione del figlio si dissolvesse; ma invano.

Tutto era stato inutile.

D’altra parte il figlio aveva fretta di concludere e chiedeva affinché la famiglia prendesse contatti con quella di Rosa Carlino, perché fidanzamento e matrimonio avvenissero nel più breve volgere di tempo.

La Altavista, perciò, aveva provato l’ultima possibilità: ella sapeva che il marito si sarebbe opposto fortemente e con ogni mezzo alla proposta; quindi sperava che il marito riuscisse laddove non aveva potuto lei.

L’incontro fra padre e figlio avvenne un buio pomeriggio, mesto e uggioso quanto grigia era l’atmosfera del colloquio.

Non mancarono tuoni e fulmini…

Il padre, cintasi la giornea, esordì tuonando: «Non ti permetto nemmeno di pensare una cosa simile!» sbottò don Giuseppe, non appena il figlio concluse la sua proposta. «Vuoi forse rovinare tutto quello che da anni e anni andiamo costruendo io, tua madre, i tuoi zii, i tuoi nonni? Come pretendi di avere il mio assenso a una proposta così sconcia?».

Il forte tono di rampogna del padre, però, corrispose alla risoluta opposizione del figlio.

«Voglio che rispettiate una mia decisione» ribatté Salvatore «e la mia decisione è quella di sposare Rosa Carlino!».

«Macchè decisione! Tu non stai usando il cervello. L’unico ’impulso che ti guida è il desiderio e ti obnubila la mente! Ah! Se avessi mai pensato una cosa simile! Avrei saputo cosa fare…».

Pronunciava quelle parole mentre pensava che se avesse avuto esperienze con altre donne che avessero saputo fargli scaricare l’istinto, certamente il figlio non avrebbe fatto una proposta così insensata.

Don Giuseppe si rimproverava, perciò, di non averlo spinto con la giusta decisione a quelle esperienze, ma gli era sembrato che il figlio non avesse mai avuto una gran voglia…

Era come se in un baleno don Giuseppe avesse rivissuto la storia del figlio e ne avesse trovato una grossa falla, alla quale, ormai, non poteva porre rimedio alcuno.

Non gli rimaneva altro che il tono della minaccia, la più dura possibile, perché lo scellerato del figlio rischiava di mettere in crisi tutto l’indirizzo della famiglia: quello, anziché aggiungere proprietà e lustro alla famiglia, voleva dissiparne!

«Cosa trovi in quella donna? Non è neanche bella, giacché se almeno lo fosse potrei trovare un motivo minimamente accettabile per la tua proposta, ma non lo è! È solo il suo corpo, allora, che ti attrae, non è vero? Ah! Come vorrei che te ne rendessi conto! Non è quello l’unico calore che puoi provare…».

«Padre, io la voglio» replicò caparbiamente il figlio, «e la voglio così com’è!».

«Bene! Allora ti farò provare io cosa vuol dire! Sappi che se vuoi quella donna l’avrai! Così com’è. Tu pure, sarai suo così come sei: non ti darò nulla di mio!».

Adirato e pervaso da un gran senso di sconfitta il padre si allontanò, sbattendo la porta alle sue spalle.

Tante volte egli aveva accusato il figlio di essere un uomo ancora immaturo, una “femminuccia” lo aveva spesso definito; vai a vedere con quanta sfrontatezza e decisione adesso Salvatore si opponeva alle scelte che i suoi genitori avevano fatto per lui, contrapponendogli una soluzione che essi giudicavano tanto negativa e contraria agli interessi della famiglia!

Don Giuseppe ripensava al tempo in cui Salvatore aveva rifiutato di continuare gli studi ed egli lo aveva incitato a farsi una propria vita, ad avere una sua autonomia: “Che bella autonomia è andato a cercarsi!” pensava fra sé e sé.

In ogni caso anche l’acidulo intervento di don Giuseppe non sortì effetto alcuno: Salvatore Vizzini non recedette di un millimetro e non accettò di mutare la sua decisione.

Era ovvio che la famiglia non l’avrebbe appoggiato nella richiesta di fidanzamento con Rosa Carlino, che per altro egli voleva con tutti i crismi della norma. Giammai la famiglia Vizzini-Altavista sarebbe andata dalla famiglia Carlino a chiedere la mano di Rosa; per loro era come precipitare all’inferno e si rifiutavano di farlo.

Questo fu chiaro anche per Salvatore.

Consapevole di ciò e totalmente preso dal suo desiderio, egli pensò che ci fosse un solo modo per imporre la sua volontà ai genitori.

Rosa Carlino questo lo aveva capito già da un pezzo, ma non aveva voluto parlarne; aspettava che fosse Salvatore a maturare la decisione e l’ora era arrivata.

Rosa capì che Salvatore aveva in mente ciò che a lei più conveniva e perciò accettò di realizzare il piano, ancorché sottaciuto.

Successe tutto al chiaro di luna, in una sera di primavera che regalava sufficiente frescura.

Erano entrambi alla prima esperienza, ma così tanto attesa.

Salvatore Vizzini sentì come se la sua virilità a quel punto si fosse finalmente affermata; era la prima volta che provava la sensazione di essere un uomo, ormai, e aveva realizzato quello che aveva fermamente voluto, anche contro la volontà del padre.

“Al diavolo! Al mondo ci sono pure io!” pensava.

Rosa era lì.

La sua femminilità era esposta alla tenue luce del tramonto, mentre la piacevole frescura le regalava una ulteriore, intima e gradevole sensazione.

Salvatore era a quel punto tutto suo e ciò le concedeva di realizzare il suo sogno di potere appartenere a una famiglia d’alto rango, superiore alla sua.

Non c’era dubbio che così dovesse essere, poiché la riparazione del misfatto le era oramai dovuta!

I due amanti inscenarono, dunque, una specie di fuga, che fu solo il pretesto perché Salvatore Vizzini presentasse come immodificabile la sua scelta ai suoi genitori.

Quando le fu riferito il fatto, donna Concetta Altavista fu costretta a letto per qualche giorno, tanto fu il dolore che provò ascoltando la notizia riguardante il figlio.

Mai ella avrebbe pensato a un fatto simile nella sua famiglia!

Perse l’appetito e passava ogni notte insonne; si trovava a pensare alla sua vita, a com’era stata felice prima di sposarsi e come, per contro, aveva vissuto tante peripezie dopo il matrimonio; e adesso anche i figli le davano grandi afflizioni, pure loro! Né c’erano più a consolarla il padre, deceduto da qualche tempo, né gli anziani domestici, anch’essi passati a miglior vita. In casa rimaneva solo una donna, relativamente giovane, la quale faceva un po’ di tutto, dalla pulizia della casa alla cucina.

Le condizioni economiche della famiglia erano rimaste pesantemente colpite dal periodo bellico e, nonostante gli sforzi del capofamiglia, non era stato possibile ritornare ai fasti di casa Altavista. Donna Concetta, perciò, era venuta a trovarsi nelle condizioni di dovere pure lei dare una mano per la conduzione della casa. Era con piacere che lo faceva, ma era triste per lei vedere la propria casa ridotta al silenzio, non più rimbombante di voci e di suoni, come una volta.

Manco a farlo apposta anche la presenza della giovane donna in casa le aveva creato dei problemi.

Il figlio Rosario non aveva esitato, infatti, a provare a cogliere il pizzo di quella donna, la cui presenza in casa lo stimolava, quasi obbligandolo a provarci, ed essendo il figlio dei padroni di casa, oltre che un uomo simpatico e bello, non aveva trovato molti ostacoli nel suo cammino.

Non che la donna fosse di facili costumi; anzi, al contrario. Il fatto è che Rosario era molto capace con le donne, nelle quali riusciva sempre a suscitare un interesse, ad affascinarle e a colpirle.

Anche quella volta era riuscito a far pensare alla donna che lui l’amava veramente e lei aveva ceduto alle sue tentazioni.

La madre aveva compreso l’intrallazzo e aveva dovuto fare ricorso, ancora una volta, alle sue arti per far smettere la relazione e mettere tutto a tacere, in modo tale che non scoppiasse uno scandalo in casa.

Aveva appena superato le fatiche di questa sua piccola impresa quando il maggiore dei figli le propose l’ultima grande delusione, mettendola di fronte al fatto compiuto, alla necessità di dovere riparare al torto fatto e, quindi, di dover sposare Rosa Carlino.

Donna Concetta Altavista passò parecchi giorni a letto, solendo amaramente ripassare i periodi della sua vita, ricercando eventuali sue colpe o mancanze; intanto non mangiava né dormiva.

Dovette intervenire il prete, per darle la forza di riprendersi e di accettare quella che ormai era una situazione immodificabile. Furono parole semplici quelle che padre Prizzi usò, ma risultarono efficaci per un’anima sensibile:

«Voi non avete responsabilità alcuna, donna Concetta. Qualcuno, in alto, deve avere deciso così e noi dobbiamo accettare cristianamente tale decisione».

Padre Prizzi aveva compreso bene quale era il vero motivo del matrimonio, che doveva essere tanto in fretta celebrato; ma fece finta di niente. Sapeva che, altrimenti, avrebbe contribuito solo a creare ulteriori malagevolezze. Fece finta, dunque, di non capire che la futura sposa avesse perso l’illibatezza e mostrò di credere che la fretta del matrimonio dipendesse esclusivamente dalla decisione di Salvatore Vizzini.

Se padre Prizzi riuscì a convincere donna Concetta Altavista, non altrettanto poté fare con don Giuseppe Vizzini, il quale non volle saperne per niente.

Egli non riusciva ad accettare il matrimonio del figlio con quella ragazza e volle rappresentare la sua negazione non partecipando al rito. Certo, sapeva che così facendo favoriva un piccolo scandalo, ma egli fu preso dall’alterigia: mai si sarebbe abbassato verso la famiglia di Rosa Carlino, non avrebbe accettato mai che, solo per soddisfare un desiderio inconsulto, il figlio facesse declinare la propria famiglia.

Volle che la gente pensasse che don Giuseppe non aveva cambiato stile e che, dunque, egli non negava ciò che tutti i Vizzini, dai suoi bisnonni a lui, avevano fatto.

Pertanto, al rito si presentarono solo gli sposi, la famiglia Carlino al completo e, per parte degli Altavista-Vizzini, solo Rosario e la madre.

Fu un rito tanto breve quanto mesto.

Padre Prizzi comprese che non era il caso di fare tante cerimonie e diede velocemente la sua benedizione agli sposi.

Salvatore Vizzini volle, anche lui, evitare quanto più possibile le questioni; ritenne, perciò, utile evitare il banchetto nuziale e si limitò alla distribuzione dei confetti appena fuori dalla chiesa. Poi partì, quasi immediatamente, con la novella sposa per la luna di miele.

Donna Concetta era triste per com’erano andate le cose, ma pur sempre commossa per il primo figlio che prendeva moglie. Per cercare di vincere la sua emotività fece presto ritorno a casa, dove la attendeva il marito, il quale nervosamente fumava uno dei suoi sigari davanti a un tavolinetto rotondo, in stile barocco, sul quale riposava un telegramma.

Egli esprimeva la sua ira lanciando il fumo dalla bocca quasi con forza; ripetutamente si appoggiava sui braccioli della sedia come se stesse per alzarsi, ma non si alzava mai.

«Leggi, leggi quel telegramma!» ordinò alla moglie, appena quella varcò la soglia di casa.

Donna Concetta, con gran preoccupazione, avanzò e lesse il foglio.

Quando terminò di leggere non poté fare a meno di volgere lo sguardo verso il marito, il quale attendeva l’incontro degli occhi per sbottare tutta la sua insoddisfazione.

«Quegli auguri sono per me come una beffa!» urlò.

Riprese fiato e si diede un tono più moderato.

«Non era questo che avrei voluto dai Barone! Tutta colpa di quello scellerato…».

In quei frangenti la coppia dl sposi era in viaggio per Palermo. Dal porto di quella città essi si sarebbero imbarcati per la Spagna, per calpestare la terra iberica, teatro ideale per la rappresentazione della passione di Salvatore Vizzini per Rosa Carlino.

Per la donna il viaggio fu affascinante.

Lei non era mai andata oltre i confini di Caltanissetta e, dunque, tutto ciò che osservava era per lei un mondo nuovo.

Il poco che conosceva le derivava dalle lezioni di geografia ricevute durante la frequenza della scuola: così si ricordava di Madrid, di Barcellona, delle corride con i tori.

Il cullare della nave accompagnava i frequentissimi incontri d’amore fra i due coniugi, inframmezzati dalle lunghe passeggiate sul ponte, nell’attesa di scoprire la Spagna.

La crociera, in ogni caso, diede a Rosa qualche piccolo problema; scoprì, infatti, che soffriva il mal di mare, ma fu una cosa lieve, che non le creò soverchi problemi.

L’arrivo fu per entrambi meraviglioso.

Salvatore Vizzini era più esperto di viaggi e, soprattutto, molto più preparato culturalmente all’impatto con una nuova terra, dagli usi e costumi diversi da quelli conosciuti.

Risultò loro di grande aiuto una guida, la quale dirigeva abilmente il gruppo di italiani, ai quali offriva tutte le sue conoscenze di quella terra.

Salvatore Vizzini aveva voluto organizzare tutto per bene e non aveva badato a contenere molto le spese.

Nonostante il padre avesse minacciato di diseredarlo, egli era riuscito, con l’appoggio della madre, ad avere una buona somma di denaro, gran parte della quale aveva impegnato proprio per il viaggio.

Voleva ricordare agli altri, ma anche a se stesso, che quello non era un matrimonio di riserva; al contrario, voleva che si pensasse che egli non aveva sposato una donna inadatta a lui e, dunque, che egli non aveva sbagliato a sceglierla.

Aveva, perciò, organizzato con puntiglio il tour in Spagna e aveva scelto alberghi di prima categoria e trasporti in prima classe.

I due coniugi visitarono tutte le città più importanti della penisola, dal sud di Malaga al nord di Bilbao, non persero l’occasione di assistere a una corrida a Madrid e furono entusiasti della Cattedrale di Barcellona.

Arrivarono persino a Gibilterra, a osservare l’Africa.

Furono loro offerti i cibi tipici della cucina spagnola, accompagnati da vini ad alta gradazione i quali, insieme alle abbondanti spezie, aggiunsero vigoroso tono alla loro già forte passione.

Salvatore Vizzini era abituato alle movenze delicate e gentili della madre. Donna Concetta, come sappiamo, si esprimeva in modo assai garbato e conosceva perfettamente le buone norme, norme che aveva saputo trasmettere ai figli, da buon modello. D’altro canto Salvatore Vizzini sapeva che la moglie non poteva certo essere all’altezza di quelle abitudini, perciò era pronto all’occorrenza. Egli fu, tuttavia, colpito dalla disinvoltura con cui la moglie si muoveva in quegli ambienti raffinati. Pur non essendo perfettamente aderente alle regole, infatti, Rosa Carlino dimostrava di sapersi districare con sufficiente disinvoltura, non cadeva mai in situazioni imbarazzanti e non creava disagi, a lei come al marito.

L’ambizione della donna era stata, e lo era ancora, tanta da consentirle di rubare qua e là i giusti atteggiamenti, le esatte parole e le più opportune posture. Era talmente motivata a ben riuscire da registrare tutto a mente e a metterlo in atto correttamente, alla bisogna.

Il marito rimase positivamente meravigliato da queste capacità della moglie e ne trasse motivo di orgoglio. In fondo anche così poteva dimostrare che non aveva sposato una donna qualsiasi!

Affascinato com’era dai comportamenti della moglie, Salvatore Vizzini le perdonava talune civetterie; egli notava, infatti, come la donna rispondesse agli sguardi e ai sorrisi interessati degli uomini, ma non la rimproverava di ciò.

Almeno fintanto che la cosa non divenne eclatante.

In un albergo del centro di Madrid, dove si fermarono per qualche giorno, ebbero modo di conoscere un gruppo di inglesi che si trovavano ospiti nello stesso albergo; si trattava di giovani coppie, in gita di piacere. Dovevano essere appartenenti a buone famiglie della borghesia londinese, a giudicare dal loro modo di vestirsi e di… spendere.

Essi erano sempre perfettamente in regola con lo stile ed erano anche ben disposti ad allacciare conoscenze con gli altri ospiti dell’albergo.

Fra questi si faceva notare la giovane donna siciliana, di perfette forme corporee, dal colore olivastro della pelle, lucente come il sole del mattino.

Rosa Carlino, da parte sua, non faceva molto per evitare le attenzioni, seppure sapeva mantenersi nell’ambito della buona creanza, non scadendo mai in pacchianeria; era il suo modo di muoversi e di atteggiarsi che attirava irresistibilmente le attenzioni di parte maschile e l’interessata indifferenza delle donne. Lo sapeva bene il marito, il quale era stato acceso da quel deambulare ondulante, risultandone letteralmente calamitato.

Lo stesso, probabilmente, accadde per uno dei giovani lords inglesi, il quale pose gli occhi sulla donna sin dalla prima cena consumata insieme, giusto tavolo poggiato a tavolo. Egli non distolse il suo sguardo da Rosa per tutta la durata della cena e sino a quando i due coniugi siciliani non scomparvero dietro la porta dell’ascensore che li conduceva nella loro camera.

S’incontrarono nuovamente l’indomani a pranzo e la scena si ripeté pressoché fedelmente.

Rosa Carlino, ovviamente, aveva notato l’interesse dell’uomo ed in quella circostanza non aveva saputo resistere a regalargli un sorriso. L’inglese si sentì fremere dentro ed esplodere la voglia di conoscere più da vicino la siciliana.

Ma c’era il marito fra loro.

Salvatore Vizzini aveva notato il tutto, ma egli ne trasse soddisfazione più che motivo di gelosia; gli piaceva che la moglie fosse osservata e forse anche desiderata. Quando poi, la sera, carezzava ripetutamente il corpo di Rosa sentiva come se egli si rivalutasse agli occhi del mondo, essendo consentito a lui ciò che restava in gola ad altri. Finalmente egli trovava una situazione nella quale veniva a trovarsi in posizione di privilegio rispetto agli altri e ne traeva profonda gratificazione. Era un piacere nel quale si fondeva un pizzico di cattiveria, certamente di fantasmatica rivalità con gli altri uomini, quella stessa che sino a prima l’aveva visto sempre perdente e che ora, invece, lo trovava in situazione capovolta.

Osservava, perciò, lo scambio di sorrisi e di sguardi accattivanti con paradossale appagamento, cosa incomprensibile agli osservatori esterni.

Rosa Carlino, anche lei, non intendeva bene l’atteggiamento del marito, ma non ne faceva certo motivo di briga: notava e sorvolava. Lei vedeva realizzata la sua civetteria, come prima la sua ambizione e, dunque, si crogiolava nell’inatteso piacere.

Si sentiva come un’attrice che riscuote un lungo applauso alla fine della sua esibizione.

Per Rosa Carlino le lussuose stanze dell’albergo e ogni stradina delle città spagnole che visitava erano come un grande palcoscenico sul quale esibire la rappresentazione di se stessa.

Salvatore Vizzini, di tutto quello, era allo stesso tempo spettatore e anche regista.

Solamente una volta ebbe un sussulto di gelosia.

Avvenne durante una rumorosa serata danzante, organizzata proprio in occasione del saluto agli ospiti da parte dei gerenti dell’albergo.

Dopo che ballerine locali si erano esibite nelle tipiche danze che accompagnano il flamenco, l’orchestra aveva cominciato a suonare ballabili d’epoca, inglesi e italiani.

Fu l’occasione da tempo cercata per il lord inglese che desiderava ardentemente conoscere Rosa Carlino; egli andò per invitarla al ballo, presentandole il suo desiderio con il linguaggio della mimica, che non conosce frontiere. Sperava che la donna potesse comprenderlo, ma così non era. Il sorriso accattivante di Rosa Carlino, tuttavia, gli sembrò più chiaro di una lunga discussione.

Salvatore Vizzini gli lesse negli occhi l’intento e fu a quel punto che sentì come se qualcuno intendesse togliergli la cosa più cara. Riuscì a stento a domare il suo primo impulso, che lo portava a riprendersi la moglie e liberarla dall’abbraccio che sembrava avvinghiarla; attese con impazienza che il ballo finisse e con gli occhi lanciò un messaggio chiaro alla moglie, la quale fece segno come se fosse stanca e si allontanò dal suo spasimante. Ella sentì dentro di sé un doppio piacere: l’interesse dell’inglese e la gelosia, finalmente, del marito.

Fortunatamente quel piccolo incidente non turbò la ilare atmosfera del viaggio e la vacanza terminò felicemente, così com’era trascorsa.

I due coniugi erano davvero soddisfatti del loro viaggio di nozze, perciò iniziarono con grande rammarico il cammino del ritorno.

Essi avevano previsto una tappa a Catania, dove sarebbero stati ospiti dello zio Benito e della zia Isabella. Gli zii avevano condiviso la decisione di don Giuseppe di non presenziare alle nozze dei nipoti, cui avevano fatto sapere, con un telegramma, della loro impossibilità di recarsi a Pietralunga il giorno del matrimonio; contemporaneamente avevano inviato i loro auguri e l’invito per un soggiorno a Catania, ospiti a casa loro, durante il giro di nozze. Avevano trovato così il modo di esprimere il loro dissenso alle nozze e al contempo la maniera di non rompere i rapporti con il nipote.

Salvatore Vizzini aveva ben compreso e aveva accettato di recarsi a Catania solo per profittare dell’occasione di una conferma, seppure posticcia e impercettibilmente falsa, dell’accettazione del suo matrimonio con Rosa Carlino da parte dei familiari. Se non fossero andati dagli zii, infatti, gli indiscreti avrebbero avuto ancor più da ridire circa l’assenza dei Vizzini alle nozze di Salvatore e Rosa.

Il viaggio a Catania, dunque, era una tappa diplomatica più che una gita di piacere.

Per Rosa Carlino, invece, era l’ulteriore occasione per visitare una città a lei sconosciuta; pertanto ella era ben disposta alla visita, diversamente dal marito, il quale arrivò ai piedi dell’Etna con un lieve nervosismo addosso e certamente ciò avrebbe avuto una notevole influenza sulla reazione abnorme che egli avrebbe avuto di lì a poco.

Trovarsi ospite in casa degli zii che non avevano partecipato al suo matrimonio, oltre che infastidirlo, gli dava l’occasione di ripensare come l’unione con Rosa fosse stata contestata, indesiderata e solo formalmente accettata.

Gli veniva in mente soprattutto la madre, la delusione da lei provata, lei che aveva visto frustrati tutti i suoi desideri e sconfitti i suoi progetti.

Lo commuoveva profondamente la decisione della madre di testimoniare in ogni caso il suo affetto al figlio partecipando al matrimonio e dandogli la propria benedizione. Salvatore sapeva, infatti, che il padre non aveva apprezzato la presenza della moglie alle indesiderate nozze e perciò l’intervento della madre aveva avuto un significato preciso per lui: l’espressione dell’amore di una madre per il figlio di là dall’accettazione delle sue scelte. E ciò lo inteneriva.

Al contempo la presenza in casa dello zio Benito, uno degli alfieri di casa Vizzini, acceso sostenitore della necessità di un continuo avanzamento sociale ed economico dei Vizzini, uomo estremamente convinto delle sue idee, gli aveva dato una strana sensazione.

Vi contribuì l’arredamento adorno e maestoso della casa, la ricchezza di memoria storica della famiglia Vizzini, forse anche le divise militari e le armi dello zio Benito, poste in bella evidenza.

Salvatore si sentì per qualche attimo più Vizzini di quanto non avesse mai sentito di essere.

Una discreta importanza ebbe anche il comportamento della zia Isabella, divenuta fine ed elegante signora, ospite fissa dei migliori salotti di Catania.

Ella si muoveva con modi e atteggiamenti che a Salvatore Vizzini ricordavano quelli di sua madre e che, perciò, accentuavano la differenza con Rosa, la quale, comunque, continuava a comportarsi con sufficiente adeguatezza.

Fu così che quella strana atmosfera contribuì alla dolorosa esplosione emotiva di Salvatore Vizzini nei confronti della giovane moglie.

Era una delle ultime sere della loro permanenza in casa degli zii ed era imminente il loro ritorno a Pietralunga.

Salutati gli zii, i due coniugi si erano avviati verso la camera da letto messa a loro disposizione e si apprestavano al loro consueto incontro d’amore.

La cena era stata abbastanza piccante, per l’abbondante uso di sostanze afrodisiache che la zia Isabella pareva maliziosamente aggiungere ai pasti; inoltre, avevano tutti bevuto in quantità bastevole.

Tutta la giornata Salvatore Vizzini era stato particolarmente tenero e affettuoso con la moglie e anche a tavola aveva continuato su quella scia. C’era però qualcosa di ammodato nei suoi atteggiamenti, per lo più artati. La moglie lo aveva percepito, ma lo aveva inteso come un ultimo corteggiamento e sembrò confermarglielo il fatto che poco dopo essersi messi a letto Salvatore le si avvicinò e cominciò a carezzarla.

Egli non era solito dilungarsi in prodromi; era aduso andare subito al sodo, ricercando l’immediata soddisfazione, poco interessandosi al piacere della moglie.

Quella sera i suoi movimenti erano più spasmodici del solito ed erano ornati da una certa violenza dell’atto, mentre il marito traversava con le labbra il corpo della moglie in lungo e in largo.

Salvatore sembrava infuocarsi progressivamente e continuava a mozzicare mezze parole.

Fu proprio nell’attimo di liberazione libidica che l’uomo, come preso da un raptus, si espresse satanicamente nei riguardi della moglie: «Voglio il tuo corpo!» si mise a urlare. «Voglio il tuo corpo!». Seguì una breve pausa che parve dare a quelle parole il consueto significato d’espressione orgasmica, ma poi l’uomo continuò: «Di te non m’importa nulla, è solo il tuo corpo che voglio!».

Dopo di che rimase a guardare fisso la moglie, per qualche attimo. Aveva un’espressione che destava paura, tanta paura, a Rosa Carlino. Ella era a un tempo tramortita da quanto aveva sentito, impaurita dallo sguardo del marito e anche convinta che c’entrasse qualcosa il vino bevuto a tavola, durante la ricca cena. La donna, tuttavia, non poté fare a meno di ripensare ossessivamente alle frasi del marito, ritrovandosi in uno stato dl lieve angoscia. Cosa poteva significare l’espressione usata dal marito? Perché mai egli aveva voluto ferirla così profondamente? Voleva proprio offenderla o era solo ubriaco?

Il tutto appena di ritorno dalla luna di miele, che per altro sembrava essere trascorsa così bene…

Rosa Carlino non sapeva darsi una spiegazione.

La botta era stata tremenda e difficile da assorbire, ed ella si girava di continuo a guardare il marito, quasi a cercarne la spiegazione.

Salvatore Vizzini, intanto, si era addormentato pesantemente, fasciato dalle lenzuola che così lasciavano scoperto il corpo della moglie dalle caviglie in su, un corpo rimasto a metà fra la sensazione dell’imminente piacere e la profonda delusione.

La notte trascorse nell’altalena di dubbi e di interrogativi per Rosa Carlino, fino a quando la luce del mattino ritrovò i due così come il buio li aveva lasciati.

Poco tempo dopo i due coniugi dovettero fare ritorno a Pietralunga.

La certezza che quell’amara notte il marito fosse ubriaco e le mille cose da fare per organizzare la casa al rientro dal giro di nozze fecero dimenticare a Rosa Carlino le frustrazioni catanesi, seppure dentro di lei rimase una profonda ferita.

La attendeva adesso una serie di obblighi casalinghi e il difficile compito di gestire il rapporto fra lei e i Vizzini, e non era cosa da poco.

Un altro dubbio, intanto, s’insinuava nella mente dei due sposi, aggiungendo difficoltà alle malagevolezze.

Era trascorso qualche mese da quella fresca serata di primavera durante la quale la luna aveva potuto assistere al dono di Rosa Carlino a Salvatore Vizzini.

Il dubbio era che qualcosa non andasse per il verso giusto, visto che ancora non c’era nessun preavviso di un’esistenza nuova che bussasse alle porte della vita. I due coniugi, però, non si dicevano nulla, preferendo entrambi attendere novità.

Pur considerate le difficoltà del noviziato, Rosa Carlino stava, nel frattempo, fornendo prova di saper organizzare decentemente la casa, anche grazie al fatto che i due sposi poterono usufruire di un alloggio discretamente arredato e grande, in modo tale che non sfigurassero agli occhi degli ospiti.

Don Giuseppe Vizzini, infatti, era arrivato alla conclusione che alla disgrazia avvenuta non poteva aggiungere anche il malevolo commento della gente nei confronti della sua famiglia e, pertanto, aveva aperto un poco il suo portafoglio, in parte rinunziando alla minaccia di non dare nulla al figlio.

In ogni caso, comunque, egli non fu tenero nei confronti di Salvatore e di Rosa per cui, ad esempio, rimase nella determinazione di non recarsi nella casa del figlio e proibire di farlo anche alla moglie; acconsentì solamente che i due sposi si recassero a casa sua, ogni qualvolta lo volessero.

Solo Rosario aveva avuto licenza di recarsi in casa del fratello, ma, dati i cattivi rapporti esistenti fra i due, Salvatore non ricevette mai visita da lui. Anche perché da lì a poco Rosario sarebbe partito.

Rosa Carlino sapeva sin dal primo giorno della sua avventura che si sarebbe trovata negli imbarazzi, ma ugualmente riusciva a stento a trattenere l’insoddisfazione e un certo senso di umiliazione.

Per lei recarsi in casa dei suoceri rappresentava una sofferenza; la aiutava solamente la segreta speranza che prima o poi le cose sarebbero cambiate, magari grazie alla sensibilità di donna Concetta Altavista, ma ogni volta che ella si recava in quella casa don Giuseppe le poneva pesantemente gli occhi addosso, quasi volesse scoprire il perché della scelta del figlio.

Sentirsi così osservata metteva Rosa Carlino a disagio, tanto che non vedeva l’ora di rientrare a casa sua. Si trovava spesso a parlarne con il marito, ma non sempre ne riceveva il necessario conforto.

Dopo l’eroico gesto di ribellione nei confronti dei propri genitori, infatti, Salvatore Vizzini aveva modificato il suo giudizio su di loro e spesso si trovava a giustificarne gli atteggiamenti nei confronti della moglie; più particolarmente ciò accadeva con la madre, mentre nei confronti del padre permaneva un larvato conflitto che impediva un positivo incontro fra i due.

La durezza degli atteggiamenti di don Giuseppe, d’altronde, non contribuiva per nulla al raggiungimento della serenità e aveva anzi un effetto di provocazione di ulteriori conflitti, ai quali non si sottraeva il figlio, specie quando si sentiva in qualche modo confortato dalla madre.

Donna Concetta, al contrario, faceva di tutto per migliorare il rapporto fra i membri della famiglia, convinta com’era che la cosa migliore da fare fosse quella di cercare la pace.

Non mancava neanche di fare qualche piccolo regalo alla nuora, pur rimanendo immodificata la sua opinione circa l’errore commesso dal figlio nel rifiuto a sposare Amalia Barone e ogni tanto le sue espressioni e i suoi atti lo lasciavano trasparire, suscitando l’ovvio risentimento di Rosa.

La posizione di quest’ultima, pertanto, non era affatto simpatica; ella, tuttavia, reagiva alle avversioni nella maniera che le era più congeniale: aumentava il suo orgoglio e si dava un sacco di arie, quasi volesse dimostrare che rendeva la pariglia a chi la tollerava appena.

Nei riguardi del marito, invece, aveva iniziato a provare dell’affetto sincero, nonostante tutto.

Amore per Salvatore, in verità, Rosa non ne aveva mai provato. Ella aveva iniziato il rapporto con lui solamente in base al desiderio di entrare a far parte di una famiglia blasonata, ma adesso che doveva vivergli vicino ogni giorno si sforzava di scoprire nel marito almeno i tratti più interessanti.

Se Salvatore Vizzini non l’avesse offesa in casa dello zio Benito certamente ella avrebbe provato ancor più affetto per lui; invece nella mente di Rosa Carlino quelle parole erano rimaste impresse come un’iscrizione lapidaria e, con loro, il dubbio sulle motivazioni dello sfogo.

Da parte sua Salvatore Vizzini aveva avuto grande attrazione fisica, un irrefrenabile richiamo, ancor più che amore vero per Rosa, il cui corpo lo aveva stregato e i suoi demoni interni si erano scatenati.

I due coniugi, dunque, si erano avvicinati all’altare senza che un sincero moto d’amore avesse legato l’uno all’altro e tutto ciò non poteva non creare loro delle difficoltà, aggravate dal fatto che fra loro s’inseriva pesantemente il condizionamento esercitato dalla famiglia Vizzini, che creava attriti e conflittualità.

Appena un po’ contribuì a migliorare i rapporti la partenza di Rosario, perciò Salvatore rimase l’unico figlio di donna Concetta Altavista e di don Giuseppe Vizzini a Pietralunga.

 

 

12

 

 

Non fu possibile evitare che Rosario Vizzini partisse per il servizio militare, avendo il fratello maggiore usufruito dell’esonero.

Donna Concetta dovette, perciò, aiutare il figlio a fare le valigie e Rosario prese il treno che lo avrebbe portato in una caserma del nord d’Italia, nella distante provincia di Alessandria. La destinazione era lontanissima da Pietralunga e solo dopo un lungo viaggio, molto faticoso, Rosario poté giungere a destinazione.

Abbandonò il caldo siciliano e l’incessante e stridula voce delle cicale per trovare l’umidità delle risaie piemontesi e i morsi delle zanzare. Pur essendo abituato a viaggiare, Rosario Vizzini trovò una certa difficoltà ad ambientarsi al nuovo clima, ma soprattutto alla vita di caserma. Quel ragazzo, che non aveva mai sinceramente ascoltato le direttive del padre, si trovava adesso a vivere in una situazione in cui l’ordine era sempre da rispettare e a questo egli era assolutamente disabituato.

Fece di tutto, comunque, per dimenticare presto la sofferenza, poiché poco dopo, grazie all’interessamento dello zio Benito, egli fu trasferito a Roma, per cui egli soffrì limitatamente al primo periodo di naia.

Nella capitale si aprirono per lui le porte del Paradiso, o, forse, dell’Inferno.

Pronto com’era a ricevere le stimolazioni del nuovo, egli si fece sommergere dalle abitudini mondane degli esperti navigatori degli ambienti in cui si inserì. Poco dopo l’arrivo nella città capitolina, infatti, Rosario cominciò a frequentare persone in vista nei salotti bene, la cui esistenza scivolava fra un’avventura e l’altra: avventure di donne, di gioco e di investimenti più o meno azzeccati. Generalmente si trattava di beneficiari di grosse eredità che fornivano loro delle buone rendite; i più in gamba riuscivano a farne strumento di nuova acquisizione di capitali, gli altri spesso perdevano tutto nella girandola di rischi serali.

A Rosario Vizzini non parve vero di potersi tuffare in mezzo a quel lago periglioso, per dimostrare a se stesso di sapersi mantenere a galla e, nel mentre, di sapere cogliere tutti i piaceri offertigli.

Suo padre lo aveva messo in guardia contro i pericoli che potevano derivargli e così pure avevano fatto la madre e lo zio Benito. Quest’ultimo, in particolare, si era sforzato di prepararlo all’occorrenza, avendo buona conoscenza dell’ambiente romano, data la sua permanenza nella città durante il periodo bellico.

A tutti Rosario aveva risposto con le sue solite belle parole, convincenti quanto millantatrici, come avrebbero poi dimostrato i fatti. Il primo canto di sirena gli venne dai verdi tavoli da gioco, nelle fumose bische cui partecipavano facoltosi cittadini romani, i cui averi li proteggevano da qualsiasi perdita. Erano i pesci piccoli ad abboccare e molto spesso perdevano tutto, proprio tutto quello che avevano; molto più raramente si arricchivano.

Rosario Vizzini, rispetto a molti dei frequentatori di quel giro, era un piccolo pesce, ma di ciò egli faceva solo ragione per realizzare ancora più in fretta la propria ambizione e la volontà di affermazione. Egli, d’altra parte, si sentiva molto capace ed era convinto che proprio da lì sarebbe iniziata l’ascesa del suo successo, la scalata al prestigio, per di più tutto realizzato con le proprie gambe e mani. Gli ambienti che frequentava lo esaltavano: lo eccitavano le interminabili sedute intorno ai tavoli, l’eleganza degli intervenuti, le loro storie così ricche di fascino. Una grossa stimolazione gli veniva, inoltre, dalle bellissime donne che ornavano i saloni delle case che frequentavano, dove si intrecciavano amori e gioie, pianti e dolori, piccole vendette o avventure che bruciavano in un minuto energie di interi anni.

Tutto, insomma, era estremamente dinamico e vario: era il mondo che Rosario Vizzini voleva per sé!

Navigava dentro quegli ambienti con la consumata esperienza di vecchi marinai in mezzo a un mare tranquillo, seppure fosse la prima volta che si trovava in simili circostanze.

Una discreta esperienza gli derivava dalle sue numerose avventure precedenti, ma esse erano state di poco conto, storie di paese. Qui era tutta una altra dimensione, tutto era più grande, più profondo.

Talvolta, tuttavia, piccoli mobili servono ad arredare grandi case.

La prima volta gli andò così bene che parve avere avuto la conferma di quello che pensava: che tutte le prudenze che gli avevano suggerito erano solo le indicazioni di gente modesta, che non aveva mai conosciuto la vera vita, il successo, il rischio, la dimostrazione del proprio coraggio e delle proprie qualità.

L’esordio fu brillante, come dicevamo, e parve dare ragione completa alla grande sicumera di Rosario.

Sappiamo come egli avesse un certo fascino per le donne e una grande capacità di parola che si accompagnava a una compiacente disponibilità alla bugia, doti, queste, che gli consentivano di risultare uomo di buona compagnia e, quindi, di potere avere buon successo nell’inserimento in un gruppo.

La fortuna lo aiutò a vincere molto nel gioco ed egli realizzò una discreta somma di denaro, il che determinò un nuovo aumento di attenzioni, specie di quelle femminili, ed egli sentì di poter elevare ancor più le proprie mire.

Non sempre, però, il bel tempo dura più che dalla sera al mattino. La fortuna presto gli voltò le spalle e in poco tempo perse tutto quello che in precedenza aveva vinto.

Quelle maledette carte smisero di girare come prima e, sera dopo sera, egli vide scemare le sue riserve economiche, sino a vedere azzerate le proprie disponibilità, e anzi andare sotto.

Grazie alla compiacenza dei suoi commilitoni egli rientrava in caserma molto tardi la sera. Al mattino, però, egli era capace di trovarsi sempre a tempo fra gli altri e di essere in grado di eseguire il dovuto; le poche ore di sonno che si consentiva, infatti, le utilizzava bene e gli bastavano per rimettersi su.

Quando la ruota della fortuna cominciò a girare in senso inverso le ore di sonno diminuirono sempre più, motivo per cui si alzava distrutto al mattino e non era in grado di reggere il passo degli altri. Se ne avvide un medico militare, il quale pensò bene di sottoporlo a un’accurata visita che gli consentì di cogliere in Rosario Vizzini uno stato di stress psicofisico tale da indurlo a proporgli una licenza per convalescenza a casa.

Tutto preso dal suo infernale ritmo, che vedeva il giorno inseguire la notte, sempre nell’attesa di ritornare in quelli che erano per lui i luoghi del desio, Rosario Vizzini non seppe se essere grato al medico per la vacanza che gli stava donando o se, invece, essere infuriato perché lo allontanava per qualche giorno dai suoi bisogni più vividi.

Accettò il fatto solo quando considerò che tornare a Pietralunga gli avrebbe consentito di rimpinguare le sue deficitarie possibilità economiche, per potersi far dare i soldi che gli mancavano e pagare i debiti che nel frattempo aveva accumulato. Ritenne fosse utile, dunque, tornare per qualche giorno in paese, dove i familiari lo attendevano con ansia.

Quando arrivò i suoi si preoccuparono vedendolo nello stato in cui era; essi, tuttavia, pensarono di potere imputare il fatto alla vita militare, ignari come erano del tipo di vita che Rosario conduceva.

«Dovrà pure abituarsi a qualche sacrificio questo signorino» disse alla moglie don Giuseppe.

«Non è abituato a reggere agli sforzi» tentò di replicare la moglie. «Sai bene che non ne ha mai fatti, perciò adesso si trova in difficoltà; non vedi quanto è magro?» continuò la moglie.

Per una volta il parere del marito si allineò a quello della moglie e donna Concetta si sentì accostata nei suoi tentativi di rimettere su il figlio; lo alimentò, dunque, abbondantemente e con cibi prelibati e inoltre lo fece riposare molto.

Rosario guardava piacevolmente a quelle premure.

Egli aveva in mente che la buona disponibilità dei genitori gli sarebbe servita per chiedere, e ottenere, quello che gli serviva.

Egli, infatti, era tornato a casa con il preciso intento di ritornare a Roma con sufficienti soldi per pagare i debiti contratti nel gioco e ricominciare a tentare di vincere, avendo un bel gruzzolo di riserva.

Ritenne opportuno parlarne solo allo madre e approfittò di un momento di solitudine di donna Concetta per dichiararle il suo finto segreto. Inventò una delle sue falsità e gliela espose con la solita dolcezza. Escogitò di avere speso tutti i suoi soldi in favore di un suo compagno in armi, il quale sarebbe caduto in grave disgrazia economica a causa di una seria malattia della madre.

Facendo ricorso a tutta la sua arte oratoria e mimica egli continuò la sua esposizione affermando che anche i soldi che gli servivano per la cena fuori dalla caserma quasi sempre li aveva devoluti all’amico.

«Ecco» concluse, «il motivo del mio dimagrimento e della mia prostrazione».

Rosario era sempre riuscito a farsi perdonare per ogni sua magagna e farsi credere veritiero quando prometteva di riparare al più presto a un suo torto, giurando e spergiurando di non ripetere mai più il biasimevole comportamento rimproveratogli.

Quella volta dovette sforzarsi di recitare bene, per riuscire assolutamente nell’intento. D’altra parte donna Concetta Altavista era sempre pronta a recepire qualsiasi indizio d’amore, perciò la bugia del figlio si piantò su un terreno fertile, pronto ad accoglierla.

Delle parole di Rosario la madre si commosse al punto che promise al figlio che quando sarebbe ripartito, e cioè l’indomani, lei gli avrebbe dato i soldi occorrenti a lui oltre ad una buona somma di denaro per il suo amico.

«Che tu non abbia mai più a ridurti così, però» disse al figlio. «Sai bene che se me lo avessi scritto, io avrei potuto provvedere prima che tu ti costringessi così».

«Madre, ero preoccupato che venisse a saperne papà» rispose il figlio, «e tu sai che egli non avrebbe accolto ben volentieri una simile iniziativa; anzi, se egli venisse a saperlo, pure adesso condannerebbe quello che stiamo facendo».

Egli sapeva bene dove voleva andare a parare e, infatti, centrò l’obiettivo.

«Non preoccuparti» gli disse la madre, «a tuo padre non faremo sapere niente, stanne tranquillo».

Ambedue erano sicuri che la cosa sarebbe finita lì: la madre ne era certa perché il figlio le aveva fatto credere che la somma di denaro sarebbe stata risolutiva per il problema che affliggeva il suo falso amico, mentre Rosario era certo che se le cose gli erano andate male una volta non potevano rifarlo una seconda.

Egli, dunque, era assolutamente certo che quella somma gli sarebbe stata sufficiente a risalire la china, quindi se ne tornò a Roma bene alimentato e con parecchi soldi nel portafogli.

Non vedeva l’ora di ricominciare!

Appena possibile, infatti, tornò a sedere in uno dei tavoli e cercare avidamente nelle carte le combinazioni migliori per realizzare la sua silenziosa vendetta.

Non poté fare a meno, anche, di portare un regalino alla sua fiamma romana, l’ultima delle sirene che gli avevano cantato l’amore prima del suo ritorno a casa.

Le portò una collanina d’oro, particolarmente scintillante, che la donna ricambiò con un lungo e appassionato bacio e con la gioia negli occhi.

Lei, Franca, gli stava sempre vicino e da dietro le spalle seguiva passo passo ogni sua mossa di gioco. Alla fine della serata, poi, si faceva accompagnare a casa e già si promettevano di ritrovarsi l’indomani, nell’attesa che il giorno di festa saziasse l’anelito dell’intima vicinanza, nella casa che i genitori di lei lasciavano libera, visto che andavano a fare visita ai loro parenti a Napoli.

Anche questa volta all’inizio parve che per Rosario Vizzini fossero ritornati i tempi belli, con il bacio in fronte della dea bendata.

Insieme al successo nel gioco aumentava, in veemenza, il legame con Franca, la quale provava per Rosario un affetto sincero, che prima non aveva mai provato per altri. L’aveva affascinata l’aria sicura di quel giovane siciliano, la sua grande predilezione al rischio, la sua galanteria talvolta raffinata e la sua capacità di dipingerla con le parole più soavi.

Anch’egli, in verità, provava qualcosa che somigliava all’affetto per Franca, la quale per certi versi gli somigliava. Pure lei, infatti, era amante del rischio e del tutto indifferente alla monotonia delle persone piatte e sempre uguali; si indispettiva, persino, se a corteggiarla fosse un partner, diciamo così, ortodosso.

Rosario non era il suo primo uomo; tanti lo avevano preceduto, ma Franca non aveva di loro che un ricordo sbiadito, sfumato. Quell’uomo del sud, invece, l’aveva colpita; non si può affermare che se ne fosse innamorata, ma un intenso legame la annodava a lui.

Le domeniche erano tutte per loro.

Per quel giorno persino le carte da gioco venivano messe da parte e cedevano il passo alla passione dei due, intensa e immediata, veloce come il fulmine.

Parlavano molto degli altri loro amici e Rosario coglieva l’occasione di avere conoscenza di tutti i loro trascorsi, dei retroscena dei loro interessi, d’affari e d’amori. Era tutto un mondo che gli si scopriva e del quale voleva cogliere ogni aspetto, ogni celato segreto!

La frequenza di Franca gliene apriva le porte e si può ben dire che tutte le nuove conoscenze di Rosario furono guidate da lei.

Venne anche il tempo che Franca dovette utilizzare le sue amicizie per aiutare Rosario Vizzini.

Successe, infatti, che l’allegria cedette il passo allo scoramento, quando, ancora una volta, la fiducia di Rosario fu tradita dall’esito del gioco. La ruota della fortuna girò ancora il suo verso e Rosario contrasse nuovi debiti. Egli cercò inizialmente di tamponare la situazione ritardando i pagamenti, poiché sperava che continuando a giocare si sarebbe rifatto, ma ciò non accadde e, anzi, gli andò ancora peggio. Rosario sapeva che per continuare a frequentare quell’ambiente, godendo della fiducia delle persone che lo affollavano, egli doveva pagare subito quanto dovuto, ma non sapeva come fare.

Ecco che gli venne in aiuto Franca: lei sapeva a chi rivolgersi per avere un aiuto concreto. Conosceva, infatti, degli amici fidati che avrebbero prestato dei soldi senza nemmeno chiedere molto e sapendo aspettare il saldo del credito. Gli amici di Franca erano come una sorta di appendice delle sale da gioco; essi se ne stavano ai margini e attendevano che le vittime del vizio si recassero da loro per implorare sostegno e aiuto.

E si sa bene che al gioco se c’è chi vince, qualcuno c’è che perde.

Franca da anni era inserita in quelle tresche e diverse volte aveva aiutato qualcuno che, come in quel caso Rosario, era venuto a trovarsi in disgrazia. Conosceva bene, dunque, indirizzi e persone.

Per Rosario fu come uno squarcio di luce nella notte. Ne aveva pensate tante, ma una valida soluzione al suo problema non l’aveva trovata. Quella di Franca gli parve quella giusta, se non altro l’unica.

Le condizioni degli usurai non erano molto favorevoli, ma egli non aveva altra alternativa; dunque, dovette accettare.

Seppure la sua ambizione ne fosse rimasta scalfita, fondamentalmente rimase intatta la sua autostima, per cui egli tornò più baldanzoso che mai ai tavoli da gioco, convinto com’era che subito avrebbe ottenuto quello che voleva.

Non c’è, però, più scuro del buio di mezzanotte!

Le cose non andarono secondo i piani di Rosario; anzi, andarono esattamente al contrario ed egli perse ancora l’intera cifra che gli usurai gli avevano prestato, finendo così nella disperazione più completa.

A quel punto non seppe più cosa fare.

Franca cercò di convincere altri amici a soccorrere Rosario, ma questa volta ricevette solo dei garbati rifiuti.

Rosario venne, dunque, a trovarsi nella posizione assai scomoda di gran debitore, motivo per cui rischiava anche di perdere la stima e la fiducia dei suoi amici, ai quali teneva molto; temeva di non poter più avere l’appoggio di quelli che riteneva essere ormai i suoi ambienti, il suo modo di vivere preferito, il Campo dei Miracoli della sua vita e ciò lo turbava profondamente.

Nuovamente cominciò a trascorrere notti insonni, perse l’appetito e si depresse.

Le affettuosità di Franca non gli davano più alcun sollievo e anzi quasi lo infastidiva la sua presenza, assorto com’era nei suoi pensieri.

Certo, si trattava solo di una reazione dettata dal nervosismo, ma in ogni modo, per quanto quella poveretta cercasse di aiutarlo e di confortarlo, Rosario aveva da pensare ad altro e non poteva distogliere il corso dei suoi pensieri: “Come potrò provvedere?” si chiedeva continuamente.

Alla domanda di solito seguiva, in corrispondenza quasi temporale, l’immagine della madre, di donna Concetta Altavista.

Da sempre era stato così; ogni qualvolta che lui e il fratello avevano avuto un problema era sempre alla madre che si erano rivolti per la soluzione.

Stavolta, però, c’era da parte di Rosario il tentativo di allontanare da sé quell’immagine che quasi prepotentemente faceva irruzione fra le sue idee ed era un duro conflitto fra il bisogno della sua presenza e la necessità di tenerla lontana.

Gli bruciava, infatti, l’ultima bugia recitata alla madre: l’amico bisognoso, la devoluzione a lui dei suoi denari, quella povera donna che si commuoveva e che con il suo intervento provvedeva alla soluzione del fantasioso dramma.

Cosa avrebbe dovuto dire, adesso? Quale giustificazione? Quale falsità poteva essergli d’aiuto per questo suo nuovo stato di precarietà? Non riusciva a darsene pace.

La lotta fra la volontà e quel fantasma intrusivo si risolse una notte, nel buio più profondo: Rosario decise che avrebbe risolto il conflitto raccontando tutto alla madre, dichiarandole tutta la verità, rivelandole tutti i suoi misfatti.

Vittima del senso di colpa che lo bruciava dentro, Rosario scrisse una lettera nella quale spiegava proprio tutto quello che era successo, sin dal suo arrivo nella capitale.

Non volle nascondere molto: solo l’entità della cifra dei debiti fu limata, giacché non voleva creare un turbamento troppo grosso nella madre. A quest’ultima chiedeva scusa per il suo comportamento, si dichiarava mortificato per quanto era successo e prometteva di non ripetersi mai più.

Anche questa volta l’affermazione di buona volontà non era del tutto sincera; Rosario, infatti, sapeva bene che non avrebbe resistito al richiamo del gioco, di quella gente e di quell’ambiente che adorava. Senza falsità, però, affermava nella lettera che non avrebbe più fatto ricorso a menzogne per giustificarsi; in quel momento, almeno, sentiva la ferma convinzione che non lo avrebbe più fatto.

In verità la sua convinzione del momento era fondata su moventi emotivi, anziché razionali: quelle affermazioni, infatti, gli consentivano di placare per un attimo l’enorme fastidio che provava a ripensare alle bugie cui aveva fatto ricorso con sua madre.

Ah! Se almeno quelle bugie fossero state seguite da un fortunato ritorno al successo…

Solo così avrebbero potuto trovare giustificazione nella sua incerta coscienza. Il guaio, invece, era che un nuovo tonfo le aveva seguite, rendendo più intensa la colpa e più vivida l’angoscia in Rosario Vizzini.

Egli, dunque, inviò la lettera alla madre e con essa imbucò anche tutte le sue emozioni; si sentì quasi liberato da esse e iniziò la paziente attesa della risposta e, con essa, dei soldi per sdebitarsi con i suoi creditori.

La missiva impiegò molto tempo a raggiungere Pietralunga, ma arrivò. Quando fu portata a donna Concetta Altavista determinò nella signora un moto di gioia; non erano molte, infatti, le lettere che il figlio inviava alla famiglia, perciò esse erano attese con ansia. Il contenuto della lettera, tuttavia, gelò le esultanti attese della donna, le cui mani tremarono al punto che la lettera cadde sul pavimento; contemporaneamente donna Concetta sentì venir meno le forze ed ebbe appena il tempo di poggiarsi su uno dei divani. Accorse la domestica, la quale vide donna Concetta cedere, ma non si avvide del motivo che aveva determinato il malessere. Ella prese donna Concetta, la stese sul divano e corse a prendere i sali per farla rinvenire; lo fece urlando preoccupata e correndo da una stanza all’altra.

Giusto era quello il momento in cui don Giuseppe si trovava casualmente in casa, quindi sentì il trambusto e accorse per vedere cosa fosse successo.

Si trovò davanti la moglie, priva di sensi, sul divano e temette il peggio, che fosse successo qualcosa di irreparabile.

«Concetta! Concetta!» urlava mentre le si avvicinava. «Dio mio! Cosa ti è successo? Che ti è capitato?».

«Corra, corra!» gridò rivolto alla domestica.

Quella nel frattempo aveva portato i sali e si adoperava per fare riprendere donna Concetta.

«Chiami subito il dottore!» le disse imperiosamente don Giuseppe.

La domestica si allontanò da casa per chiamare il medico, mentre don Giuseppe carezzava il volto pallido della moglie e con l’altra mano le stringeva il polso, quasi per assicurarsi che il cuore batteva ancora. Nel mentre la chiamava continuamente per nome.

Si guardò in giro per vedere se la domestica fosse già uscita e per caso pose gli occhi sulla busta aperta, poco distante dal divano.

Lì successe quello che Rosario e donna Concetta non avrebbero mai voluto che accadesse.

La lettura di quelle righe, così sentitamente scritte dal figlio, fece trasalire don Giuseppe, mentre gli si chiariva il motivo del malessere della moglie.

Stette qualche attimo a guardare la lettera, dopo averla letta e riletta, quasi impietrito; poi sentì salire un gran calore dentro e non riuscì a nasconderlo in viso, mentre il medico, che nel frattempo era arrivato, aiutava donna Concetta a riprendere coscienza.

Quando la moglie fu in condizioni di reggere un discorso, don Giuseppe iniziò la sua filippica:

«Quel farabutto! Altro che mettere la testa a posto; se l’è guastata completamente, invece! Bugiardo! Che bugiardo è stato a raccontarti quelle frottole! Sì, ma la colpa non è sua: è tua, perché non mi hai detto nulla. Io certamente mi sarei reso conto delle sue menzogne, del suo falso buon cuore. Tu, invece…». Disse quelle cose tutte di un fiato e le sue parole erano come i lapilli di un’esplosione dell’Etna: non si fermavano mai e facevano male.

Continuò così: «Ci sei cascata per intero ed ecco cosa ne abbiamo! Vuole rovinare la famiglia, vuole rovinarla!».

Prese solo un attimo di pausa, poi ricominciò: «Che figli! Che figli che ho avuto! L’uno va a sposare una morta di fame, la quale invece di portare lustro alla famiglia se ne prende; l’altro va a farsi mangiare i soldi dai lupi romani e se la spassa ignobilmente. Che figli!».

Donna Concetta non aveva parole, non sapeva cosa dire. Fra sé e sé malediva di essersi fatta prendere dallo svenimento proprio quando non era il caso, ma purtroppo era successo e nulla poteva farci, adesso.

Il tutto si aggravava con le ultime parole del marito, il quale tuonò così: «Noi non gli manderemo proprio nulla, si risolva da sé i suoi guai! Li ha voluti? Se li risolva! Vuole forse mangiarsi tutte le mie proprietà? No! Non gli manderemo proprio nulla e guai se lo fai tu di nascosto a me; non te lo perdonerei!».

«Madre Santa! Cosa succederà a mio figlio? E se gli facessero del male? Poveri noi! Che fare?».

Così disse donna Concetta, rivolgendosi verso un ritratto della Madonna, in atteggiamento di preghiera.

Non poté nemmeno tentare di convincere il marito, poiché quello se n’era già andato, su tutte le furie.

Avrebbe successivamente provato a cambiare la decisione del marito, ma senza alcun esito.

A Roma Rosario non immaginava minimamente cosa fosse successo a Pietralunga. I giorni passavano senza che ricevesse risposta alcuna al sentito messaggio che egli aveva inviato alla madre e per questo cominciò a prenderlo una forte inquietudine.

Nel frattempo i creditori attendevano invano le loro somme e Rosario non aveva la faccia, oltre che i soldi, per sedersi intorno a un tavolo da gioco. Rischiava di perdere la reputazione e di essere messo al bando da quell’ambiente, nel migliore dei casi. La sua ansia aumentava, dunque, progressivamente. Non riusciva a confortarlo per nulla Franca, neppure facendo ricorso a tutta la sua femminilità; Rosario, infatti, era nervoso e non poteva avvicinarsi a lui, tanto era intrattabile.

A Pietralunga, intanto, le cose si complicarono quando Rosa Carlino venne a sapere di quella storia.

Donna Concetta aveva cercato conforto nel figlio maggiore, al quale aveva confidato la difficile situazione del fratello e della famiglia intera.

Salvatore le aveva espresso la sua comprensione e le aveva assicurato che anch’egli si sarebbe prodigato affinché il padre intervenisse in qualche modo. Egli tentò, di conseguenza, di convincere il padre, ma all’inizio si trovò di fronte a un netto rifiuto.

«Deve sbrigarsela da solo!» gli aveva urlato il padre. «Non posso farmi rubare le mie proprietà da quello sregolato!».

Così Salvatore si era sentito rispondere e parve che non vi fosse modo di aprire un varco nella decisa volontà punitiva del padre.

Un giorno, però, chissà come fu, Salvatore trovò la motivazione giusta: «Padre, se va male a Rosario lo sapranno tutti e la nostra famiglia sarà investita da uno scandalo; dobbiamo, perciò, fare in modo che ciò non accada».

Quelle parole lasciarono dubbioso don Giuseppe, il quale ne rimase colpito.

In verità, bisogna dire che egli aveva la segreta speranza che Rosario, grazie al suo stipendio di ufficiale di complemento, avrebbe potuto piano piano pagarsi i debiti; egli non sapeva, però, che la cifra che Rosario aveva esposto alla madre era stata, e di molto, abbassata!

Le parole del figlio Salvatore, dunque, lo avevano messo in pensiero. Certo, tutta la famiglia ne avrebbe risentito, qualora fosse scoppiato uno scandalo e l’obbrobrio sarebbe venuto se Rosario non avesse potuto pagare i suoi debiti!

Don Giuseppe, quindi, si era messo nell’ordine di idee di fare qualcosa e aveva detto al figlio Salvatore: «Vedremo… vedremo…».

Sentite le parole, Salvatore corse felice ad avvertire la madre, la quale ne fu molto confortata.

Il figlio, però, ebbe la pessima idea di riferire tutto anche alla moglie e quando Rosa Carlino seppe che i suoceri avrebbero aiutato Rosario a pagare i suoi debiti di gioco sentì scottare l’ira dentro di sé: «A noi tuo padre ha dato il minimo che poteva dare, per non far parlare male la gente; i tuoi non vengono a casa nostra perché io mi chiamo Rosa Carlino, punendomi così per il solo torto di non essere nobile; a tuo fratello Rosario, invece, sono disposti a perdonare tali porcherie! Seppure egli perde i suoi soldi giocando o facendo regali per conquistare le sottane delle nobili romane, lui viene premiato; per lui la borsa si apre e si spende, per lui tutto è consentito…».

Così Rosa Carlino sbottò la sua rabbia, accumulata nel tempo, silenziosamente, contro l’avversione dei famigliari di Salvatore, verso il suo status sociale svantaggiato, contro lo stesso Salvatore di quella lontana e triste notte catanese.

Lo sfogo, che doveva e poteva essere compreso come tale, divenne invece motivo di conflitto fra i due coniugi.

Salvatore Vizzini risultò, infatti, molto irritato dalle parole della moglie e se ciò potrebbe, di primo acchito, risultare paradossale, in verità non lo è se si pensa al profondo amore che lo legava alla madre e che, a ben pensare, era l’unica persona cui realmente si era legato durante tutta la sua vita.

Lo sfogo della moglie andava a ferire l’immagine della madre e anche metteva persino in dubbio che fosse cosa giusta quello che stava facendo per aiutare il figlio Rosario.

Salvatore cercò dapprima di convincere la moglie dell’esattezza della cosa, che quella era l’unica maniera per salvare l’onorabilità… di tutta la famiglia e, dunque, anche la loro.

Egli cercò di spiegarle che non era il caso di mettere sullo stesso piano il problema di Rosario e gli atteggiamenti della famiglia nei confronti di lei, ma invano.

«Non ti onorano neppure di una visita in casa tua e tu vuoi giustificarli?» gli disse Rosa.

Così continuando, tuttavia, la moglie otteneva proprio gli effetti contrari a quelli desiderati; invece che sollecitare l’orgoglio del marito contro le malefatte dei suoi genitori, invece che convincerlo a chiedere quanto non gli era stato mai dato, al contrario stimolava il senso d’appartenenza alla famiglia del marito.

Il contrasto era profondo e, quindi, difficilmente sanabile.

Nella mente di Rosa Carlino tuonarono ancora le parole di Salvatore Vizzini: “Di te non m’importa nulla; è solo il tuo corpo che voglio!”.

Rosa rimase fortemente delusa. Aveva aspettato tanto e quando si era lasciata andare allo sfogo, invece che la comprensione, ancora una volta aveva ricevuto dal marito il rimprovero.

Contemporaneamente succedeva qualcosa di molto importante a Roma.

Per giorni e giorni Rosario aveva atteso una risposta dalla madre, risposta che ancora non aveva ricevuto. Egli non immaginava neanche quello che era successo a Pietralunga; pensava che la madre lo avesse abbandonato, magari perché non aveva sopportato di essere buggerata o perché si era stancata di aspettare il concretarsi delle sue frequenti e annose promesse, o chissà per cos’altro. L’unica certezza era che lui non poteva più aspettare. Mancandogli l’aiuto della madre, Rosario non sapeva cosa fare per onorare i debiti e, soprattutto, per essere riammesso a pieno titolo in quella sorta di circolo dei signori. Ma ancora una volta fu Franca a dargli la soluzione giusta, stavolta senza neppure saperlo e, anzi, andando contro i propri interessi.

Fra le persone che ella aveva presentato a Rosario ce n’era una che egli ritenne potesse essergli utile. Si trattava di una giovane donna, rampollo di buona famiglia, molto ricca e possidente; era una donna indubbiamente interessante, pur se non bellissima, la cui giovialità, il modo di muoversi elegante, il bel sorriso e i grandi occhi scuri risultavano di grande attrazione per gli uomini. Ella era attorniata da corteggiatori interessati, cui non mancava mai di dare la corda, poiché gli uomini piacevano a lei così come lei piaceva a loro.

Quella donna si era accorta di Rosario Vizzini e aveva chiesto informazioni su quel bel siculo; le avevano riferito i suoi alti e bassi con la fortuna, la sua grande voglia di emergere e la sua ottima riuscita con le donne.

Fu quest’ultimo dato a stuzzicare maggiormente Vanda Mileti, la quale volle provarsi nella ennesima conquista. Ella non immaginava che Rosario nello stesso tempo stava ponendo su di lei le sue attenzioni, avendola riconosciuta come persona che faceva proprio al suo caso.

Allorquando Franca aveva presentato Vanda a Rosario si era già accorta dell’interesse della donna per il suo uomo, tuttavia aveva notato che Rosario non aveva risposto parimenti.

Allora il giovane Vizzini era tutto preso da altri problemi, quelli legati alle sue disavventure economiche, oltre che dalla preoccupazione di essere allontanato dal suo Eden; dunque non aveva spazio mentale per le avventure amorose, almeno in quel momento.

Poco tempo dopo, invece, interesse economico e dongiovannismo dovevano rivolgersi a un’unica figura: Vanda Mileti, per l’appunto.

Un bel giorno Rosario decise di prendere l’iniziativa, non prima di aver potuto riscontrare una notevole disponibilità al buon esito da parte della sua bella romana.

La relazione prese il volo con immediatezza, quasi naturalmente, lasciando dietro di sé il fumo dell’amore di Franca, ormai arso.

Se si è compreso l’uomo, risulta facile giustificare come Rosario non si pose granché il problema dl Franca; egli si scordò quasi di lei, tutto preso com’era dal problema di raggiungimento dei suoi obiettivi.

Dopo aver provato in tutti i modi ad aiutarlo, Franca ora si vedeva, dunque, sfuggire l’uomo per il quale aveva sentito vibrare per una volta i suoi sentimenti, proprio con una donna che lei stessa gli aveva fatto conoscere! Si sentiva come la bambinaia che fa crescere con amore il pargoletto affidatole e poi lo vede allontanare, con la madre naturale, quando quella decide di riportarselo con sé.

Ella cercò disperatamente di recuperare il suo uomo e con ogni mezzo; provò anche a descrivergli i difetti di Vanda: «Non è una donna forte, è troppo frivola, non ti seguirà mai».

Probabilmente diceva delle cose esatte, ma Rosario non vi badava molto; a lui interessavano i soldi della donna più di ogni altra cosa o di ogni difetto di Vanda Mileti. Né egli si poneva, per altro, problemi di futuro per quella nuova relazione; magari pensava di tornare con Franca non appena avesse risolto il suo problema impellente.

Ma non sarebbe andata così.

Rosario e Vanda si trovarono a meraviglia; pareva che avessero gli stessi pregi e anche gli stessi difetti; si capivano, perciò, al volo e bastava poco perché l’uno comprendesse i desideri e le mancanze dell’altra.

Rosario sfogava su Vanda il suo esibizionismo, ma la stessa cosa succedeva viceversa, per cui accadeva che, insieme, i due si proponessero agli altri quasi ricercandone l’ammirazione. Difatti erano molto osservati: formavano una di quelle coppie definite ideali, almeno all’apparenza, e ciò li esaltava, venendo così soddisfatta la loro fame di attenzioni e di riconoscimenti.

Rosario, in ogni caso, non dimenticava mai che il suo obiettivo era un altro e che doveva anche fare in fretta.

Nel giro di pochi giorni, perciò, provò il piacere di conoscere quel bel corpo di donna e, insieme, la finta umiliazione di chiedere aiuto economico, giustificando di trovarsi in serie difficoltà per i debiti contratti. Alla donna disse una parte della verità, non potendo fare altrimenti, visto che vivevano nello stesso ambiente, là dove le voci circolavano in fretta e, anzi, talvolta erano ingigantite.

Dovette però nasconderle il perché la sua famiglia, che egli le aveva descritto come nobile, non fosse accorsa in suo aiuto; non sapeva che, inventando una bugia, si era avvicinato molto alla realtà. Egli pensò, infatti, di inventare che la famiglia si sarebbe opposta ad aiutarlo per via della inveterata gelosia che da sempre aveva diviso lui e il fratello. Raccontò alla donna tutta la storia del rapporto con Salvatore, non avendo bisogno per ciò di raccontare bugie per rendere chiara la pienezza della conflittualità.

Solo, nella descrizione del fratello, accentuò i difetti che egli riscontrava in Salvatore, in modo tale da rendere più veritiera la sua versione dei fatti, tendente a giustificare il silenzio dei suoi genitori all’appello che egli aveva rivolto loro. Rosario, comunque, disse a Vanda che i genitori avrebbero saputo come fare, non appena risolto il problema del fratello maggiore; descrisse come momentaneo, dunque, l’aiuto economico che le chiedeva. A Rosario venne facile inventare la frottola; in effetti egli aveva sempre vissuto un atteggiamento di invidia da parte del primogenito, perché i suoi successi erano superiori a quelli di Salvatore e, infine, perché i genitori si fidavano più di lui che dell’altro, grazie alle dolci bugie che sapeva inventare.

Così, però, era successo fino a prima che quella missiva lo rivelasse alla madre, mai dopo.

Di tutto il piccolo dramma che si recitava a casa sua, a Pietralunga, Rosario non sapeva nulla né sapeva darsi una spiegazione precisa sulla mancanza di risposta al suo accorato appello. Egli continuava a ritenere che la madre lo avesse voluto punire per i suoi comportamenti, che avesse voluto dargli una salutare lezione. “Che facesse presto, però…” diceva fra sé, mentre controllava ansiosamente se fosse arrivata posta per lui e quando si accorgeva che non c’erano lettere riprendeva ad attendere che arrivasse presto l’indomani, sperando.

Finalmente, comunque, egli aveva trovato un’ipotesi di soluzione e riteneva che Vanda Mileti potesse rappresentare la sua salvezza, così come, in effetti, risultò, allorché Vanda gli consegnò i soldi che gli necessitavano per pagare i debiti.

Non era mancato a Rosario Vizzini di usare le tecniche giuste per commuovere la giovane e affascinante figlia di benestanti romani, così smaniosa di provare a se stessa di essere capace di attirare le attenzioni di qualsiasi corteggiatore, così piena di ambizioni, ma anche di rendite e gioielli scintillanti.

Vanda, infatti, non aveva dovuto fare granché per procurarsi i soldi: aveva portato i gioielli che aveva a uno dei soliti amici, quale pegno del futuro pagamento.

Ella era certa che Rosario presto avrebbe pagato; anche su di lei, infatti, aveva funzionato alla perfezione la capacità del giovane di convincere gli altri circa le sue buone intenzioni.

È importante, comunque, considerare quanto Rosario Vizzini piacesse a Vanda e come riuscisse a esercitare su di lei un fascino particolare, riassumendo in un’unica immagine il candore angelico della bellezza e la depravata diavoleria del vizioso; più Vanda lo frequentava e più voleva stargli vicino, felice come era di presentarsi agli altri al fianco di quel bel giovane. Pian piano, dunque, ella passava da un atteggiamento di mera avventura ad uso di seria disponibilità a una relazione permanente, e cominciava a pensare che insieme avrebbero potuto vivere bene.

Rosario non era il suo primo uomo e dunque le sue riflessioni non erano dettate dall’inesperienza, giacché, anzi, ella ne aveva avute fin troppe di conoscenze maschili. Le sue riflessioni, invece, nascevano dalla realtà: quella coppia si trovava bene da tutti i punti di vista.

Certo, all’inizio Rosario dovette recitare un po’, interessato com’era al raggiungimento del suo vero obiettivo; in seguito, tuttavia, anch’egli avrebbe vissuto più onestamente il rapporto con Vanda, arrivando persino a superare il grande blocco psicologico che gli derivava dall’aver scoperto di non essere il primo uomo di Vanda, la qual cosa all’inizio bloccava qualsiasi moto di sincero affetto per lei. A sua volta egli era affascinato dalle capacità direttive e dalla manifesta autonomia di Vanda; sino ad allora si era sempre imbattuto in donne che si lasciavano guidare da lui, magari apparentemente, ma che pur sempre si erano mostrate subordinate. Vanda Mileti, invece, era una donna di forte personalità: ella diceva e faceva tutto quello che riteneva giusto, si rapportava a lui senza timori reverenziali e persino nelle pratiche più intime lo sbalordiva per le marcate attenzioni su se stessa, contrariamente alle donne che Rosario aveva avuto prima di lei. Quando erano insieme il tempo sembrava loro scorrere in fretta, tanto veloce da non essere sufficiente per raccontarsi le mille cose che avevano da dirsi circa le loro avventure, piccole e grandi, le loro aspettative per il futuro e per dimostrare chiaramente che l’uno cercava l’altra e viceversa.

Tutto sembrava, insomma, procedere per il meglio fra i due, quando accadde un fatto decisivo per la loro storia, un evento inatteso che avrebbe sancito la loro definitiva unione: Vanda Mileti un giorno si accorse che portava in grembo una creatura!

Per Rosario Vizzini fu come se il mondo gli fosse franato addosso, tanto impreparato era a una simile evenienza e così lontano dall’idea della paternità e del matrimonio; ma così fu e non poté farci niente. Vanda Mileti, invece, era entusiasta di quella stupenda novità; non che avesse mai pensato di farlo, ma adesso che si trovava ad essere madre di un bambino viveva quel fatto come un magico momento di gioco. Già pensava a tutto quello che le sarebbe occorso per accudirlo e gioiva all’idea di poterlo tenere in braccio e cullarlo.

La felicità di Vanda Mileti contrastava acutamente con la preoccupazione di Rosario, per il quale, invece, si apriva un altro grande problema, appena poco tempo dopo averne risolto uno. Per giunta, quella volta, non si trattava di trovare una soluzione a un problema, per quanto grande fosse: quella era una situazione senza via di uscita! Egli non poteva più farci nulla, adesso che la frittata era fatta.

Quasi per una sorta di ironia, qualche giorno dopo aver saputo che sarebbe diventato padre, da Pietralunga arrivò a Rosario Vizzini la prova che la famiglia non lo aveva abbandonato. Una lettera, firmata dalla madre, gli annunciava, infatti, la disponibilità ad aiutarlo affinché si risollevasse dalla triste situazione che egli aveva descritto ai suoi familiari. Un serio, ma garbato, rimprovero per tutte le bugie raccontate e per il suo insano comportamento concludeva la lettera.

Quando Rosario finì di leggerla lo prese un moto di stizza: gli sembrò come se il destino avesse voluto prendersi beffa di lui. Se solo la lettera fosse arrivata qualche giorno prima! Allora la sua vita non avrebbe avuto la svolta che adesso era definitiva, immutabile.

Egli si rimproverò aspramente per avere pensato che i suoi avessero potuto abbandonarlo, che avessero potuto lasciarlo solo in mezzo ai lupi; avrebbe dovuto solo aspettare, ecco cosa avrebbe dovuto fare! Egli, però, non era tipo da avere pazienza e poi c’erano i creditori a reclamare quanto loro dovuto.

Magari qualche volta si ritrovava a pensare che forse avrebbe dovuto prestare più attenzioni alle calorose mani di Franca… Invece aveva ceduto al fascino di Vanda e in cambio quella gli donava ora un figlio e un matrimonio da celebrare in fretta, e davanti a lui la lettera arrivata da Pietralunga, beffarda, lo invitava a battersi il petto!

Il guaio era che si trovava a dovere scrivere un’altra lettera chiarificatrice, un altro atto di un dramma da raccontare.

Ne parlò con Vanna e decisero il da farsi. Lei gli presentò i suoi familiari e insieme raccontarono loro quanto era successo ed espressero la volontà di trovare presto il migliore modo per rimediare.

Quella di Vanda era una delle famiglie più ricche della zona, da sempre vissuta nel grande benessere economico, frutto del sapiente modo di investire il denaro, capacità da sempre manifesta in tutti i membri del nucleo.

Rosario Vizzini si trovò dinanzi a delle persone molto sicure di sé, estremamente decise nel loro dire e nel loro fare, molto orgogliose e forse anche un poco autoritarie. In particolare erano i fratelli di Vanda i più fieri rappresentanti dello stile familiare e proprio loro sembrava fossero i più infastiditi da quanto era successo. Essi non rinunziarono, perciò, a mostrare una certa irritazione nei confronti del siciliano, più che nei confronti della sorella.

Rosario ne rimase colpito, ma dovette fare buon viso a cattivo gioco.

Un momento di serio imbarazzo per lui fu quando gli chiesero la conoscenza della sua famiglia, in modo tale da sapere l’entità del contributo economico che essa intendeva dare per il matrimonio, poiché Rosario in quel momento non aveva avuto ancora risposta all’ultima delle sue lettere rivelatrici, nella quale, ancora una volta scusandosi per quello che aveva combinato, chiedeva la benedizione dei genitori al matrimonio che doveva celebrarsi.

Inutile dire quale scompiglio determinò quest’altra lettera di Rosario all’interno della sua famiglia.

Per poco non venne un’altra sincope a donna Concetta Altavista, la quale stavolta ebbe almeno la fortuna di non essere lei a leggere le notizie per prima; ma ciò non cambiò la sostanza delle cose.

C’era nella reazione dei Vizzini una miscellanea di emozioni. Alcune erano assai negative, per l’ennesima sciocchezza combinata da Rosario ad appena qualche settimana dall’ultima. Altre erano quasi improntate alla speranza, rispetto a un matrimonio che, forse, avrebbe fatto mettere la testa sul collo a quel ragazzo.

A tale proposito, tuttavia, assai significative furono le parole della domestica, la quale lo conosceva assai bene: «Quando partì» disse la donna, «si pensò che il servizio militare lo avrebbe raddrizzato, adesso si spera che il matrimonio gli faccia mettere la testa a posto; chissà come finirà…».

Sembrava un responso sibillino.

Ancora una volta, comunque, ai familiari non rimase altro che mettere una pezza alla situazione.

Partirono, dunque, per Roma per fare la conoscenza dei familiari della futura sposa e regolare ogni cosa.

Durante il viaggio si notò il muso lungo di Rosa Carlino, la quale non faceva altro che pensare a come avrebbero trattato la nuova nuora e già mugugnava al pensiero di qualche discriminazione verso di lei. Il marito aveva cercato di consolarla, ma aveva ottenuto solo l’ennesimo conflitto.

Quella era, d’altronde, la caratteristica del loro matrimonio: il battibecco continuo, la differenza di vedute, l’aggressività verbale della moglie e il tentativo di difesa del marito. L’unica cosa su cui si trovavano d’accordo, si può dire, era la ricerca del figlio, ricerca ancor più stimolata dalla notizia che un bambino c’era in arrivo, ma per Rosario, non per loro.

Purtroppo la buona notizia, mensilmente attesa, non arrivava mai e allora la frustrazione per l’insuccesso alimentava l’insoddisfazione e perciò la diaspora, rappresentando motivo di tristezza e di sconforto per entrambi.

A Roma, comunque, l’incontro fra le famiglie filò liscio, grazie soprattutto al savoir faire di donna Concetta, la quale impressionò positivamente i Mileti, seppure questi non fossero degli sprovveduti in proposito.

Mentre la conoscenza delle famiglie procedeva così bene, un grosso problema scoppiò fra i due futuri sposi, un problema che avrebbe investito tutta la famiglia Vizzini.

Vanda Mileti pretese, infatti, che i gioielli che lei aveva dato in pegno per i debiti di Rosario le fossero ridati.

Rosario non sapeva come fare, poiché la cifra che la sua famiglia aveva garantito per il matrimonio era già molto consistente. Inoltre egli non si sentiva di rivelare l’ennesimo bisogno economico ai suoi: se ne vergognava un poco, pur se non era affatto pentito di ciò che aveva fatto.

Intanto doveva accontentare Vanda e anche i suoi fratelli, i quali avevano saputo i retroscena del rapporto fra la sorella e il futuro cognato, per detta di alcuni comuni conoscenti.

I fratelli di Vanda avevano minacciato Rosario, perché egli provvedesse: «Guai a te se non fai quanto necessita!». Così lo avevano minacciato, essendosi il maggiore dei fratelli presentato come il portavoce di tutti. «Fai cosa vuoi, ma trova il sistema!».

Quelli avevano tirato fuori tutta la loro autorità e il loro orgoglio, sollecitati dalla paura di potersi venire a trovare di fronte a un vizioso qualsiasi, un potenziale pericolo per la sorella. Volevano, perciò, spaventarlo sin dall’inizio, per prevenire simili comportamenti nel più o meno immediato futuro.

A Rosario non rimase altro che far presenti le proprie necessità economiche ai familiari, ai quali tuttavia nascose il valore del pegno della moglie. Egli espose l’opportunità di non essere da meno alla famiglia Mileti, la quale avrebbe impegnato grosse cifre per il matrimonio della figlia.

«Non dobbiamo sfigurare di fronte a loro» disse Rosario ai suoi genitori. «Ne va anche del rapporto con mia moglie: abbiamo il nostro blasone da difendere».

Don Giuseppe Vizzini si trovava non poco in difficoltà rispetto alla richiesta del figlio, ma, in effetti, gli era sembrato corretto il ragionamento di Rosario. Egli da sempre aveva accontentato le richieste dei figli proprio perché la gente percepisse che loro erano i Vizzini, non poteva certo smentirsi in quella circostanza così importante.

Certo, comunque, l’impegno economico richiestogli era davvero sostanzioso, perciò ne volle parlare con la moglie, a quattr’occhi.

Dietro alla porta socchiusa, però, due orecchie indiscrete ascoltavano attentamente: erano quelle di Rosa Carlino, la quale era stata sempre in guardia, quasi attendesse l’accadimento. Ella poté perciò, origliare l’accordo raggiunto fra i due consuoceri riguardo al grosso sacrificio in favore di Rosario. Rosa Carlino saltò su tutte le furie e fece le proprie rimostranze al marito, appena poté parlargli: «Ecco! Come ti avevo detto i tuoi tratteranno tuo fratello per mille volte meglio che te; hanno già trovato l’accordo. Certo! Vanda non è Rosa e i Mileti non sono i Carlino; loro pretendono, perciò bisogna dare. La colpa, però, è tua, perché non hai saputo mai farti rispettare. E ora eccoci!».

Rosa Carlino era paonazza in viso, mentre esplodeva la sua ira al marito.

Questi mantenne il solito atteggiamento, a metà fra le difese della famiglia e il tentativo di rabbonire la moglie, e al solito ottenne l’ennesimo conflitto con Rosa.

Il fatto, comunque, non poté ostacolare l’accordo fra le famiglie Vizzini e Mileti e il matrimonio fu celebrato a Roma appena qualche giorno dopo.

Grazie all’interessamento dello zio Benito, oltre che di taluni conoscenti della famiglia Mileti, Rosario Vizzini ebbe un congedo anticipato e dunque poté iniziare la sua nuova vita da sposato, libero dall’impegno della leva.

Per esplicito volere del padre, Rosario e moglie dovettero trasferirsi in Sicilia, a Pietralunga.

Don Giuseppe da un lato non volle rischiare che il figlio si ritrovasse ancora in brutti pasticci quali quelli in cui si era trovato, dall’altro prese quella decisione in accordo con la sua precisa volontà che i figli stessero vicini ai genitori, nella loro terra.

Rosario accettò, ma del tutto a malincuore, quella decisione, avverso la quale non poteva opporsi, data la situazione. E anche Vanda Mileti accettò con dispiacere.

Sapevano entrambi che andando in Sicilia dovevano rinunciare alla possibilità di vivere nell’ambiente che amavano e che li aveva messi l’uno sulla strada dell’altra e al quale mai avrebbero voluto rinunciare.

Vennero così a perdere ciò cui tenevano di più, della qual cosa risentì maggiormente Rosario, il quale aveva vissuto quella sarabanda di avventure proprio per evitare di stare lontano da quel mondo, da poco conosciuto ma già tanto amato.

La loro volontà, tuttavia, non contava nulla di fronte alla decisione presa da don Giuseppe Vizzini e perciò con loro sommo dispiacere si trasferirono a Pietralunga.

Un giorno, però, entrambi avrebbero scoperto come anche in un piccolo centro di periferia possono aversi occasioni di divertimento…

 

 

 

13

 

 

 

 

In conseguenza del matrimonio fra Vanda Mileti e  Rosario Vizzini, specie a causa delle modalità con cui era stato preparato, peggiorò sensibilmente il rapporto fra Rosa Carlino e il marito e fra Rosa e i suoceri.

La giovane nissena si chiuse, infatti, in un orgoglioso silenzio; si rifiutava di incontrare i parenti e anche nei confronti della cognata, Vanda, assunse un dispettoso atteggiamento di alterigia.

Donna Concetta Altavista si sforzò di avvicinarla, ma stavolta si trovava poche frecce nel suo arco, poiché‚ in effetti, le lamentele di Rosa poggiavano su basi reali. Era vero che lei e la sua famiglia erano state accettate a malincuore dai suoceri, così come era vero che a Vanda Mileti e al marito era stato dato per dieci volte almeno di quanto fosse stato dato a loro.

Donna Concetta Altavista, perciò, non poteva fare altro che ricorrere a varie motivazioni che, però, non potevano accontentare la nuora, la quale insistette nel suo atteggiamento.

Forse non lo avrebbe mai più cambiato…

Peggiorò nettamente anche il rapporto con il marito, con il quale, ormai, aveva una comunicazione ridotta all’essenziale. Si incontravano di giorno a tavola e la sera a letto ed erano più le volte che rimanevano in silenzio.

Salvatore Vizzini, intanto, si era adattato a lavorare in un ufficio pubblico, all’interno del quale aveva un modesto ruolo dirigenziale. In più egli gestiva un appezzamento di terra che il padre gli aveva affidato e del quale godeva i frutti. Certo la vita di ufficio non lo esaltava, anzi spesso era fronte di frustrazione e di dispiacere; egli, tuttavia, pensava che un giorno, quando suo padre gli avrebbe lasciato la sua parte di eredità, avrebbe smesso di essere sempre puntuale all’arrivo e all’uscita dall’ufficio e si sarebbe dedicato a rendere fruttifere le terre e le proprietà. Per intanto subiva, ma accettava. Né il destino lo aiutava, negandogli quel figlio che desiderava altrettanto che la moglie, motivo per il quale si insinuava sempre più fra i due coniugi l’idea che qualcuno di loro fosse sterile.

Salvatore Vizzini intimamente reagiva quasi con furore: anche in questo caso, infatti, il fratello Rosario si era rivelato più fortunato, come tante altre volte in precedenza. Pian piano cominciò a ritenere che davvero il fratello minore gli fosse superiore e gli venne da pensare spesso al racconto che gli aveva fatto la madre circa la sua nascita: ai bombardamenti che lo accolsero, alla precedente malattia della madre e dell’ultimo disperato tentativo del dottor Lanza, dopo il quale avrebbero deciso di non farlo nascere. Poi pensava anche alle difficoltà vissute nell’incontro con il mondo, difficoltà che il fratello non aveva per nulla conosciuto, e ancor più si convinceva che egli era di una spanna almeno inferiore. La mancanza di un figlio era solo l’ultima riprova di ciò.

Spesso lo si trovava da solo, intento a guardare le stelle, pensoso e turbato; non c’era cosa che lo aiutasse a sollevarsi, né svago né amici. Tanto meno si sentiva aiutato dalla moglie, il rapporto con la quale si inaspriva sempre di più, tanto che risultavano già un pallido ricordo i balli madrileni e le feste sulla nave durante il viaggio di ritorno dalla Spagna. Sembrava proprio che la loro felicità si fosse fermata a Catania, quella sera, dallo zio Benito.

Dinanzi al comportamento della moglie, Salvatore Vizzini rimaneva assai perplesso. Rosa Carlino, infatti, aveva ripreso il suo antico vezzo della civetteria, in verità mai del tutto abbandonato, e la si ritrovava spesso compiaciuta di farsi ammirare dagli uomini. Probabilmente per reazione alla triste situazione che viveva ella era tornata a essere la donna che era il giorno in cui Salvatore Vizzini rimase folgorato dalla sinuosità del suo corpo, quella che aveva fatto infuocare di desiderio persino un lord inglese in terra iberica. Ella aveva, anzi, accentuato il suo piacere esibizionistico, al punto che gli uomini la guardavano non senza un pizzico di interesse e lei non evitava di ricambiare sorrisi e dava quasi l’impressione di accettare i corteggiamenti.

Il marito la guardava e la osservava in ogni suo fare, ma egli era tanto preso dai suoi problemi che i suoi tentativi di rimprovero nei confronti della moglie si rivelarono sempre infruttuosi, perché poco costanti e discontinui. Si può dire, anzi, che solamente peggioravano il loro rapporto, non riuscendo a modificare alcunché nelle loro convinzioni più intime.

C’era poi un altro fatto che acuiva il contrasto fra i due: Rosa Carlino, scoperti i piaceri della vita, sembrava essere esplosa in un irrefrenabile e inconsulto erotismo, per cui la sera chiedeva continuamente di avere placati i suoi desideri e, quasi fosse sempre insoddisfatta, lo faceva più volte e ogni sera. Un tempo per Salvatore Vizzini ciò avrebbe rappresentato il giusto contraccambio alle sue richieste, mentre adesso era come un’ulteriore occasione per essere messo in crisi. Sforzandosi di mantenere intatta la sua immagine di virilità, egli meglio accettava le pause serali al silenzio del giorno, ma lo faceva quasi con sufficienza, senza animo.

Com’è strana la vita!

Pensare che fino a poco tempo prima egli sarebbe stato felice di ricambiare le richieste della moglie, mentre adesso appariva scontento e infelice; gradualmente si era nuovamente immusonito e chiuso nel suo mondo di silenzio e pareva essere tornato nelle tenebre mentali che lo avvolgevano prima di incontrare Rosa Carlino. Il periodo felice del matrimonio e del successivo viaggio di nozze erano stati come un’isola in un oceano e se a casa le cose andavano male, non meglio andavano in ufficio.

Lì Salvatore Vizzini viveva un’altra occasione di insoddisfazione, essendo completamente disabituato a quel genere di vita, alle puntualità orarie, al rispetto gerarchico, se non quello patriarcale, e alle piccole gelosie sul lavoro.

Ma era soprattutto un altro il problema scottante.

Salvatore Vizzini era nato e cresciuto in un ambiente famigliare che sollecitava l’orgoglio, l’autonomia, la voglia di emergere e di conquistare nuovi orizzonti; in ufficio, invece, egli scopriva il mondo del favoritismo politico, degli avanzamenti di carriera fondati sull’amicizia più che sul valore, la subordinazione interessata. Erano due modi di vivere assai contrastanti fra loro e che generavano confusione in lui, aggiungendo legna al fuoco delle sue difficoltà personali.

Era soprattutto il capo ufficio che gli offriva l’occasione per grossi scontri. Quell’uomo si era fatta strada con l’interessato favore degli ambienti politici al potere e aveva fatto carriera molto in fretta. Di ciò si faceva vanto e nei rapporti con gli altri usava uno sprezzante atteggiamento di superiorità, più fondata sull’esercizio del potere che su un reale vantaggio culturale. Era proprio quest’ultimo dato a far saltare i nervi a Salvatore Vizzini ed era assai esplicativo, al proposito, il suo modo di guardare il capo ufficio, quasi dall’alto in basso, per fargli ricordare la sua superiorità di fatto, se non di grado.

Una volta gli sbottò in faccia, dopo l’ennesimo contrasto, le sue origini: «Si ricordi che io sono un Vizzini, ma si ricordi soprattutto che mia madre è una Altavista! Lei, invece, da dove viene?».

«Io non sono un Altavista, ma sono il suo capo ufficio, se ne ricordi!» gli rispose quello.

«Deve questo privilegio solo alla protezione dell’onorevole Cipolla!» replicò Salvatore Vizzini, facendo saltare le resistenze di quell’uomo, il quale, infatti, uscì dalla stanza con in viso il colore dell’ira.

Allora Salvatore Vizzini non sapeva che un giorno egli avrebbe avuto bisogno di lui…

A casa di Rosario Vizzini le cose non andavano poi tanto meglio, seppure per motivi assai diversi. La gravidanza di Vanda procedeva regolarmente e ormai si avvicinava l’ora del parto. Fu a quel punto che nacquero i problemi. Rosario Vizzini, infatti, ebbe l’occasione di riscoprire l’autoritarismo dei fratelli della moglie, i quali la appoggiavano completamente in ogni sua richiesta.

Il problema fu quello della sede del parto: Vanda Mileti decise che avrebbe partorito a Roma, dove conosceva importanti professori, nei quali riponeva massima fiducia; inoltre, l’idea di essere a casa sua, vicina a tutti i suoi familiari, la rendeva più sicura. Fu perciò molto decisa nell’avanzare la decisione al marito. Questi non fu d’accordo con Vanda, preferendo a sua volta appoggiarsi su medici di sua conoscenza e fidandosi dell’aiuto che avrebbe avuto dai suoi famigliari.

Non fu possibile raggiungere un’intesa fra i due, ma la soluzione arrivò lo stesso, da Roma: i fratelli di Vanda fecero sapere la loro opinione al cognato, affermando che non avrebbero tollerato che la sorella non fosse accontentata nella sua richiesta e che, pertanto, avrebbe partorito a Roma. Usarono il tono che Rosario già conosceva, quello che non ammette repliche né tergiversazioni; si trattava, in pratica, di un ordine.

Rosario ne parlò con la madre, la quale s’intristì nel sapere che la nuora non si sentiva altrettanto protetta a casa sua; tuttavia ella consigliò al figlio di non esasperare il contrasto, specie in quel periodo.

Senza volerlo la discussione venne alle orecchie di Salvatore Vizzini e della moglie e la loro reazione fu meno conciliante rispetto a quella di donna Concetta Altavista. Salvatore si sorprese che il fratello affidasse ai cognati una decisione che toccava a lui:

«Non puoi permettere che altri comandino su di te e in casa tua» disse al fratello.

Molto imbarazzato, quello gli rispose che anche la madre gli aveva consigliato di soprassedere, non potendo in verità rivelargli le autentiche motivazioni della sua subordinazione ai fratelli della moglie.

Se la risposta non contentò Salvatore, essa fece irrigidire Rosa Carlino:

«Visto com’è conciliante tua madre nei confronti di tua cognata?» disse al marito. «Con me, invece, non è mai stata così buona e tutto ciò per colpa tua; tu non hai mai saputo farmi rispettare».

Anche quest’ultimo problema di Vanda Mileti, dunque, accentuò il distacco fra le due cognate e aumentò l’insofferenza dell’una per l’altra, ma lasciò il segno anche fra i due fratelli.

Vanda Mileti partorì a Roma una bella femminuccia, sconfortando così i due nonni, specie don Giuseppe Vizzini, il quale già temeva che l’altro figlio non sapesse dargli un successore.

Rosario Vizzini non poté assistere la moglie a Roma per tutto il periodo del puerperio, impegnato come era nella raccolta del grano nelle terre che il padre gli aveva dato in gestione. Egli limitò, dunque, la sua permanenza a Roma allo stretto tempo necessario per conoscere sua figlia e immediatamente dopo se ne tornò in Sicilia. Il distacco dalla moglie non fu molto sgradevole per lui, poiché egli poté così rivivere il piacere dello star solo che vive chi non gradisce una compagnia vissuta ormai con monotonia, e così era la sua convivenza con Vanda Mileti.

Per Rosario fu come fare un tuffo nel passato, ai tempi d’oro, quando poteva consentirsi di saltare da fiore in fiore, senza dover rendere conto a nessuno; perciò non perse l’occasione di abbandonarsi a una delle sue solite avventure. Conobbe una giovane ragazza, molto avvenente in verità, appartenente a gente che in paese passava per gente forte, persone che imponevano rispetto, data la loro fama di duri. Ciò, invece che rappresentare un freno per Rosario, divenne un incentivo a provare: il rischio era uno dei suoi piaceri preferiti!

Non gli venne difficile accattivarsi le simpatie della giovane, la quale rimase affascinata dai racconti di quell’uomo, del quale subito s’innamorò.

Molto, ma molto, meno affascinati rimasero i parenti di lei allorché scoprirono il segreto viluppo.

Così, mentre a Roma gioivano per la nascita della prima nipote, a Pietralunga il padre della bimba piangeva lacrime di dolore e non di gioia.

Quando, infatti, i genitori della ragazza seppero che Rosario Vizzini le aveva rubato il più intimo segreto, minacciosamente richiesero che fosse riparato il danno e non potendo chiedere che l’uomo si sposasse due volte, rivolsero le loro richieste di riparazione alla proprietà. Due dei fratelli della ragazza, i maggiori, una sera aspettarono Rosario Vizzini sotto casa sua e gli esposero, con il sangue negli occhi, la loro volontà, alla quale non ammettevano derogazioni, altrimenti, dissero, gli sarebbe finita molto male. E non era gente che scherzava, quella.

Rosario Vizzini lo sapeva bene, perciò sentì gelarsi il sangue nelle vene mentre ascoltava le minacce dei due uomini.

«Nostra sorella potrà non trovare più un marito a causa della tua bravata, perciò la dovrai risarcire, e bene!». E continuarono: «Devi intestarle quattro salme di terra entro questa settimana, altrimenti saranno guai per te e per la tua famiglia!».

Il tono usato dai due non ammetteva tentennamenti e quelle parole sibilarono minacciose dentro il cervello di Rosario Vizzini, il quale, istintivamente, si portò le mani al capo, quasi per proteggersi, ma in realtà esprimendo tutta la sua disperazione. Quattro salme di terra erano tante e poi lui, di sua, non ne aveva neanche una; quelle da lui amministrate erano terre che il padre gli aveva lasciato in gestione, ma la proprietà era rimasta a don Giuseppe.

Quando i fratelli della ragazza si allontanarono da Rosario, questi si trovò solo nell’eternità.

Ancora una volta venne a trovarsi nella situazione di non sapere come fare e si maledisse più e più volte, si morse la mani e urlò la sua rabbia al silenzio circostante; ma fu solo uno sfogo istintivo. Gli restava la parte più difficile, cioè lo scontro con la realtà. Si convinse, e aveva pienamente ragione, che non poteva fare altro che parlare con il padre, mentre la moglie era a Roma, lontana.

Fu una giornata che non avrebbe mai più dimenticato, per il resto della sua vita.

Quando Rosario finì la sua amara confessione, don  Giuseppe Vizzini gli apparve una cariatide, minacciosa nella sua imponenza e nel suo colore, sbiadito dal tempo.

Il padre si sentiva venire come un vortice di aggressività che tendeva a portargli le mani al collo del figlio, con la precisa volontà di stringere forte, molto forte. Lo fermò il suo essere padre, ma ciò non bastò a bloccargli un gran ceffone, che caricò di tutte le sue forze, ormai ridotte dall’età e dal gran dispiacere. Poi iniziò una gran filippica, nella quale non mancò di utilizzare ogni aggettivo negativo.

«Delinquente… disonesto… svergognato…».

Sembrava quasi che avesse bisogno di quegli epiteti per pronunziare le lunghe frasi che gli venivano alla mente e che, invece, sintetizzava in un solo termine.

Mentre dava corso al suo sfogo si sforzava di trovare una soluzione, ma vi riuscì solo parzialmente. Comprese, infatti, che non c’era altro da fare che accettare quella specie di ricatto e che l’unica cosa da fare era di cercare un compromesso. Erano, in ogni caso, gli ultimi sprazzi di lucidità, sommerso com’era da un’ondata di emotività che rischiava di farlo esplodere contro il figlio; perciò, quasi meccanicamente, continuava a ripetere:

«Svergognato… delinquente… disonesto…».

Don Giuseppe cominciava ormai a vedere nel figlio una sorta di nemico. Egli, che era stato il migliore rappresentante della famiglia Vizzini, che aveva agognato un ulteriore avanzamento sociale ed economico del nucleo, adesso veniva a trovarsi corroso da un tarlo interno, un parassita in casa sua. Non gli sembrava possibile che egli avesse potuto generare il contrario di se stesso, che un suo figlio potesse distruggere tutto quanto, da più generazioni, i Vizzini avevano accumulato. Gli venivano allora in mente le parole della moglie:

«Lo hai sempre accontentato in ogni suo desiderio, ogni suo volere è stato per te un dovere!».

Don Giuseppe Vizzini, per la prima volta in vita sua, si pentì amaramente della risposta che aveva sempre dato alla moglie: «Vuoi che la gente pensi che non siamo in grado di permetterci di accontentare i nostri figli?».

Ripensandoci, dunque, don Giuseppe si trovò a credere che la moglie aveva visto meglio di lui, ma cosa poteva farci adesso?

Egli conosceva la famiglia della ragazza offesa, sapeva quanto fossero pericolose quelle persone, in specie considerando che il bruto del figlio aveva loro toccato una delle donne, proprio a quelli che fanno dell’onestà della donna uno dei valori più alti da difendere!

Non poteva fare altrimenti: doveva accettare!

Quando se ne convinse egli sentì come se si trovasse a rinunziare a una parte della sua storia, fu come se dovesse dare un braccio o una sua gamba, una parte del suo corpo, insomma. La sua proprietà, infatti, egli la viveva come facente parte di sé, con le sue terre egli si sentiva un tutt’uno e così riteneva che la sua riproduzione, attraverso i figli, avrebbe corrisposto alla proliferazione delle terre.

Adesso, invece, si trovava a dovere perdere, senza neppure poterla commerciare, una parte di esse, giusto per colpa di quella cellula cancerosa di Rosario. Riuscì solamente a ottenere che la ragazza avesse poco meno di quanto avevano richiesto per lei i suoi fratelli, mentre da questi ultimi don Giuseppe ottenne la promessa del silenzio assoluto del fatto; perciò nessuno seppe mai delle motivazioni vere di quello strano affare, descritto come una vera e propria cessione, che in ogni caso ai più apparve incomprensibile.

Così seppe anche Vanda Mileti, alla quale non potevano certo dichiarare la verità…

Chi invece venne a sapere del segreto fu Salvatore Vizzini, al quale per una volta il padre volle appoggiarsi, bisognoso com’era di qualcuno che lo comprendesse, qualcuno con cui almeno sfogarsi. Anche per Salvatore Vizzini quella storia rappresentò un dramma, che per altro accentuò il baratro ormai scavato fra lui e il fratello.

Per don Giuseppe Vizzini cominciò proprio da allora una sorprendente decadenza fisica, stranamente iniziata con l’inopportuna perdita della proprietà: iniziò a sentirsi stanco, senza energia, venne a mancargli l’appetito e la notte era per lui come il giorno.

In una parola iniziò la sua fine.

Nel frattempo erano tornate da Roma Vanda Mileti e la figlioletta, Iride. Si trattava di una bellissima bambina, dai capelli e dalla carnagione chiara e dai profondi occhi blu. Vanda Mileti volle chiamarla Iride e fu un’altra sua decisione senza possibilità d’interlocuzione. Rosario Vizzini, d’altronde, era ancora tutto preso dalla sua gran peripezia per pensare a un altro nome per la bimba. In effetti, egli avrebbe preferito chiamarla come sua madre, Concetta; ma trovò la decisa opposizione della moglie, al solito appoggiata dai fratelli, e Rosario non ebbe la forza di insistere.

Ci rimase male donna Concetta Altavista e ancor più Salvatore Vizzini, il quale imprecò contro la cognata, alla quale ne disse di tutti i colori, spinto anche dalle forti critiche che aveva mosso sua moglie.

«Quella» gli aveva detto Rosa Carlino, «vi farà girare la testa a tutti! Fa e disfa ciò che vuole, senza che voi possiate interferire in alcun modo. Con lei non ci potete, vero marito?».

Rosa Carlino diceva queste cose sapendo di ferire l’orgoglio del coniuge, del quale stuzzicava le reazioni più violente, a lei ben conosciute; ma nelle sue parole c’era anche la spontanea dichiarazione delle sue frustrazioni, di quelle procuratele dal marito e dai suoi familiari, una rivelazione che si vestiva di ira e di voglia di rendere la pariglia a chi l’aveva fatta soffrire tanto. Non risparmiava, perciò, la solita frecciata ai genitori del marito, il rapporto con i quali si manteneva assai freddo e anzi andava corredandosi di note di distacco e di ostilità.

Sul fatto che la cognata avesse quasi il dominio sul fratello, Salvatore Vizzini concordava con la moglie:

«Non è ammissibile! Dapprima lo ha inserito in quel mondo di giocatori e di viziosi, poi si è fatta sposare per forza; inoltre ha deciso di partorire a Roma e, infine, Iride! Che nome ha posto alla figlia… Tutto lei, fa tutto lei, senza che Rosario la argini minimamente! Ma che figura ci fa?». Così ebbe a dire Salvatore Vizzini alla madre.

«Hai ragione» gli rispose donna Concetta Altavista, «ma lascia che le cose vadano avanti, alla fine si aggiusteranno; sono giovani, loro».

La serenità, almeno apparente, della madre aiutava Salvatore Vizzini a placare i suoi impulsi, ma con il fratello rimaneva pur sempre un notevole astio; figurarsi con la cognata. S’incontravano solo le volte che era strettamente necessario ed evitavano qualsiasi altra occasione. La cosa non sfuggiva a chi osservava quello strano quadretto familiare.

Vanda Mileti, da parte sua, era tornata da Roma non solo con la figlioletta fra le braccia, ma anche con il rivisitato ricordo della sua bella vita romana. Pietralunga, perciò, le parve ancor più piccola, una sorta di restrizione della sua vitalità, il rimpicciolire della sua esistenza, per cui iniziò a odiare la cittadina e i suoi abitanti e divenne sempre più insofferente. Cercava di compensare la sua inquietudine con la modalità dell’autosoddisfacimento che quel tipo di donna solitamente adotta: comprare gioielli.

Quale regalo per la nascita di Iride i suoi le avevano dato un bel gruzzolo di soldi, che però stettero molto poco fra le sue mani e presto si trasformarono in anelli, collane e bracciali.

Vanda Mileti, inoltre, usava vestirsi a punto, ornarsi di tutti i suoi gioielli e passare ore e ore davanti allo specchio, a rimirarsi.

Qualche volta usciva per strada, insieme a tutte le sue arie, suscitando le più variegate reazioni, in un piccolo ambiente come quello di Pietralunga.

Addobbata a modo suo e con gli atteggiamenti che le erano soliti, Vanda Mileti somigliava assai alla cognata, Rosa Carlino, con la quale potevano fare a gara a chi appariva più civettuola dell’altra. Forse proprio per questo le due donne non riuscivano ad andare d’accordo, ma entrambe non l’avrebbero mai ammesso.

La gente, invece, cominciò a pensare ad altro, dando via libera ai puledri dell’immaginazione, e ci fu chi si avventurò a pensare che le due donne cercassero di piacere a qualcuno che non fossero i loro mariti. Le insinuazioni investirono per prima Rosa Carlino, che la gente conosceva da più tempo, il che dava maggiori occasioni di prova dei misfatti a lei attribuiti. Il fatto poi che non avesse figli offriva il pretesto alle dicerie, per cui si sparse la voce che ella cercasse consolazione in qualche altro uomo, scontenta come era del marito, il quale non si era dimostrato all’altezza della situazione. Il carattere chiuso e introverso di Salvatore Vizzini, insieme alla scarsa simpatia che egli raccattava dai suoi concittadini, aiutava le fantasie popolari, cui dava altro motivo di proliferazione.

Di lì a poco, lo stesso, le maldicenze si collocarono anche su Vanda Mileti, la quale era percepita simile al marito, nei pregi e nei difetti.

“Al marito piacciono le donne e alla moglie piacciono gli uomini!” Questa era la frase che seguiva il passaggio di Vanda Mileti durante le sue apparizioni in pubblico, quando la gente si fermava a guardarla da dietro, dopo averle mostrato apparente indifferenza davanti.

Chissà che anche questo non contribuì a far cedere le forze di don Giuseppe Vizzini definitivamente. Dimagrito, ridotto ormai alle ossa, deluso e umiliato, un giorno don Giuseppe decise di ritirarsi da questa vita per tentare di ritrovare la fiducia in se stesso in cielo.

Tutta la famiglia era pronta al decesso: da tempo ormai il medico di famiglia aveva preparato i congiunti alla ineluttabilità del trapasso. Vani erano stati i tentativi di convincere l’antico uomo, e forte, a riprendere ad alimentarsi o, almeno, a bere qualche goccia d’acqua: egli serrava i denti, quelli che gli erano rimasti, e sgranava gli occhi per esprimere il suo rifiuto. Riuscivano appena ad inumidirgli la bocca con un panno imbevuto, ma ovviamente non bastò.

Con lui se ne andò un pezzo di storia della famiglia, insieme al suo cruccio di non aver potuto dare l’addio a colui che avrebbe potuto sostituirlo nel ruolo,

Solo per quest’ultimo motivo non fu difficile spartire l’eredità: figli e madre trovarono un accordo su come curare le ormai residue proprietà loro rimaste, dividendone la gestione fra i due figli. Donna Concetta volle rimanere a casa sua e difatti non accettò l’invito del figlio Salvatore ad andare vivere con lui. Questa soluzione, d’altronde, non sarebbe stata accetta a Rosa Carlino, la quale si era opposta fermamente al volere del marito, al punto che persino quando Salvatore Vizzini volle, forzatamente, esprimere il proprio desiderio alla madre, ella assunse in viso i contorni espressivi del rifiuto più categorico. Donna Concetta Altavista era già pronta a questo e certo non le sfuggì la mimica della nuora; perciò garbatamente rifiutò la disponibilità del figlio, ringraziandolo per la cortesia.

«Voglio vivere con tutti i miei ricordi, a casa mia, qui dove sono nata e cresciuta e dove dovrò morire» così si giustificò di fronte al figlio.

Nei confronti di Rosario, invece, non le occorse trovare alcuna giustificazione poiché lui e sua moglie non presero neanche in considerazione una simile eventualità; almeno in questo si ritrovarono d’accordo…

Loro non ebbero una gran risonanza emotiva a causa della morte di don Giuseppe: la sua dipartita doveva accadere ed era accaduta: la loro riflessione si fermava là.

In Salvatore Vizzini, invece, le cose andarono in maniera assai diversa e con una connotazione altamente drammatica. Qualche giorno dopo la scomparsa del padre, Salvatore Vizzini si accorse angosciosamente di non essere più in grado di mostrare la sua mascolinità; inizialmente prese la cosa con leggerezza, addebitandola all’emozione per la morte del padre. Poi, lentamente, si rese conto che il danno era, per così dire, definitivo e che non gli riusciva più di provvedere. Si rivolse al medico di famiglia, il quale tentò di rassicurarlo, affermandogli che sarebbe certamente passato tutto, ma la cosa non diede alcuna sicurezza a Salvatore Vizzini.

Gli riuscì a celare il fatto alla moglie, sostenendo che lo stress subito non gli concedeva spazio per il piacere, ma quando più in là la motivazione si fece meno credibile Salvatore si trovò di fronte a una tremenda reazione della moglie:

«Che razza d’uomo ho sposato! Qui o si trova un rimedio o ci separiamo!».

Quelle parole ebbero su Salvatore Vizzini l’effetto di una doccia scozzese.

Egli aveva cercato timidamente di ottenere comprensione dalla moglie e invece si ritrovava con una pesante umiliazione e una minaccia incombente, oltre che l’angosciosa impossibilità di fare qualcosa. Sperò ardentemente che la situazione cambiasse presto, che da un momento all’altro il suo problema potesse scomparire, altrettanto rapidamente di come si era impiantato, umiliato com’era in lui il precedente, forte, senso di rivincita e di riscatto personale.

Voleva risorgere dalle ceneri, ma invano.

Gli venne a conforto la madre, l’unica alla quale poté rivolgersi in cerca di sostegno. Pudico com’era, egli non le rivelò del tutto il suo amaro segreto, ma le fece intuire qualcosa; da allora cominciò a recarsi più volte giornalmente dalla madre, quale pulcino che cerca la protezione dalla sua chioccia e la situazione andò avanti in quel modo per diversi mesi.

Saltuariamente egli si sforzava di ottenere la riabilitazione, magari solo perché eccitato dalla moglie, ma ogni volta si trovava di fronte all’ennesimo avvilimento, finché un giorno non avvenne la più inaspettata delle sorprese: Rosa Carlino scoprì di essere in attesa di un bambino!

Fu come un’esplosione di felicità e insieme di perplessità, di atroci dubbi.

Rosa era felice, come se avesse raggiunto l’acme del desiderio: finalmente avrebbe avuto una creatura tutta sua, solo sua! Pensava che anche se il marito avesse perseverato nel suo atteggiamento di distacco, lei avrebbe avuto un piccolo essere con cui consolarsi.

Nel mentre in Salvatore Vizzini c’era un tumulto di emozioni: da un canto egli viveva quell’evenienza come la tanto attesa possibilità di riscatto agli occhi degli altri, la migliore maniera per ricordare che egli era un uomo; dall’altro s’insinuava nella sua mente il più meschino dei dubbi, che lui non fosse il padre del nascituro! Si affollavano nella sua testa i bisbigli della gente sul conto delle nuore di donna Concetta Altavista, le espressioni di sufficienza rivoltegli dalla gente, la scarsa considerazione di cui godeva. Egli stesso, d’altronde, aveva conosciuto la civetteria della moglie e per primo se n’era compiaciuto. Ripensava, inoltre, ai suoi insuccessi, alle minacce indirizzategli dalla moglie, perciò, nel tempo stesso in cui aveva voglia di gridare al mondo la sua gioia, egli doveva trattenersi dal farlo, poiché dentro di lui un tarlo rodeva la sua felicità.

Quando arrivò il momento, un bel maschietto si presentò alla luce con un accattivante pianto che il padre udì dalla stanza accanto e che gli fece solcare il viso dalle lacrime. Finalmente Salvatore Vizzini poté sentirsi padre! Lo invase, perciò, una gioia indicibile, smorzata solamente dal ricordo della recente scomparsa del padre; vita e morte venivano a incontrarsi su uno stesso palcoscenico per dare alimento all’emotività di Salvatore Vizzini.

Nella sua famiglia, al contrario di quella del fratello, il capofamiglia volle dimostrare di tenere lo scettro del comando; dunque non poté esserci alcun dubbio che il bambino dovesse chiamarsi Giuseppe, Giuseppe Vizzini, come suo nonno.

Il bimbo mostrò immediatamente tutta la sua vivacità e pareva voler crescere al più presto, senza al contempo dare troppi fastidi a chi lo accudiva.

Entrambi i genitori ne erano orgogliosi.

Salvatore Vizzini divideva il suo tempo libero fra la madre, donna Concetta Altavista, e il bambino; di solito riusciva a soddisfare il desiderio di stare con entrambi portando il figlio in casa della nonna. Talvolta egli lo portava in giro, nonostante il figlio non avesse ancora imparato a reggersi sulle ginocchia, aiutandolo nella malferma andatura. A tutti quanti incontrava chiedeva: «Non somiglia tutto a suo nonno?». «Non è perfetto dialettale suo nonno?». Ogni qual volta riceveva un assenso era come se un forte temporale si abbattesse nell’incendio del suo dilemma. “Se somiglia a mio padre” pensava, “se somiglia a un Vizzini, allora non c’è dubbio: è proprio figlio mio!”.

Se avesse chiesto circa la somiglianza del bambino e se stesso, egli avrebbe suscitato negli altri quelle che erano le sue stesse perplessità, ecco perché dirottava le prove della sua paternità sulla somiglianza con il nonno del bambino.

Avvertiva, invece, una tremenda delusione quando qualcuno gli assicurava che il figlio somigliava alla madre o ad altri, ma i più, fortunatamente, confermavano che il bambino somigliava all’uomo di cui portava il nome e il cognome. Nei momenti in cui le sue certezze erano stabili, Salvatore Vizzini guardava al bambino come al segno della propria virilità e alla madre del piccolo come a una fedele compagna. Ciò consentiva un miglioramento, almeno temporaneo, del rapporto coniugale, magari solo la riduzione del numero e dell’intensità delle liti. Nella relazione con il figlio, tuttavia, i due genitori mostravano qualcosa di inusuale, di strano. Succedeva, infatti, che i due dirigessero le loro attenzioni sul figlio in maniera individuale, singola, quasi mai contemporaneamente, mentre il colloquio fra i due coniugi rimaneva scarno e ridotto all’essenziale.

In ogni caso, comunque, la nascita del piccolo non risolse il dramma personale di Salvatore Vizzini. La moglie poté almeno vedere soddisfatta una sua esigenza; se da un lato, tuttavia, Rosa Carlino compensò il proprio bisogno di compagnia, dall’altro ella continuò a vivere un colpevole stato di disagio, a causa dell’impotenza del marito. Si trovava, talvolta, a pensare che ella non era più in grado di interessarlo: “Sarà che non sono più attraente come prima” pensava.

Di conseguenza aumentò la cura del suo corpo, nel mentre si sforzava di conservare liscia la pelle, si guarniva in maniera adeguata e si mostrava gentile e garbata con tutti. Quando, però, poi si trovava di fronte all’ennesimo insuccesso del marito ripiombava nei suoi dubbi e nelle sue colpe vissute.

Per reazione cominciò a guardarsi intorno, per verificare se gli altri uomini la guardassero in modo diverso rispetto al marito.

Mentre prima di sposarsi, e immediatamente dopo, Rosa Carlino aveva espresso solo una sorta di civetteria, tendente unicamente a guadagnarsi lo sguardo degli altri, adesso il suo intendimento era ben più chiaro: voleva la precisa conferma che gli uomini la guardassero come donna, interessati a lei in quanto tale. Poté così scoprire che l’effetto che aveva verificato in Salvatore Vizzini non era stato casuale: c’erano altri uomini che la guardavano e il loro sorriso non era del tutto innocente.

Uno dei più disponibili si rivelò essere un amico di Rosario Vizzini.

Era questi un uomo magari non più giovane, ma ancora ben messo e molto giovanile nel portamento; d’altronde quell’uomo non si era mai affaticato troppo, avendo trascorso la sua esistenza nel totale disimpegno lavorativo, vivendo della modesta rendita di qualche piccola proprietà e dell’aiuto dei parenti, soprattutto di due anziane zie, ambedue nubili.

Giacomo Crimì trascorreva parte della sua giornata fuori casa; amava alzarsi tardi al mattino, vestirsi il più elegante possibile e recarsi a fare colazione al bar centrale di Pietralunga. Questo rituale era seguito dalla conversazione con il barbiere, gran conoscitore di ogni persona o cosa del paese, mentre si ripuliva il viso dalla barba. Per pranzare non aveva una sede fissa: amici o parenti si succedevano nell’impegno di invitarlo alla tavola imbandita. I suoi genitori ormai se ne erano andati da un pezzo e il suo unico fratello, una volta sposatosi, aveva preferito investire i suoi averi fuori dall’isola e non si era più fatto vivo.

Giacomo Crimì viveva perciò da solo.

Egli possedeva un piccolo appartamento che si sforzava di tenere ordinato quanto gli era possibile; al resto provvedevano le solite zie.

Egli non aveva voluto seguire l’esempio del caro amico Vizzini e non aveva preso sposa. D’altra parte sapeva bene che il suo fido conoscente aveva dovuto subire il matrimonio, senza possibilità alcuna di scelta! Giacomo Crimì si era rivelato più avveduto e non si era cacciato in situazioni senza uscita di emergenza. Pertanto nessuna delle donne che aveva conosciuto aveva saputo obbligarlo a una scelta non sua.

La sera il nostro uomo era solito trascorrerla al Circolo dei Signori, dove il tempo trascorreva tra un giro a carte e una lenta fumata di sigaro, in questo caso standosene immersi in una delle ampie e comode poltrone; più raramente leggendo il giornale. A scopone faceva coppia fissa con Rosario Vizzini ed era difficile che perdessero una passata.

Giacomo Crimì sapeva parecchie cose di casa Vizzini, sia di Salvatore sia di Rosario, così anche della casa degli Altavista. Le lunghe ore passate insieme a Rosario gli avevano permesso di sapere anche i più piccoli segreti e fra questi c’era quello della scarsa virilità di Salvatore Vizzini, segreto che Rosario gli aveva sussurrato, pregandolo vivamente di non diffonderlo.

La voce, però, come ben sappiamo, già correva da tempo in paese, perciò Giacomo Crimì non ne era rimasto sorpreso.

Egli aveva notato l’atteggiamento sottilmente provocatorio di Rosa Carlino e ne aveva tratto le debite conclusioni, conoscitore come era della psicologia delle donne.

Sapendo che tra i fratelli non correva buon sangue, egli fece di ciò il pretesto per la sua frequenza della casa di Salvatore Vizzini. Si presentò inizialmente come promotore di un tentativo di rappacificazione fra i due fratelli, potendo approfittare, diceva, della conoscenza di entrambi.

Salvatore Vizzini, nonostante non vivesse con simpatia il comportamento del fratello, né quello presente né tanto meno quello passato, si lasciò abbindolare da quell’amico comune e perciò, ignaro delle reali intenzioni del Crimì, lo autorizzò a frequentare la propria casa.

Giacomo Crimì poté, dunque, incontrare assiduamente Rosa Carlino, alla quale non mancò mai di esternare le proprie attenzioni. Gradualmente passò a qualche piccolo regalo, l’accettazione del quale gli servì quale prova che la donna non disdegnava la sua presenza e quando si avvide che Rosa Carlino non rifiutava, se non del tutto formalmente, le sue appena abbozzate intenzioni, ritenne opportuno verificare fino a che punto fosse disposta ad arrivare Rosa Carlino intensificando ancor più la sua presenza in casa della donna.

A Salvatore Vizzini non era sfuggito il comportamento di Giacomo Crimì; tuttavia egli credeva realmente che l’amico fosse mosso dall’unico intento di ricucire il rapporto con Rosario.

Giacomo Crimì, furbescamente, era abile nel centellinare la verità e le bugie, in modo tale da perdere tempo, per dare respiro alle sue subdole iniziative. Per giustificare la mancata riuscita della sua opera di riconciliazione egli approfittò molto di Vanda Mileti, del suo personaggio e del suo modo di essere. Egli usava descriverla come una donna inadatta all’ambiente di Pietralunga e con la mente rivolta a Piazza di Spagna; perciò un obiettivo ostacolo all’incontro fra i due fratelli. Certo era vero che Vanda Mileti non era per nulla felice di frequentare il cognato, il quale non le era per nulla simpatico. Ella, inoltre, aveva ben chiaro come Salvatore avesse tanti rimproveri da muoverle.

Più realisticamente, comunque, Vanda Mileti snobbava il cognato e poco si interessava di quello che egli diceva della cognata. Aveva ben altro cui pensare, lei!

Invero era Rosario che non voleva frequentare il fratello, sapendo come fra loro esistessero profonde divergenze, un modo di agire radicalmente diverso e incompatibile. I loro rari incontri in casa della madre, infatti, erano sempre occasione per rinfocolare la diatriba e spesso terminavano in veri e propri litigi.

Giacomo Crimì, ovviamente, trovava assai comodo indicare in Vanda Mileti il freno alla sua iniziativa di riconciliazione fra i due fratelli e in ciò incontrava l’innocente assenso di Salvatore Vizzini e l’interessata approvazione da parte di Rosa Carlino, alla quale la cognata risultava insopportabile; nel mentre aumentava la simpatia che ella provava per il Crimì.

In precedenza, al tempo in cui per il figlio di Salvatore Vizzini, Giuseppe, era arrivato il momento di ricevere il sacramento del battesimo, Giacomo Crimì non aveva perso l’occasione per stringere ancor più i rapporti, proponendosi quale padrino del bambino e diventando, così, compare di Salvatore Vizzini e della moglie e avendo perciò una buona motivazione per intensificare le visite a casa loro.

Per intanto il rapporto fra i due coniugi si conduceva stancamente; con monotona ritualità Rosa Carlino continuava a rimproverare al marito le debolezze nei confronti della famiglia e la sua scarsa virilità, mentre quello, da parte sua, continuava a coltivare i suoi intimi problemi, il che lo portava spesso a lunghi silenzi e a forti sentimenti di inadeguatezza.

Salvatore Vizzini non si sentiva minimamente compreso dalla moglie, dalla quale, invece che ricevere affetto, otteneva rimbrotti pesanti e accuse profonde.

Spesso si era ritrovato a pensare che la madre aveva visto bene nell’indicare come errata la sua scelta coniugale e allora ripensava ad Amalia Barone: “Chissà, forse la mamma aveva ragione nel pensare che l’amore sarebbe nato con il tempo; in fondo anche lei non conosceva papà prima di sposarlo, eppure lo ha amato, nonostante i suoi tanti difetti”. E un minuto dopo ripensava: “Ma no! Non mi piaceva; quella donna somiglia più a un armadio che a una rappresentante del gentil sesso. Gentile era… ma no! Aveva spalle troppo grandi”. E poi: “Forse quell’altra ragazza, quella conosciuta in circostanze che nemmeno più ricordo, forse lei sarebbe stata meglio…”.

Ripensava alle poche donne che aveva conosciuto, assai superficialmente, in verità, ma poi si trovava davanti Rosa Carlino e la verità gli sbatteva in faccia violentemente.

Fortuna che il buon Dio gli aveva mandato il bambino; se non ci fosse stato lui la vita di Salvatore sarebbe stata molto povera.

Eppure persino quello era fonte di un’intima controversia, atroce nella drammaticità del dubbio: in alcuni momenti, infatti, egli vedeva nel figlio il superamento di tutti i suoi problemi, altre volte il piccolo ne era l’incarnazione più completa.

Egli quasi sempre riusciva a essere tenero con il figlio, ma in certi attimi diventava scontroso e indisponente, a seconda del corso dei suoi pensieri.

 

14

 

Giacomo Crimì aveva fra le sue poche occupazioni la passione per la caccia.

Nei periodi giusti dell’anno egli si levava di buon mattino e, armato di tutto punto, insieme a qualche amico e a una ciurma di cani, si recava nelle contrade dove sapeva di trovare una buona cacciagione.

Era tempo della caccia ai conigli quando Giacomo Crimì pensò che avrebbe fatto bene a invitare, per una volta almeno, il compare alla battuta di caccia.

Salvatore Vizzini non aveva mai amato la caccia, né aveva mai tenuto fra le mani un’arma; tuttavia egli accettò l’invito per  godere di un momento di rilassamento.

Questo almeno sperava.

Non sapeva che sarebbe andato incontro, invece, a un ennesimo dispiacere.

Giacomo Crimì, Salvatore Vizzini e i loro due amici si recarono di buon mattino nel posto prescelto e là sciolsero i cani. Non passò molto tempo che videro piroettare un buon coniglio e allora, ansiosamente, attesero di poter esplodere i colpi. Inutile dire che Salvatore Vizzini fece più che altro la mossa, mentre molto prima di lui sparò Giacomo Crimì, il quale, da buon cacciatore quale era, non mancò il colpo. I cani poterono così liberarsi nella corsa a chi arrivava per primo ad azzannare la preda e felici stavano riportandola ai loro padroni. Esperti com’erano, Giacomo Crimì e gli altri due suoi amici notarono due cani che, tornando dalla corsa, erano rimasti staccati dagli altri e dimostravano un’eccessiva stanchezza.

«Cos’hanno quelle due bestie?» chiese Crimì, rivolgendosi agli altri.

«Già, c’è qualcosa che non va» gli rispose uno di quelli, mentre l’altro assentiva, portandosi dubbiosamente la mano destra al mento.

«Che abbiano qualcosa?» propose Giacomo Crimì.

Così, mentre gli altri cani tornavano fieri della preda conquistata, gli uomini si avvicinarono ai due che avevano destato i loro sospetti.

Le due bestie erano di proprietà di uno dei due amici di Giacomo Crimì. Si trattava di due belle bestie da seguito, due cernecchi, ai quali gli uomini controllarono il volto e non sfuggì loro il diradarsi della peluria, insieme a qualche macchia alopecica nel resto del corpo.

Si guardarono in faccia e si compresero immediatamente:

«Si tratta di leishmaniosi» disse uno dei due amici del Crimì.

«È proprio così» confermarono gli altri.

«Povere bestie» sentenziò anzitempo Giacomo Crimì, pensando già a quello che c’era da fare.

I tre sapevano bene che quegli animali non avrebbero potuto più correre e grattare la terra come gli altri e che, anzi, correvano il rischio di infettare le altre bestie. Perciò, oltre che per evitare loro lunghe e inutili sofferenze, decisero di sopprimerli e qui successe il fattaccio per Salvatore Vizzini.

«Scommetto che non saresti capace di ammazzarli» disse Giacomo Crimì, rivolgendosi verso il compare. «Anche per ammazzare due cani ci vuole fegato» aggiunse immediatamente dopo.

Non furono tanto le parole a ferire Salvatore Vizzini, quanto la mimica che le accompagnò. Nell’esprimere quelle frasi, infatti, Giacomo Crimì alzò le palpebre spalancando i globi oculari, mimando così un’espressione di terrore, evidentemente riferita al destinatario del messaggio, espressione che fu ridicolizzata dal beffardo sorrisetto finale.

Salvatore Vizzini intese il senso di sfida, ma si trovò del tutto impreparato di fronte a esso. Intanto non immaginava di dover subire l’attacco di cui era oggetto e poi giusto quel mattino egli aveva abbracciato per la prima volta un fucile. In ogni caso egli non avrebbe mai pensato di dover ammazzare una mosca, figurarsi quelle due povere bestie malate.

Giacomo Crimì, invece, si era espresso in quel modo proprio perché conosceva bene il carattere di Salvatore Vizzini e volle metterlo in berlina, profittando della presenza degli altri due amici, i quali non erano certo disposti a esaltare uno che aveva paura di sparare a due animali.

L’imbarazzo di Salvatore Vizzini era, dunque, evidente. Velocemente gli si presentarono innanzi tutti i fantasmi del passato: la scarsa considerazione di cui godeva da parte del padre, l’accusa di scarso coraggio e virilità, l’impotenza, i dubbi della moglie… Non gli rimase altro che abbracciare il fucile e sparare. Lo fece il più rapidamente possibile, con gli occhi chiusi e con la fronte aggrottata e solcata da freddo sudore. Premette il grilletto più per sparare ai fantasmi che gli si erano parati davanti che per eliminare i due cani malati e se da un lato riuscì a evitare la sofferenza dei due animali, dall’altro non riuscì a liberarsi dalle ossessioni abilmente mossegli dentro da Giacomo Crimì.

Così iniziò un nuovo calvario per Salvatore Vizzini, il quale rientrò a casa ancora scosso dalla iniqua provocazione e avendo nel volto disegnata la sofferenza.

Rosa Carlino se ne avvide e timidamente chiese:

«Qualcosa non va?».

«Nulla… nulla…» le rispose il marito, quasi sbrigandosi a dare una qualche risposta.

«Ti preparo qualcosa?» replicò la moglie.

«No. Preferisco andare a riposare» disse Salvatore Vizzini.

Rosa Carlino era certa che qualcosa fosse successo, ma il cattivo rapporto con il marito non la sollecitò ad approfondire l’argomento.

Per lei la cosa finì là, mentre così non fu per il marito, il quale quella sera se ne rimase disteso a letto, teso e nervoso, come un elastico tirato al massimo.

Successe tutto in un attimo.

Per una piccolissima frazione di tempo si era presentata a Salvatore Vizzini l’immagine di Giacomo Crimì, seduto a casa sua, mentre consumava il caffè del pomeriggio insieme alla moglie; quella scena, che egli aveva realmente osservato il pomeriggio precedente, fece aprire le cateratte della sua vulcanica passionalità, quasi avesse trovato la spiegazione a tutto quanto era successo.

Emise un urlo felino e si avventò contro la moglie, portandole le mani al collo; le strinse tanto, sin quasi a soffocarla, mentre continuava a eruttare strani suoni, striduli e intensi, che forse avrebbero dovuto essere delle parole, che tuttavia rimanevano inespresse.

Rosa Carlino arrivò a bussare alle porte della morte, ma per sua fortuna non le aprirono e, seppur terrorizzata dal volto del marito stampato davanti ai suoi occhi, ella si accorse che le rimaneva ancora del tempo da vivere.

Appena poté riprendersi fuggì velocemente dalla stanza da letto, urlando:

«Pazzo… pazzo… assassino!».

Afferrò il primo abito che trovò e in un attimo fu per strada. Qui, al buio, Rosa Carlino scoprì la sua tremenda solitudine a Pietralunga: rimase, infatti, ferma per un attimo dinanzi alla porta della sua abitazione, indecisa su quale direzione dare alla fuga. Poi, seguendo l’istinto più che la ragione, se la diede a gambe verso l’abitazione di una sua conoscente.

Non c’era altro posto dove andare.

Per un istante pensò di andare dai carabinieri, ma poi, chissà per quale imperscrutabile ragione, sentì dentro di sé una forza contraria a quella decisione e corse verso la casa della conoscente.

Non c’era nessun motivo, in verità, perché Rosa Carlino se la desse a gambe levate; Salvatore Vizzini, infatti, fuori di sé e spossato come se avesse compiuto una delle fatiche di Ercole, si era lasciato andare sul letto, senza avere più la forza di muoversi.

Non pensava a nulla.

Solo due volti si alternavano instancabilmente davanti a lui, senza posa: erano i volti del figlio Giuseppe e quello della madre, donna Concetta Altavista.

L’alternarsi dei due visi era come una sorta di ossessivo tic-tac, come se qualcuno si divertisse a proiettare, con una diabolica macchinetta, quei due flash, premendo un immaginario pulsante.

La fantasia di Salvatore Vizzini era andata a cogliere nel serbatoio dei suoi ricordi le immagini delle due uniche persone verso le quali egli aveva provato amore. Poté comprenderlo più tardi, quando gli fu permesso di tornare a utilizzare l’intelletto, prima oscurato dall’emotività. Ebbe allora una precisa conferma: egli non amava sua moglie!

Si pentì persino del suo insano gesto:

«In fondo cosa m’importa di mia moglie?» chiese a se stesso.

È probabile che il suo gesto istintivo avesse il significato di un estremo tentativo di autoconvincersi che la moglie contasse ancora qualcosa per lui, l’ultimo disperato tentativo, dopo il quale la sentenza definitiva.

«Ma che m’importa di lei? Faccia pure quello che vuole…» sussurrava.

Gli rimaneva, intanto, la necessità di trovare una giustificazione per quello che aveva fatto. Temeva, infatti, che la moglie potesse essere andata a denunziarlo e che da lì a poco sarebbero venuti ad ammanettarlo.

Aveva preso una decisione: avrebbe detto di non ricordare nulla del fatto, simulando uno stato di trance. L’avrebbero preso per matto, così come gli aveva urlato la moglie? Be’! Avrebbe potuto poi dimostrare che non lo era.

L’attesa dei suoi carcerieri, in ogni caso, fu vana; Rosa Carlino, come sappiamo, aveva rinunziato, infatti, a sporgere denunzia del fatto. Ella si limitò a dire alla sua amica che aveva avuto una lite con il marito e che, per evitare scenate, aveva preferito uscire di casa. Il giorno dopo, non potendo giustificare la sua ulteriore permanenza e spinta dalla voglia di rivedere il figlio, Rosa Carlino fece ritorno nella sua dimora.

Salvatore Vizzini si comportò come se nulla fosse accaduto la sera precedente, ma fra marito e moglie si approfondì il baratro che li divideva.

A casa di Rosario Vizzini le cose non andavano meglio, pur  se il conflitto fra l’uomo e Vanda Mileti era meno carico di tensioni esplosive; quei due erano troppo simili fra loro per non comprendersi.

Se Rosario Vizzini aveva i difetti che ben conosciamo, Vanda Mileti, sin dal ritorno da Roma, aveva imparato a mettere in evidenza i suoi. Anche lei amava la bella vita: i lussi, le avventure, i divertimenti e, infine, anche a lei piaceva cercare le evasioni. Si può dire, anzi, che Vanda Mileti era ancor più consolidata in queste abitudini rispetto al marito, considerato che lei quel genere di vita lo aveva condotto da sempre, mentre Rosario Vizzini lo aveva scoperto solo quando il destino lo aveva portato a Roma.

Per certi versi il loro trasferimento a Pietralunga aveva accentuato, anziché lenirle, le esigenze di vita mondana che adesso entrambi vivevano ancor più intensamente.

D’altronde si sa che di fronte a una tavola imbandita si avverte meno appetito che di fronte a una tavola spoglia, almeno quando si è abituati a mangiare bene.

Così Vanda Mileti non faceva altro che chiedere al marito che le arricchisse il guardaroba, i suoi monili, che accettasse le sue frequentissime presenze in parrucchieria e le richieste di vacanze spensierate e felici.

Da parte sua, Rosario Vizzini, al quale questo modo di vivere piaceva in pari misura, faceva di tutto per accontentarla, anche perché così si assicurava un silenzio protettivo sulle sue avventure e disavventure.

Intanto le rendite erano visibilmente diminuite; le spese che essi sostenevano erano veramente elevate e inoltre si era ridotta la potenzialità delle rendite, anche a causa della cessione delle terre ai parenti dell’ultima fiamma che aveva avvolto l’anima di Rosario Vizzini.

A Vanda Mileti avevano spiegato che il motivo della cessione era stata determinata da necessità economiche del defunto don Giuseppe Vizzini. Ella non se n’era del tutto convinta, tuttavia aveva fatto orecchie da mercante. Ella non aveva modificato la propria visione delle cose: pensava solamente a quello che le serviva e a null’altro. Ritenendo che la suocera avesse tenuto per sé molto di più di quanto le avessero detto, spesso mandava il marito a chiedere integrazioni economiche a donna Concetta Altavista.

Rosario Vizzini conosceva bene la situazione economica della madre, ma era ugualmente accondiscendente alle richieste della moglie poiché egli per primo aveva sempre bisogno di soldi, molti soldi. Accontentare le proprie necessità economiche, oltre quelle della moglie, era, in effetti, molto difficile; pertanto i due non facevano altro che chiedere aiuto ai propri parenti, quelli di Pietralunga e quelli di Roma.

Donna Concetta Altavista, però, era rimasta solo con la sua modesta rendita fondiaria e con la sua vecchia casa, la cui maggiore ricchezza consisteva, ormai, nell’essere una tappa obbligata della processione della Madonna delle Grazie. La casa aveva subito, infatti, un lento ma continuo degrado che era testimoniato dalla miseria del giardino, dallo sgretolamento dei muri, dalle macchie d’umidità che si affacciavano qua e là. Donna Concetta Altavista non era più in grado, d’altronde, di fare fronte alle spese necessarie a mantenere il decoro della casa e ciò rappresentava per lei motivo di profondo rammarico.

Poco poteva fare, dunque, per soddisfare le esigenze economiche del figlio Rosario, né quest’ultimo faceva niente per ridurle da sé. Egli, infatti, continuava a giocare, e spesso a perdere, e a disinteressarsi della lavorazione delle terre, al miglioramento dei campi, all’adeguamento della produzione, alle richieste di mercato. Rosario Vizzini s’interessava della terra solo quando c’era da raccogliere.

Né egli aveva perso il vizio di corteggiare qualsiasi donna che lo guardasse per un attimo negli occhi, dimenticandosi ogni volta di tutti gli errori commessi in passato. Recentemente aveva trovato una nuova tela da tessere e pazientemente, con il solito vivo desiderio, si era messo all’opera.

Aveva conosciuto una nobildonna catanese, rimasta vedova molto giovane, la quale conservava dal tutto intatta la sua giovanile bellezza, accentuata da un particolare fascino, sostenuto da uno smagliante sorriso, bianchissimo, e quindi splendidamente contrastante con la carnagione scura e i profondi occhi verdi della donna. Dopo una felice adolescenza, Tina Corrieri aveva sposato un uomo che il destino volle subito portarle via, meno di sei mesi dopo il matrimonio. Per due o tre anni la donna, sconvolta dal dolore, aveva rinunziato a gustare la vita e si era chiusa in un isolamento totale. Aveva cominciato a riaffacciarsi alla finestra della vita da poco tempo, quando conobbe quel fine addomesticatore d’animi femminili che era Rosario Vizzini.

Non parve vero a quest’ultimo di poter riesumare la propria identità, per qualche tempo tenuta a freno, e dunque di buttarsi in quella che prometteva essere una piacevole avventura, anche perché sapeva che Tina Corrieri navigava in una confortevole situazione economica, così contrastante con la sua. Questa considerazione, comunque, fu secondaria rispetto alla capacità d’eccitazione che esercitava lo splendido fascino della donna su Rosario Vizzini.

Non erano mancati a Tina Corrieri chiari segnali da parte degli uomini più in vista della città, ma sino a quel momento la giovane vedova aveva rinunziato, senza sacrificio alcuno, alle gentili e interessate disponibilità. Evidentemente ci voleva uno come Rosario Vizzini per scassinare il suo cuore.

Tra i due nacque una spontanea intesa, che si concluse in una relazione che assunse per ambedue la caratteristica della stabilità, cosa assai sorprendente, in verità, per Rosario Vizzini; ma, si sa, certe situazioni della vita cambiano anche i caratteri più ferrei!

Rosario Vizzini, perciò, spesso si allontanava da Pietrelunga.

«Vado a Catania; ho da sbrigare degli affari» diceva alla moglie.

Vanda Mileti non si poneva la questione del tipo di affari che il marito andava a spicciare a Catania; ella, però, pensava che Rosario avesse trovato una bisca interessante da frequentare e che andava là a scialare i pochi soldi che gli restavano. Non usava, dunque, rimproverarlo: condivideva, anzi, l’anelito di libertà del marito e sentiva rinfocolare il suo amore per quel genere di cose. Così pensava, almeno fino a quando non le arrivarono alle orecchie le prime dicerie sui frequenti spostamenti del marito, alle quali ebbe, certo, una reazione d’ira, ma breve. L’importante per lei era che il marito la accontentasse nelle sue richieste di eleganza e di lusso; per il resto facesse pure ciò che voleva!

Il furbo di Rosario Vizzini, giusto in quel periodo, aumentò i regali e i pensierini gentili per la moglie e così tornava spesso da Catania con le mani piene.

«Ecco il frutto dei miei affari!» diceva compiaciuto alla moglie e quella, fingendosi ignara, ricambiava con un sorriso.

Che Tina Corrieri fosse una facoltosa vedova Rosario Vizzini lo sapeva sin dal momento che gli balenò nella mente l’idea di corteggiarla; solo in seguito ebbe a scoprire che la donna, oltre che ricca di denaro, era ricca d’animo.

Al solito, Rosario Vizzini fece ricorso alle sue diavolerie dialettiche e si propose vittima di tante disgrazie e di mille misfatti, per giustificare il suo bisogno economico.

«Presto, comunque, tutto tornerà come prima» diceva sicuro di sé a Tina Corrieri.

Come tante altre donne prima di lei la giovane vedova credeva ciecamente alle parole di Rosario Vizzini, verso il quale dimostrava totale fiducia. Lo riempiva di piccoli regali e gli consegnava, a titolo di prestito gli diceva, le somme di denaro occorrenti affinché egli provvedesse alle sue necessità.

«Sono certa che presto me le renderai» diceva Tina Corrieri, volendo così comunicargli la sua piena disponibilità ed essendo attenta che Rosario Vizzini non vivesse le sue concessioni come delle sconfitte.

Naturalmente Rosario Vizzini non provava per nulla simili sensazioni… Egli si esaltava per l’amore che Tina gli mostrava e non faceva particolari esami del loro rapporto; a lui andava bene così com’era e basta. L’affetto di una donna così bella e sensibile gli rese possibile vivere un periodo di gran felicità e serenità che non lasciava presagire alcuna foschia in un orizzonte tanto luminoso.

A volte, tuttavia, capita di dover pagare il fio di certe disavventure con la stessa moneta.

Era proprio scritto che Rosario Vizzini conoscesse le stesse pene che sino allora aveva fatto vivere agli altri.

Arrivò, infatti, alle sue orecchie una voce che lo avvertiva che la moglie aveva certe simpatie nei confronti di uno dei suoi amici, guarda caso uno di quei due che assistettero alla provocazione rivolta a Salvatore Vizzini durante la battuta di caccia. La reazione di Rosario Vizzini fu molto diversa da quella che ebbe la moglie nelle circostanze inverse. Egli la riempì d’improperi e la minacciò di tutto quello che una lingua sciolta può dire, senza limitazione alcuna. Ma chi ha viva la colpa dentro di sé non può permettersi a lungo di sostenere l’accusa verso gli altri. Non passò molto tempo, perciò, che Rosario Vizzini si accontentò di sentirsi dire dalla moglie che quelle voci erano false, che lei non avrebbe mai fatto turpitudini simili e così via.

Anch’egli, per suo conto, procedeva nell’abitudine di dire bufale: «Domani vado a Catania per i soliti affari…» diceva alla moglie e quest’ultima faceva finta di credergli.

Quando poi Rosario Vizzini tornava da Catania, magari con il solito regalo fra le mani, chiedeva alla moglie se per caso avesse incontrato l’amico di cui entrambi sapevano.

«Di cosa parli?» lo rassicurava la moglie, che pure qualche ora prima aveva veramente incontrato quell’uomo.

Si accontentavano entrambi della finzione, mentre le loro realtà procedevano senza che l’una contrastasse l’altra.

Tanta falsa tranquillità, invece, non era di casa da Salvatore Vizzini. Il rapporto fra questi e Rosa Carlino procedeva stancamente, ma si era molto inasprito dopo la paurosa crisi notturna durante la quale Salvatore Vizzini aveva rischiato di uccidere la moglie. Egli era nuovamente rimasto impaniato nelle sue ormai periodiche perturbazioni interiori, fatte di pensieri ossessivi e ripetitivi, sempre pronte a esplodere, anche minacciosamente, al primo schiocco di scintilla. Non vi era momento in cui egli non si struggeva, a casa o in ufficio o durante le ore libere. Aveva persino ripreso l’antica abitudine di allontanarsi da solo per andare a chiedere riposo alla rilassante ombra di un vecchio albero, sotto il quale se ne stava per ore e ore a speculare. Da giovane sapeva che al ritorno avrebbe trovato certamente sua madre, donna Concetta Altavista, ad attenderlo; adesso era altrettanto certo che solo si allontanava e solo si sarebbe ritrovato al suo ritorno.

Per fortuna, qualche volta trovava il figlio Giuseppe pronto a salutarlo festosamente e a rompere così il grigiore della sua mente.

La moglie, invece, ormai completamente delusa dal suo matrimonio, aveva continuato a cercare consolazione negli altri uomini, in particolare in Giacomo Crimì.

Quest’ultimo, assai interessatamente, aveva continuato a frequentare la casa del compare, trovando ogni volta una motivazione opportuna per farlo. Egli inventava incontri con Rosario, lunghe discussioni e appuntamenti mancati: tutti suoi notevoli sforzi tesi a riportare la pace tra i due fratelli. Capitava sovente che i due compari s’incontrassero nella casa di Salvatore Vizzini e talvolta era quest’ultimo ad arrivare dopo.

Appena il compare entrava, Giacomo Crimì diceva d’essere appena arrivato e che aveva avuto solo il tempo di sedersi per annunziare le ultime novità a Rosa Carlino. Si preoccupava, dunque, di non creare sospetti all’amico e di non stimolarne negative reazioni.

Per lungo tempo Salvatore Vizzini credette al sincero impegno di Giacomo Crimì per la rappacificazione con il fratello Rosario e nulla gli faceva pensare che il compare, in verità, fosse interessato unicamente a incontrare Rosa Carlino e a null’altro.

Un giorno, però, successe che il segreto venne svelato.

Rientrando a casa dopo la solita faticosa giornata di lavoro in ufficio, Salvatore Vizzini pose al solito posto la sua giacca e si apprestava a entrare in cucina, come faceva d’abitudine. I suoi rumori erano coperti dalla radio che suonava e, dunque, la sua presenza non fu avvertita. Egli poté così osservare quello che non avrebbe mai voluto: aperta la porta della cucina vide Rosa Carlino abbracciata a Giacomo Crimì, teneramente. È quasi inutile dire come quella scena ebbe il valore di una miccia accesa in un barile di polvere da sparo: l’ira di Salvatore Vizzini fu davvero grande.

Giacomo Crimì fu lesto a scappare via e, dunque, la rabbia del marito offeso poté scatenarsi solo sulla moglie. Rosa Carlino fu addirittura bastonata e riuscì a evitare il peggio solamente rinchiudendosi in una camera, da dove riuscì a fuggire solo dopo qualche ora, profittando di un momento di distrazione del marito.

Prima, di fronte all’infuriato Salvatore Vizzini, Rosa Carlino aveva provato a sostenere la sua innocenza:

«È stato solo un momento di sconforto… fra me e lui non c’è niente…».

Quelle parole, tuttavia, non avevano per nulla frenato la reazione del marito.

«Stavo solo confidandogli la disperazione della mia condizione… avevo bisogno di qualcuno con cui sfogarmi».

Niente, non serviva a niente!

In quei momenti Salvatore Vlzzini era solo un corpo che si muoveva, come se la sua mente fosse stata offuscata; non rifletteva più, agiva impulsivamente e basta. Egli si placò solamente dopo qualche giorno, con l’aiuto, fra l’altro, di medicinali.

Ritrovatasi ancora sola e fuori di casa, a differenza della volta precedente, Rosa Carlino decise di andare dai suoi parenti; pensava che solo lì sarebbe stata compresa.

E così fu.

Intanto la notizia aveva passato le mura della casa ed era divenuta di pubblico dominio.

Dappertutto Salvatore Vizzini si sentiva additato e giudicato, ma fu in ufficio che egli dovette sopportare il massimo della umiliazione. In quei tristi giorni egli non poté permettersi, come solitamente faceva, di continuare a guardare il suo capo ufficio dall’alto in basso, né di rinfacciargli le sue nobili origini in contrasto con la più umile provenienza di quello.

«Come va, signor Vizzini?» gli chiedeva ogni mattina il capo ufficio. Gli si leggeva negli occhi un beffardo sentimento di disprezzo, un sentimento che feriva mortalmente Salvatore Vizzini. Dopo qualche giorno di sopportazione, un mattino questo ultimo scoppiò, ancora una volta.

«Si faccia gli affari suoi!» rispose scattando in piedi come una molla alla solita domanda, solo in apparenza innocente, del capo ufficio.

«Le stavo chiedendo solamente come va» replicò quello.

«Guardi come va a casa sua!» rispose seccamente Salvatore Vizzini.

«Perché, a casa Vizzini qualcosa non va? Forse c’è qualche problema per il discendente degli Altavista?» controbatté quello, stavolta neanche cercando di celare i suoi intendimenti offensivi. Ne nacque una baruffa verbale, nella quale ciascuno dei due rimproverò all’altro tutti i difetti che gli riconosceva.

Ma non fu solo con la gente che Salvatore Vizzini si trovò in difficoltà. Anche a casa sua, infatti, visse momenti di grande disagio. Egli era del tutto disabituato a badare a se stesso, alle necessità del figlio, al mantenimento della casa, a darsi una decente alimentazione. Né la madre poté fare molto per lui.

Donna Concetta Altavista cominciava ad accusare il peso degli anni e, soprattutto, la fatica di una vita che negli ultimi decenni non le aveva fatto vivere che dispiaceri. Spesso, perciò, si ritrovava a letto, stanca e prostrata. Cominciava a vacillarle la memoria e le venivano a mancare man mano le forze.

Salvatore Vizzini non poté, dunque, godere dell’appoggio della madre e si ritrovò solo ad aver cura di sé e del figlio.

Gli mancava del tutto la serie di servigi che la presenza in casa della moglie gli assicurava e fu soprattutto per questo che si decise a recitare la parte del pentito. Mise da parte la dottanza e si recò a trovare la moglie; fece finta di credere alle parole che Rosa Carlino gli aveva urlato durante l’eruzione della sua ira, vale a dire che ella aveva avuto solo un attimo di smarrimento, dovuto al bisogno d’avere qualcuno con cui parlare dei suoi problemi e le sue angosce e, soprattutto, che fra lei e Giacomo Crimì non c’era stato niente,

all’infuori di quello che lui aveva visto. Salvatore Vizzini le disse che credeva a tutto, le chiese scusa e le domandò di fare ritorno a casa al più presto.

Memore delle tante volte in cui, in precedenza, il marito aveva promesso mutamenti del suo comportamento non facendo corrispondere poi la realtà al proposito, Rosa Carlino solo dopo qualche attimo d’esitazione accettò la richiesta, ma pose una condizione, assai pesante, al marito:

«A condizione che noi si viva non come marito e moglie, ma come fratello e sorella».

Era evidente che ella accettava di tornare con il marito non per recitare il suo naturale ruolo di moglie, bensì solamente per mettere le cose a posto, almeno in apparenza, e solo per il bene del figlio.

«Va bene» le rispose il marito, magari convinto che la risposta di quel momento non lo avrebbe impegnato per il futuro.

Così Rosa Carlino fece ritorno a casa dove il figlio poté felicemente riabbracciarla. La donna si era posta il problema dell’onorabilità, sua e del figlio Giuseppe e solo per questo aveva deciso di fare ritorno a Pietralunga. Non aveva pensato ad altro: “Cosa potrebbe dire la gente? Quali sofferenze regalerà il futuro a mio figlio?”. Tali riflessioni la portarono alla convinzione che una pace formale fosse da preferire a qualsiasi altra soluzione. Tuttavia, durante i giorni trascorsi lontano dal marito ella aveva scoperto come dentro di lei non c’era più un brandello d’amore per quell’uomo, che non sentiva più niente per lui; perciò pose quella durissima condizione. Sentiva di non potergli dare di più, null’altro di sé; accettava solamente di servirlo e accudirlo, nient’altro. Solo a questa condizione Salvatore Vizzini poté riavere l’ordine a casa sua, mangiare decentemente e trovare la biancheria linda nei cassetti.

Particolarmente felice per quel ritorno fu donna Concetta Altavista e fu forse uno degli ultimi sorrisi che seppe disegnare sulle sue labbra. Il suo decadimento psicofisico, infatti, procedeva inesorabilmente e ormai era scarsamente in grado di autoprovvedersi; talvolta arrivava persino a sbagliare la stanza dove entrare e inoltre riusciva a lavarsi con difficoltà; addirittura qualche volta tralasciava di farlo.

In poche parole non era più in grado di stare da sola e necessitava dell’aiuto di qualcuno.

Resosi conto di ciò, Salvatore Vizzini propose immediatamente che la madre andasse ad abitare presso i figli, periodicamente presso l’uno e l’altro, ma questo suo progetto fu osteggiato dalla moglie e anche quella del fratello Rosario.

Rosa Carlino rifiutò categoricamente l’idea di avere nella propria casa colei che rappresentava la famiglia che le aveva fatto vivere un così profondo senso di inferiorità, che le aveva soffocato il desiderio di emergere e che le aveva ferito mortalmente l’orgoglio. Ella viveva l’eventualità di assistere la suocera come una sorta di riconoscimento di una presupposta inferiorità, ancor più rilevabile considerando che Vanda Mileti rifiutò, quasi sdegnata, l’idea di assistere la suocera in casa propria. Se Rosa Carlino avesse accettato di ricevere donna Concetta Altavista in casa propria, per ciò stesso avrebbe sancito la propria inferiorità rispetto alla cognata.

«Se Vanda Mileti non intende assistere tua madre, allora neanche io lo voglio! Non sono certamente da meno io…» così Rosa Carlino aveva sentenziato al marito. «Non siete forse fratelli, tu e Rosario? Allora perché non dovete avere gli stessi obblighi?».

«La verità è che tu odi mia madre. Non c’entra niente Vanda; se tu volessi bene a tua suocera non ti importerebbe nulla di quello che fa tua cognata» replicava Salvatore Vizzini.

Egli non aveva torto nel cogliere nella moglie un personale rifiuto nei confronti di donna Concetta Altavista e perciò gli sembrava falso ogni riferimento all’atteggiamento di Vanda Mileti. Era pur vero, lo stesso, che Rosa Carlino non voleva apparire da meno in nulla rispetto alla cognata. All’inizio Salvatore Vizzini pensò che alla fine la cosa si sarebbe risolta, sia che la madre andasse in casa dell’una o dell’altra delle due nuore o da tutte e due.

Per intanto era personalmente lui a curarsi affinché la madre non rimanesse sola e che non le mancasse il necessario. Egli si recava da lei non appena aveva un momento di tempo libero da impegni e quasi non vedeva l’ora di uscire dall’ufficio per recarsi da donna Concetta e la sera non andava a letto senza avere messo prima a riposo la madre.

Quest’opera assistenziale gli rubava molto del suo tempo libero, tanto che poco gliene restava da dedicare alla propria famiglia.

«Pensi più a tua madre che a noi» gli rimproverava spesso la moglie.

«Ma voi non avete bisogno di me!» replicava Salvatore Vizzini. «Forse nostro figlio ha meno bisogno di te che tua madre?» controbatteva Rosa Carlino.

Ed era sempre motivo dell’ennesima querelle fra i due.

Salvatore Vizzini, in ogni caso, viveva dentro di sé un imponente obbligo morale a impegnarsi per sua madre e, dunque, non dava seguito ai rimproveri della moglie.

Tentò, anzi, di convincere il fratello Rosario affinché facesse cambiare la decisione della moglie, in modo tale che ambedue le nuore accettassero di accudire la suocera, ma dovette scoprire, con amara sorpresa, che, oltre Vanda Mileti, il fratello Rosario in persona rifiutava l’ipotesi, opponendo mille e mille motivi a giustificazione della negazione.

«Non posso… non ne avrei il tempo… non ne ho la pazienza… come reagirebbe Iride?».

Queste erano alcune delle motivazioni contro cui dovette imbattersi Salvatore Vizzini, ma esse erano, in verità, solo finzioni.

Il fratello, infatti, era tanto preso dalle sue cose da non avere il tempo, né lo spazio nella mente, per provvedere a quell’obbligo. Rosario Vizzini era tutto preso dal rapporto con Tina Corrieri, presso la quale trascorreva giorni e giorni, con il pretesto dei suoi affari catanesi; inoltre egli aveva ripreso a giocare e nella grande città aveva potuto riscoprire gli ambienti da lui tanto amati, a suo tempo, nella città capitolina. Il gioco era nuovamente diventato la sua più grande goduria e ogni distrazione da esso era vissuta come dolente; tuttavia egli non poteva dire queste cose al fratello e perciò continuava a dire:

«Non so come potrei fare… non mi pare possibile… mi dispiace, ma… Salvatore Vizzini si trovava come di fronte a un muro. Sdegnato dall’atteggiamento del fratello, egli si provò nell’impegnativo compito di riparlarne nuovamente alla cognata, di persona; ma anche questo tentativo si rivelò fallimentare, così come egli era, d’altronde, certo sin dell’inizio.

Vanda Mileti già a mala pena sopportava di adempiere ai suoi compiti di moglie e di madre, figurarsi se mai pensava di provvedere alla suocera. Lei era abituata a essere servita, e come si deve. Nella casa dei genitori c’era sempre stato qualcuno pronto a rimediare tutto, a risolvere i problemi quotidiani e anche quelli più complessi e ciò l’aveva disabituata, infatti, all’idea di dovere essere lei a servire gli altri.

Vanda Mileti aveva già compiuto un grosso sforzo riuscendo ad adeguarsi a una dimensione esistenziale tanto diversa: sposando Rosario Vizzini e trasferendosi a Pietralunga il suo modo di vivere si era come rimpicciolito, pressoché oscurato.

Suppliva a questo ridimensionamento con l’ostentazione di eleganza, di classe, cercando di curare in maniera ossessiva ogni aspetto della sua persona e tendendo ad apparire inappuntabile sotto ogni aspetto, in quell’ambiente che ella considerava inferiore, molto distante da quello di sua appartenenza.

La aiutava molto la simpatia, per così dire, della quale godeva  come donna, essendo molti, infatti, gli uomini affascinati da lei, dal suo modo di fare e di essere.

Pure lei, come sappiamo, aveva coltivato una simpatia per un amico del marito, Filippo Roccaro, un giovane bello e aitante, che pareva racchiudere in sé tutti i segni della bellezza maschile meridionale: occhi vivi, pelle scura, baffetti sempre in ordine, pronto alla venerazione della bellezza femminile.

Vanda Mileti sembrava come saziarsi di quell’amicizia, ma, soprattutto, della dichiarata subordinazione di quell’uomo.

Filippo Roccaro, insomma, le faceva dimenticare le difficoltà legate alla permanenza a Pietralunga, gli affari catanesi del marito e la lontananza dalla sua facoltosa famiglia.

Anche per questo era lontana da lei l’idea di mettere in casa la suocera per assisterla; non lo avrebbe mai fatto, insomma.

Se ne rese perfettamente conto Salvatore Vizzini, il quale si trovò, dunque, completamente solo nella sua crociata in favore della madre.

Donna Concetta Altavista, intanto, cercava sempre di consolare il figlio, di lenirne le pene:

«Non crucciarti per me, figliolo. Abbi riguardo di tuo fratello, di tua moglie e di tuo figlio; a me basta che venga a trovarmi tu, è sufficiente che mi sistemi un po’…».

Il figlio le stringeva le mani e poggiava il suo capo sulle ginocchia di lei, quasi che volesse realizzare un nuovo rapporto ancestrale. Non gli sfuggiva, in ogni modo, che le condizioni della madre si facevano di giorno in giorno più serie; diminuiva, infatti, sempre più la capacità di provvedere a se stessa e aumentava, in conseguenza, la necessità che qualcuno si occupasse di lei costantemente.

Era proprio penoso vederla in quello stato, ripensando allo splendore della donna nei suoi tempi d’oro!

Intanto urgeva prendere una decisione e Salvatore Vizzini era l’unico a rendersene pienamente  conto.

Provò a riparlarne ancora una volta con i suoi familiari, ma ottenne la solita risposta.

Con la moglie ebbe una nuova, furibonda, lite: «Scegli! O me o tua madre!» gli disse, estremamente decisa, la moglie, sbuffando tutta la sua antica stizza contro donna Concetta Altavista e don Giuseppe Vizzini e dimostrando quanto irremovibile fosse nella sua opposizione.

Fu dopo quell’ennesima lite che Salvatore Vizzini si convinse che non esisteva altra soluzione se non quella che mai avrebbe pensato prima.

Fu un vero e proprio calvario il viaggio che lo portò all’amara conclusione. Egli sapeva bene, infatti, quale sarebbe stata la reazione della madre, la profonda sensazione di sconfitta che ella avrebbe vissuto per l’indecorosa fine di chi tanto aveva saputo dare agli altri nel corso di tutta la sua vita.

Non c’era altro da fare, comunque, visto che nessuno voleva prendersi cura di donna Concetta Altavista, perciò, tra una lacrima e un’espressione di grande sofferenza, Salvatore Vizzini si fece forza ed espose l’ipotesi alla madre.

Il colloquio avvenne in un’atmosfera di dolore, di profonda  commozione. Il figlio tremava di fronte alla madre, la quale aveva intuito che egli doveva darle una triste notizia. Con voce tremula e scusandosi, chiedendo perdono per quello che andava a dire, Salvatore Vizzini propose alla madre che ella andasse a vivere in un ospizio per anziani.

«Lasciate che finisca i miei giorni nella mia casa!» implorò donna Concetta Altavista, piangendo, non appena il figlio si fermò in silenzio.

La reazione della madre mandò in lacrime il figlio, ma ciò non poté cambiare i termini della questione.

«Non c’è altra soluzione…» riuscì a dire, singhiozzando, Salvatore Vizzini. «Non c’è altra soluzione…».

L’accorata richiesta della madre non poteva trovare una risposta positiva nel figlio, il quale, infatti, le aveva provate proprio tutte, ma non aveva trovato una soluzione diversa da quella che ora le proponeva. Né egli volle dichiarare tutta la verità alla madre, per non addolorarla ulteriormente, per non farle sentire l’onta del rifiuto delle nuore e del figlio stesso di accasarsela.

L’appello di donna Concetta, insomma, cadde nel vuoto e, di conseguenza, ella dovette vivere la più gran delusione della sua vita: andare via da casa sua, da quella che da sempre era stata la sua casa! Con la pena dentro al cuore guardava il figlio che le preparava i bagagli e, profondamente umiliata, in compagnia di poche valigie, lungo il tragitto se ne stette in silenzio, lo sguardo fisso verso il vuoto, silente. Ripensava a tutta la sua vita: alla nonna, in particolare, a lei che le aveva insegnato tanto durante i tanti pomeriggi trascorsi insieme, a lei che aveva avuto la fortuna di morire in casa sua. Pensava ai genitori e a Don Giuseppe, il marito; ne raccoglieva le assenze e rapportava l’allontanamento dalla propria casa al distacco dalla vita, come se stesse facendo un viaggio per ricongiungersi a quelle care figure. Pensava a quella che era stata la famiglia dei propri genitori, a quella che avrebbe voluto che fosse la sua e a quello che invece era.

Ed era una triste considerazione.

Appena un po’ la consolava l’enorme affetto che le dimostrava il figlio Salvatore, ma non poteva fare a meno di pensare anche al resto.

Fu così che un mattino donna Concetta Altavista non poté più ammirare il paesaggio che, immutabile, aveva ammirato per lunghi anni.

«Non  c’era altra soluzione» continuava a ripetere Salvatore Vizzini, ripetendolo più che altro a se stesso, quasi volendosi scusare delle sofferenze della madre. Nei mesi a venire non le fece mancare mai la sua presenza e il suo calore. Amava portarle un poco di tutto quello che egli consumava del suo pasto, quasi per farla sentire presente nella tavola imbandita. Se ne stava a parlare con lei per lungo tempo, anche quando non fu più possibile per donna Concetta Altavista comprenderlo pienamente.

Al contrario Rosario Vizzini non andava mai a fare visita alla madre. Si giustificava con la sua lunga serie d’impegni, che a suo dire lo bloccavano continuamente a casa e, in verità, egli quasi si convinceva che ciò fosse vero; solo così poteva continuare a ripetere ostinatamente quelle falsità.

“Ci andrò alla fine di questa settimana” prometteva a se stesso, quasi per imporsi di farlo. Poi, regolarmente, non ci andava e allora si riprometteva la visita per la settimana successiva.

Così il tempo trascorreva e con lui velocemente finivano i giorni di donna Concetta Altavista.

Quando la donna cominciò ad avvertire che il suo tramonto era quasi prossimo, prese a implorare il figlio Salvatore affinché soddisfacesse l’ultimo suo desiderio:

«Voglio morire a casa mia, te ne prego!» disse, implorando, al primogenito. «Non farmi morire in questo posto a me estraneo. Qui sono tutti gentili con me, non posso dire male; ma voglio dare l’addio a questa vita là dove questa vita mi ha accolto». E continuò: «In quella casa sono nata e là voglio morire…».

Lo sguardo della donna era di quello di coloro che chiedono una grazia e le sue mani erano quasi in atteggiamento di preghiera.

Salvatore Vizzini era come disperato: avrebbe voluto accondiscendere alle richieste della madre, ma sapeva bene che tutti i suoi tentativi precedenti erano falliti miseramente e che nessuno si sarebbe voluto occupare di donna Concetta Altavista, qualora la madre fosse tornata nella sua casa. Perciò, nonostante ne fosse costernato, dovette ricorrere a banali giustificazioni le quali, per sua fortuna, non erano ben comprese come tali dagli ultimi bagliori di chiarezza  intellettiva della  madre.

«Madre, non è ancora tempo di pensare a queste cose. Deciderà la divina provvidenza quando sarà il momento».

Salvatore Vizzini cercava flagrantemente di cambiare l’argomento in discussione: «Qui ti trovi bene, no? C’è chi ti cura amorevolmente, c’è sempre qualcuno che è pronto a darti una risposta…».

La madre intuiva e con il suo silenzio rappresentava il suo dolore. Donna Concetta Altavista, pure nella nebbia della sua povera mente, aveva compreso che non sarebbe vissuta a lungo e ormai non pensava ad altro che a quello: voleva morire in casa sua!

Ma non fu accontentata.

Nel giorno più triste della vita di Salvatore Vizzini, donna Concetta Altavista se ne andò. Avrebbe voluto passare un’ultima volta sotto la nicchia della Madonna della Grazie, scavata sul frontespizio della sua casa, salutare il fregio nobiliare sovrastante il grande portone di accesso, magari davanti alla folla assiepata nella piazzetta antistante e da lì raggiungere in poco tempo la Chiesa Madre. Le fu concesso il solenne funerale nella Chiesa Madre, ci fu veramente una gran folla a salutarla nella piazzetta, ma non le fu permesso di varcare la soglia di casa sua. Se ne andò diritto al camposanto di Pietralunga, accompagnata dalla sincera stima di tutti i suoi compaesani, i quali piangevano con dolore quell’anima gentile che li lasciava per sempre e nel loro pianto era frammista la stizza nei confronti dei suoi figli, che l’avevano lasciata morire in quella squallida maniera.

«Ecco! Guarda come piangono, ora che la madre se ne è andata» diceva uno.

«Dovevano fare qualcosa prima» dicevano molti altri.

«Cosa volete? Ognuno è per proprio conto in quella famiglia» rispondeva qualcun altro.

«È vero! Uno se ne va ad amoreggiare a Catania, l’altro non riesce a comandare sulla moglie; quell’altra ha la testa alla bella vita romana…».

«Che sfascio!» commentava un altro ancora.

«Guardate come va a finire la donna più buona che si ricordi a Pietralunga!» concludeva un’anziana donna che sin da bambina conosceva donna Concetta Altavista.

La gente sapeva molto poco dei tentativi fatti da Salvatore Vizzini, prima perché la madre non uscisse da casa sua e poi perché non fosse sconfitto il suo ultimo desiderio di morire nella sua casa. Anch’egli, dunque, era incluso nella lista dei peccatori, pure se gli era riconosciuta una enorme differenza rispetto all’altro fratello.

Di Rosario Vizzini invece, sapevano tutti i difetti, e non da allora. Egli aveva saputo farsi conoscere sin da giovane e ormai non aveva più nulla di che farsi scoprire, ma la morte di donna Concetta Altavista in ospizio era la più grave delle colpe che gli erano addebitate; non c’era, per la gente, alcuna giustificazione per questo.

Le lamentele arrivarono alle orecchie di Salvatore Vizzini ed ebbero dentro di lui un effetto squassante. In coincidenza temporale egli cominciò ad accusare una assai fastidiosa sintomatologia, della quale riferì al suo medico:

«Dottore, ho frequenti capogiri, sento come se dovessi cadere da un momento all’altro per terra e mi fa molto male la testa; inoltre, sudo molto e frequentemente, dopo forti vampate di calore che avverto in tutto il corpo».

Il medico lo visitò accuratamente e gli pose alcune domande. Volle sapere qualcosa della sua storia clinica e chiese risposte in merito all’attuale condizione di vita del suo paziente. Non poterono fare a meno di discutere del recente, grosso dispiacere causatogli dalla perdita della madre e questo argomento parve tanto importante al medico da fargli pensare di dover sospendere, a quel momento, di trattare con medicinali la sintomatologia riferitagli dal suo paziente e di fissare un controllo a breve termine. In pratica, il sanitario aveva pensato a una violenta reazione emotiva da parte di Salvatore Vizzini alla scomparsa della madre.

Qualche giorno dopo, al momento del controllo, il paziente accusò nuovamente la precedente sintomatologia e anzi in quella occasione Salvatore Vizzini aggiunse che gli era         successo di cadere a terra durante una delle crisi che egli     descriveva al medico. Spiegò anche che spesso aveva rilevato una forte febbre che, tuttavia, scompariva pressoché immediatamente.

«Credo sia il caso, caro Vizzini, di iniziare una curetta» ne concluse il medico, stavolta maggiormente preoccupato dal racconto del paziente.

«Ma cosa ho?» domandò Salvatore Vizzini.

«Avete una forte reazione emotiva allo stress psicofisico, caro mio. Questa reazione emotiva è alla base delle vostre crisi. Vedrete, comunque, che presto starete meglio, se seguirete questa cura».

Il medico segnò sulla ricetta una serie di medicamenti.

«Ecco qua, questa è per voi. Rivediamoci fra un mese» disse il medico, porgendogli la ricetta.

Salvatore Vizzini ringraziò e andò via. Egli si preoccupò della propria condizione, in particolare quando vide che la terapia prescrittagli non gli dava alcun giovamento. Stante il cattivo rapporto che lo legava agli altri, egli non aveva neanche con chi sfogare le proprie preoccupazioni e, dunque, riceverne sostegno. In un momento di sconforto andò a ritrovare il posto dove da bambino si recava per rappresentare, in tranquillità, i suoi lunghi e silenti monologhi. Si distese sotto un albero e volle carezzare la terra, quasi a cercarvi il conforto. Provò a chiudere gli occhi, lasciando che le palpebre gli carezzassero il volto. Ancora una volta gli ripassò davanti il racconto della sua vita.

“Forse la sofferenza del parto era già un segno della mia vita disgraziata” cominciò a pensare. “Che dolore che ho recato a quella povera donna! Sarebbe stato meglio che io non fossi mai nato! Solo così avrei evitato di farle tanto male”. E continuava: “Tutta colpa dei miei svantaggi; io non sono all’altezza degli altri, non sono un uomo vero! Basta leggere negli occhi degli altri per vedere che anch’essi sono d’accordo. Forse ha pienamente ragione Rosa… Ah! Poveretta anch’ella… In fondo non le ho dato altro che delusioni, dispiaceri e tristezza”.

Nel frattempo non si era accorto che stava maltrattando ossessivamente il gambo di un povero fiore, il quale stava pagando per colpe non sue.

“Certo, lei avrebbe dovuto aiutarmi, comprendermi” continuò Salvatore Vizzini, “essere più disponibile nei  confronti di mia madre… Anche per i miei disturbi, anche per quelli avrebbe dovuto aiutarmi, invece che mandarmi a quel paese…”. A questo punto si impadronì di lui lo scoramento. “Forse, però, ha ragione lei: non valgo niente! Non avrei meritato neanche di vivere…”.

E dopo una breve pausa: “Forse l’unica cosa  che potrei fare, per riscattarmi, sarebbe quella di sapere morire. Ecco! Questa è la soluzione del tutto, proprio questa!”.

A quel punto lo colse un attimo d’abbandono; si lasciò andare e fu come se si fosse addormentato. Durò un attimo, molto intensamente vissuto, decisivo per quell’uomo.

Salvatore Vizzini sognò di trovarsi nella casa materna; si trovava nel grande salone, seduto sul divano dove preferiva di solito riposare donna Concetta Altavista. Egli aveva in braccio il figlioletto, e lo cullava dolcemente, nel mentre che gli cantava una dolce nenia. Provò nel sogno un’indicibile sensazione, bellissima, di dolcissimo affetto. Giusto in quell’attimo si risvegliò e sentì come se il cuore gli fosse finito in gola. Un dolce risveglio!

Fortunatamente la gioia che aveva assaporato non si sciolse e spezzò la sua angoscia, determinando un grande attaccamento alla vita.

Allora sentì l’impulso irrefrenabile di correre a casa e quando vi arrivò, affaticato e ansimante, corse ad abbracciare Giuseppe. Lo strinse forte forte, sin quasi a soffocarlo.

«Papà… papà…» esclamò il figlio, fra lo stupore e il dolore della stretta.

«Figlio mio… figlio…» farfugliò il padre.

Rosa Carlino assisteva a quella scena per lo più incuriosita e desiderosa di sapere cosa, in effetti, stesse succedendo. Scene d’affetto così intense erano inconsuete in quella casa, e perciò quell’abbraccio destò meraviglia, tanta meraviglia.

Il piccolo Giuseppe avrebbe conservato a lungo il ricordo di quella vivida scena d’amore, tanto in contrasto con le frequenti liti coniugali che precedettero e seguirono quel giorno.

Sì, perché la morte di donna Concetta Altavista non aiutò affatto il miglioramento delle relazioni famigliari del più grande dei due fratelli Vizzini. Al contrario, venendo meno il punto di riferimento stabile, tutti scoprirono il vuoto che la donna aveva lasciato, incolmabile e insanabile. Ne risentì maggiormente Salvatore Vizzini, il quale doveva pure provare, da lì a poco, l’ennesimo, grave, sforzo nel tentativo di salvare il poco che ormai restava da poter salvare della buona memoria dei genitori.

La scomparsa della madre determinò il passaggio della proprietà, le poche rimaste, ai due fratelli: Salvatore e    Rosario.

Quest’ultimo non ne seppe fare, al solito, buon uso.

Egli aveva già fornito ampia prova di capacità di dilapidare tutte le ricchezze che gli erano passate, di volta in volta, fra le mani e anche questa volta egli non seppe smentirsi. Come suo solito, egli aveva accumulato una serie di debiti, economici e di riconoscimento; aveva da pagare creditori, ma aveva anche da mostrare a Tina Corrieri che egli non era un morto di fame e che poteva contare qualcosa, anche dal punto di vista economico.

La giovane vedova era stata sempre assai prodiga con Rosario Vizzini, ma se da un lato questo lo aveva gratificato, per l’immediata soddisfazione di talune necessità impellenti, dall’altro gli aveva fatto vivere un senso d’inferiorità, di subordinazione, al quale Rosario Vizzini voleva sfuggire, e al più presto. Finalmente gli fu offerta l’occasione: non appena venuto in possesso della sua parte di proprietà egli non pensò altro che a venderla, a tramutarla in moneta sonante. Tale suo intendimento fu appena contrastato da Vanda Mileti, la quale, in effetti, avrebbe preferito non vendere la proprietà. Fu facile, comunque, al marito superare la sua modesta resistenza.

Vanda Mileti, anche lei, ormai viveva una vita autonoma, quasi del tutto scissa da quella del marito. C’era chi provvedeva per lei, per soddisfare le sue esigenze; del resto poco le importava, pure di quello che faceva il marito. Non fu molto difficile, pertanto, a Rosario Vizzini convincere la moglie circa l’esattezza della sua decisione.

Al contrario, il fratello Salvatore oppose un’accanita resistenza:

«È vergognoso che quel poco che rimane del ricordo della nostra famiglia sia venduto per poche lire e che venga così  maldestramente liquidato ogni sacrificio dei nostri antenati!».

Salvatore Vizzini fece sapere al fratello della propria indignazione, ricevendone in cambio solo picche.

Rosario Vizzini non aveva di quei sentimentalismi: aveva ben altro per la mente! Egli, perciò, non diede alcun credito al messaggio del fratello.

Salvatore Vizzini fu costernato dalla insensibilità con cui Rosario aveva eliminato la questione.

Ne volle parlare con la moglie, quasi in un impeto di necessità di comprensione:

«Quello sciagurato vuole vendere tutto…» disse a Rosa  Carlino.

«Può farlo: è lui il comproprietario» rispose freddamente la moglie.

«Ma non capisci? Cosa rimarrà, allora, della nostra famiglia, del ricordo dei miei?».

«Non è colpa mia» commentò Rosa, quasi a scusarsi da eventuali accuse da parte del marito.

«Lo so che non è colpa tua! E allora? Forse che con ciò abbiamo risolto il problema? Basta affermare che non è colpa tua per giustificare che tutto è allo sfascio, che tutto vada a rotoli, senza possibilità almeno di porvi rimedio?».

«Non vedo cosa possa farci tu, per evitarlo» si sentì replicare Salvatore Vizzini.

«Io devo evitarlo! Non so come, ma devo evitarlo».

L’uomo si mise a muoversi disordinatamente, senza un obiettivo preciso.

«Non penso di assistere a questo sfacelo senza tentare di intervenire» aggiunse deciso.

«Non capisco» lo interruppe Rosa Carlino. «Non capisco quali mezzi tu abbia a disposizione».

La moglie non poté nascondere la sua meraviglia.

«Hai già provato a convincerlo, quello sciagurato di tuo fratello, ma hai avuto la risposta che hai avuto; dunque…».

«Sì, è vero; quell’irriguardoso di Rosario quasi ha sorriso di fronte alle mie rimostranze; ciò, tuttavia, non mi esime dal tentare una soluzione».

«Non ti capisco più» disse la moglie, rappresentando con il suo atteggiamento il giudizio nei confronti delle parole del marito.

“Chissà cosa sta pensando” disse fra sé e sé Rosa Carlino. “Non sa fare altro che creare dei problemi, per poi non risolverli…”.

La donna continuò nella sua occupazione del momento, ma, all’improvviso, la sua relativa calma fu interrotta dal marito.

«Comprerò tutto io!» affermò con gran piglio Salvatore Vizzini.

«Come?».

«Sì! Comprerò tutto io».

«E pagherai con l’erba del vicino? O con che cosa?» replicò Rosa Carlino.

«Pagherò! Pagherò!» le rispose il marito.

Rosa Carlino ebbe una reazione che era un misto fra l’incredulità e la rabbia. Da un canto pensò si trattasse della solita stranezza del marito, ma dall’altro, conoscendone la testardaggine, ebbe paura che egli potesse fare veramente ciò che aveva annunciato. Ella volle soprassedere, nell’attesa di capire quali fossero i reali intendimenti del marito, ma nei giorni a venire poté costatare come Salvatore Vizzini continuasse a proclamare le sue decisioni.

Si decise, pertanto, a parlargliene.

«Non capisci che così rischi di mandare sul lastrico anche noi? Come potrai mai pagare i debiti di una simile operazione? Pensa almeno a lui…» aggiunse, rivolgendosi verso il figlio Giuseppe.

«Non preoccuparti, per quanto difficile sia supererò questo duro momento. Nessuno potrà affermare che io ho permesso che il ricordo della mia famiglia fosse così infangato e il primo a esserne orgoglioso sarà proprio lui».

«Così facendo riuscirai solamente a mettere a repentaglio anche la nostra proprietà, quel poco che ci è rimasto!».

Rosa Carlino non poté celare la sua gran preoccupazione.

«Prenderanno le ipoteche e ci toglieranno tutto! Pensaci prima di farlo; si tratta di una pazzia!».

Salvatore Vizzini rimase irremovibile.

Egli si diede un gran da fare e andò a bussare alla porta di tutti i vecchi amici dei genitori, tutte persone allocate e di buona posizione sociale. Ad essi prospettò l’idea di salvare dalla vendita a estranei il patrimonio familiare, o quello che di esso rimaneva.

La sua patetica opera di convinzione non sempre trovò la disponibilità degli interlocutori. Tutti quelli, infatti, conoscevano le condizioni economiche di Salvatore Vizzini, le cui potenzialità erano ormai quelle di un comune impiegato; essi temevano, perciò, e forse ne erano del tutto convinti, che egli non potesse poi onorare gli impegni che intendeva assumersi.

Fu giocoforza, dunque, che Salvatore Vizzini accettasse le pesanti condizioni impostegli da quei pochi che vollero concedergli l’opportunità di provare a salvare l’onore degli Altavista, prima ancora che quello dei Vizzini.

Gli chiesero di garantire tutti i prestiti che riceveva e perciò egli dovette impegnare tutto quello che aveva, financo i mobili di casa sua. Solo i vestiti che avevano addosso, lui e i suoi famigliari, rimasero sottoposti al loro arbitrio; tutto il resto non più apparteneva loro pienamente.

Da quel giorno nella casa di Salvatore Vizzini imperò il verbo risparmiare, il quale, come un despota, diresse ogni minimo comportamento dei membri della famiglia. Si risparmiava su tutto, alimentazione compresa, e al piccolo Giuseppe furono negati anche i modesti piaceri della sua età.

Per un lungo periodo, insomma, in quella casa regnò il segno della rinunzia.

Com’è facilmente intuibile, ciò non poté che accentuare la conflittualità fra i due coniugi e la loro relazione raggiunse i più bassi livelli qualitativi di tutta la loro convivenza. Era un continuo contrasto, un rispettivo scambio d’accuse, le più pesanti, e non ci fu più occasione capace di rammentare che un legame, seppure formalmente li univa.

Ne risentì particolarmente il figlio Giuseppe, il quale si trovò nella scomoda situazione di un ragazzo amato dalla madre e dal padre, ma non da entrambi insieme.

Il ragazzo ricambiava l’affetto dei suoi genitori e ardeva dentro di lui il desiderio di poterli amare contemporaneamente e non singolarmente, come aveva dovuto fare fino allora.

C’era sempre, infatti, uno dei due che lo accompagnava a scuola e c’era chi andava a riprenderlo; spesso qualcuno lo portava a passeggio o a trovare amici e parenti; mai, però, la famiglia era al completo, mai i tre insieme.

Solo la tavola apparecchiata li trovava vicini, ma quasi sempre in silenzio. Era un silenzio che pesava a tutti e che si faceva sentire dolorosamente, in particolare nei momenti di difficoltà, quando si ha voglia di raccogliere una parola affettuosa da chi ci sta vicino e quei momenti si susseguivano numerosi, in seguito al gravoso compito che Salvatore Vizzini si era assunto. Spesso, infatti, egli venne a trovarsi in difficoltà a corrispondere quanto dovuto ai creditori. Quando arrivavano quei momenti egli non si trovava mai qualcuno disposto a tendergli la mano né chi, almeno, si fermasse a raccoglierne lo sfogo liberatorio.

Ironia della sorte, qualche volta non poté fare a meno di chiedere aiuto al suo capo ufficio, giusto a colui il quale egli aveva imputato di non averne le discendenze e il blasone degli Altavista; giusto quello veniva a trovarsi nelle vesti del benefattore!

Fu una grande umiliazione per Salvatore Vizzini chiedere per la prima volta aiuto a chi aveva egli espresso tante e tante volte il suo disprezzo. Salvatore Vizzini si sentì piccolo piccolo, quanto il più minuscolo uomo della terra; ma dovette farlo, non avendo altre possibilità…

Non c’era un amico, non un parente che fosse disponibile ad aiutarlo; né più banche o finanzieri che fossero disposti a concedergli credito.

Salvatore Vizzini visse quella triste esperienza come quella di un questuante che chiede aiuto in nome della famiglia da salvare e, siccome egli conosceva bene il carattere duraturo del suo stato di necessità, quasi si abituò a quella umiliazione e, pur provando dentro di sé moto di ribellione, non provava più che uno sfumato senso di ira nei confronti del capo ufficio.

Quello, da parte sua, non mancava certo di far pesare il suo gesto, di fargli sentire per intero la superiorità che da esso gliene derivava e che pretendeva gli fosse riconosciuta. Era, insomma, l’occasione di rivalsa da tanto tempo attesa avverso le precedenti espressioni di superiorità urlategli in faccia da Salvatore Vizzini.

Quest’ultimo, come dicevamo, si era, per così dire, accomodato a quella situazione e l’umiliazione, inizialmente vissuta, cedeva gradualmente il passo a una rassegnazione che era sostenuta solo dall’orgoglioso tentativo che stava compiendo.

Tante tristezze, comunque, non passavano senza lasciare il segno e si fecero ben conoscere attraverso i continui disturbi che Salvatore Vizzini accusava, e, soprattutto, nell’affievolirsi della fiducia che egli aveva di riuscire nel suo immane tentativo. Lentamente, infatti, scemò la certezza nella riuscita dell’arduo compito, ogni volta che il pesante fardello dei debiti si arricchiva di nuove presenze. A un certo punto Salvatore Vizzini si trovò nella assoluta impossibilità di far fronte agli impegni e dovette rassegnarsi a una decisione che fu tanto amara quanto quella di bere nel calice la cicuta, contro la quale aveva raccolto tutte le sue energie e che aveva comportato enormi sacrifici per tutta la sua famiglia.

Non poteva, tuttavia, farne più a meno.

Decise di vendere l’ultimo appezzamento di terra che gli rimaneva, nonostante rappresentasse una fonte di reddito aggiuntivo al modesto stipendio, per via dei frutti che dava.

Salvatore Vizzini si trovò di fronte alla eventualità di dover scegliere fra la cessione di quel pezzo di terra e la cessione della grande casa che fu degli Altavista.

Non ebbe esitazione al riguardo e, per una volta almeno, si trovò d’accordo con Rosa Carlino.

La casa, seppure avrebbe prodotto meno di quanto non facessero le terre che andava a vendere, aveva un significato simbolico e un valore emozionale impagabili per Salvatore Vizzini. Egli mai e poi mai avrebbe accettato di cedere quella proprietà, giacché solo essa avrebbe potuto ormai rappresentare almeno una piccola testimonianza della vecchia magnificenza e del vecchio blasone famigliare, per mantenere alto il quale egli si era sobbarcato di tanti debiti e aveva accettato tante privazioni.

Dunque, vendette la terra.

Non fu un buon affare, perché i compratori sapevano della necessità economica del venditore e le offerte furono, perciò, al ribasso.

Salvatore Vizzini tentò disperatamente di salvarsi da quella specie di trappola, ma non poté fare molto.

I soldi che ricavò bastarono a fronteggiare le impellenze e a saldare quasi tutti i debiti, del che fu felice Rosa Carlino, la quale si era ormai accontentata di avere almeno il possesso di una casa, di un tetto e delle pareti, che potessero sicuramente proteggerla. Al resto lei aveva dato poca importanza. I suoi progetti si erano ridimensionati sino al punto di accettare l’ipotesi di una modesta, ma tranquilla, esistenza e aveva anche perso la gran parte del suo orgoglio e quasi tutta la sua vanità.

Pensava più che altro a un futuro tranquillo per il figlio Giuseppe, mentre per sé ormai chiedeva poco.

Salvatore Vizzini visse, invece, un totale senso di sconfitta: la rinuncia al progetto di tenere salda l’intera proprietà famigliare residua gli lasciò dentro una profonda delusione, che aveva avuto l’effetto di una frana che si abbatte sulle fragili vestigia di un tempio antico. Egli tornò a isolarsi, a vivere nel mondo come immerso nel buio e nel silenzio; perse la sicurezza che aveva sostenuto il suo tentativo e cominciò a vacillare la fiducia nella sua capacità di poter sopravvivere almeno sufficientemente bene in quella situazione.

Tornò a farsi visitare dal suo medico e ancora una volta ne ricevette scarso aiuto. Provò ad aiutarlo persino Rosa Carlino, ma fu inutile.

Salvatore Vizzini era tornato nel triste stato in cui era quando morì la madre e non passava giorno che egli non ripensasse a quella grave perdita.

Intanto, come ogni anno, era arrivato il giorno della festa della Madonna delle Grazie e tutto il paese di Pietralunga esprimeva la sua felicità nelle strade bardate a festa e nei preparativi che precedevano il festoso incontro delle famiglie.

Quello era da sempre il giorno più importante dell’anno in casa Altavista, e lo fu fino a quando brillò la luce della vita in donna Concetta Altavista.

Da giorni e giorni fervevano i preparativi ed ella curava nei minimi dettagli ogni particolare della festa: gli inviti al pranzo, l’abbattimento di ogni discordia e l’accurata presentazione della casa agli ospiti.

La servitù era felice di adoperarsi per quella donna tanto amata e non si tirava indietro di fronte al faticoso e incessante adoperarsi alla riuscita della festa, poi motivo di gioia per tutti.

Veniva l’ora della processione e della profonda emozione del momento in cui la folla si fermava di fronte alla casa degli Altavista per pregare.

Quei momenti di gioia erano fissati nella mente di Salvatore Vizzini, come scalfiti in una roccia.

Amaro, molto amaro, era dunque il contrasto fra il ricordo e la realtà del momento, un contrasto che creava dentro di lui un vuoto ormai incolmabile.

Alla fine del pranzo, che Rosa Carlino aveva preparato facendo ricorso alla sua migliore arte culinaria, Salvatore Vizzini chiese al figlio:

«Vuoi uscire con me, Giuseppe?».

«Sì, papà» rispose felice il ragazzo.

«Vestiti, dunque» gli disse il padre, alzandosi per significare la sua voglia di fare in fretta.

«Dove andate?» chiese Rosa Carlino.

«Torniamo presto» rispose il marito, abbozzando un sorriso.

Salvatore Vizzini strinse la mano al figlio e insieme si incamminarono.

Si fermarono solo quando si trovarono di fronte a una lapide, la quale testimoniava lo splendore della donna che teneva nascosta sotto la terra.

E pregarono.

 

 

 

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